martedì 31 gennaio 2012

I registi 7 - Lucio Fulci

LUCIO FULCI
Il western della crudeltà


Lucio Fulci nel corso della sua carriera ha saputo guadagnarsi un culto imperituro da parte degli appassionati dei film dell’orrore, che lo hanno omaggiato con pubblicazioni, siti internet e simpatici appellativi come Poeta del macabro o Godfather of gore. Ma se le pellicole horror-splatter sono indubbiamente quelle che hanno donato al regista notorietà internazionale e attenzione da parte della critica sarebbe ingiusto e colpevole tralasciare tutto il resto della sua produzione, che spazia senza soluzione di continuità dalla commedia al giallo, dal poliziesco al thriller, dal fantasy fino al western in un lungo e interessante percorso di decostruzione e scardinamento, tramite gli eccessi visivi e le sequenze viscerali e scioccanti, delle regole narrative e dei canoni consolidati del cinema popolare e che hanno fatto coniare per sé stesso dal regista l’indovinata definizione di “terrorista dei generi”.

I tre western fulciani (i due film di Zanna Bianca non sono propriamente ascrivibili al filone e saranno da noi analizzati in successiva trattazione) ci fanno rammaricare che il regista non si sia dedicato con più continuità al genere e ci appaiono molto importanti perché oltre a un indiscutibile bagaglio tecnico evidenziano (soprattutto i primi due, mentre il terzo, a dimostrazione della varietà di toni e stili del regista, è un più convenzionale film per famiglie) già tutte quelle caratteristiche di crudeltà artaudiana, rarefazione del plot, messinscena onirica ed estrema violenza grafica proprie di quel “cinema della crudeltà” che lo renderanno famoso negli anni ottanta.

1966 LE COLT CANTARONO LA MORTE E FU… TEMPO DI MASSACRO di Lucio Fulci, con Franco Nero, George Hilton, Nino Castelnuovo, Giuseppe Addobbati, Tom Felleghy


Se questo primo western di Lucio Fulci, interamente girato nella campagna laziale, è da un lato ancora ancorato a certi stereotipi e ingenuità del genere dall’altro è già assolutamente notevole per crudeltà, sadismo ed iperviolenza.
Il suo punto debole è forse la sceneggiatura di Fernando Di Leo – firma “storica” di tantissimi copioni del western all’italiana (compresi, non accreditato, quelli di Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più) e che successivamente avrà una lunga carriera come regista di film noir, che gli varranno il soprannome di Jean-Pierre Melville o Don Siegel italiano – piuttosto robusta, ma un po’ troppo intellettualistica e poco appropriata per un western, soprattutto per l’esacerbazione delle componenti psicanalitiche e di tragedia greca.
La regia di Fulci, invece, è secca ed efficace, spinge ovviamente sui toni cupi e feroci e si esalta nelle strepitose scene di sparatorie e violenza, tutte ottimamente coreografate e da cui già traspare la passione del regista per i dettagli e i primi piani crudeli e scioccanti. Il parossismo si raggiunge nella mezzora finale: un lungo, ininterrotto susseguirsi di uccisioni – il massacro del titolo – che si conclude in maniera pacificatoria con un frullare di colombe alla John Woo.


Ottimo il cast degli attori, interamente maschile: a un Franco Nero che sembra nato per recitare nei film western fanno da contraltare un bravissimo Nino Castelnuovo nella parte dello psicopatico debosciato e morbosamente legato al padre, perennemente vestito di bianco e con la frusta in mano, e un George Hilton al suo esordio nel western italiano, di cui poi diventerà uno dei volti di riferimento, nel ruolo dell'ubriacone infallibile con la pistola, una specie di versione spaghetti western del Dean Martin di Un dollaro d’onore.

1975 I QUATTRO DELL’APOCALISSE di Lucio Fulci, con Fabio Testi, Lynne Frederick, Michael J. Pollard, Harry Baird, Tomas Milian


Uno tra gli ultimi, i migliori e i più violenti western italiani mai girati, nel quale Lucio Fulci fa le prove generali di ferocia per quel “cinema della crudeltà” che lo renderà famoso nel decennio successivo.
E' un nerissimo viaggio on the road nel cuore di tenebra del genere, al seguito di quattro personaggi disadattati e borderline costretti a fare i conti con una realtà fatta di soprusi, sopraffazione, disperazione e violenza, in una galleria degli orrori comprendente torture, stupri, follia e cannibalismo.
Piuttosto sfilacciato sul piano narrativo – Fulci affermava che la sceneggiatura di Ennio De Concini ispirata ai racconti dello scrittore western Francis Brett Harthe non gli piaceva e quindi volle concentrarsi più sul come raccontare che sul cosa, ma in realtà la narrazione per immagini prive di consequenzialità, come pure il gusto per il close-up cruento e scioccante, diverrà proprio il suo caratteristico marchio di fabbrica negli horror successivi – il film funziona più per singoli blocchi di sequenze, nelle quali la contrapposizione tra una fotografia elegante e piena di luce e l’atrocità del narrato si sublima in momenti di grande pathos e sconcertante bellezza.


Tomas Milian – che per il suo memorabile personaggio di Chaco ha dichiarato di essersi ispirato a Charles Manson – ovviamente giganteggia su tutti, ma sono benissimo in parte anche Fabio Testi, l’americano Michael J. Pollard (reduce da Gangster Story) e la bellissima e sfortunata Lynne Frederick nel ruolo di una prostituta protagonista di una toccante scena di parto e di morte che sembra un omaggio rovesciato a quella di Ombre Rosse.

1978 SELLA D’ARGENTO di Lucio Fulci, con Giuliano Gemma, Geoffrey Lewis, Sven Valsecchi, Ettore Manni, Donal O'Brien, Gianni De Luigi, Cinzia Monreale, Licinia Lentini, Aldo Sambrell, Philippe Hersent, Karine Stampfer


Uno degli ultimissimi “spaghetti” e un classico delle programmazioni estive della Tv anni 80. Rivisto oggi è un filmetto simpatico, nel complesso più che dignitoso e ben confezionato, a cominciare dalle ottime scene d’azione. In fondo fa parte dei molti tentativi dei 70 di contaminare il western con altri generi. In questo caso si tenta l’innesto con il filone dei film con bambini-dal-caschetto-biondo che allora andavano per la maggiore, con titoli come Incompreso, Piccolo Lord e tutta la sfilza dei film strappalacrime interpretati dal leggendario Renato Cestié, con mitici titoli da funerale tipo L’ultima neve di primavera.
Bisogna dire che, a parte l’imbarazzante scivolata finale (la puerile trovata del bambino che cavalca al fianco di Gemma su un pony bianco), Fulci gestisce la parte sentimentale molto bene, correggendola con l’ironia e un tono tutto sommato asciutto. Il problema è che i bambini nei western proprio non funzionano nei ruoli di primo piano ("Il cavaliere della valle solitaria" eccezione che conferma la regola), in un modo o nell'altro la loro presenza da al tutto un che di dolciastro e posticcio. E anche in questo caso l’impressione generale è quello di un’occasione sprecata, del potenziale ottimo western sabotato dall'innesto sentimentale. Anche se, tutto sommato, il target per famiglie a cui mira il film ci evita le cadute nel triviale di tanto tardo western nostrano.


Comunque il western “per bambini” secondo Fulci prevede: ammazzamenti in ogni grado di trucidità, sanguinolenti primi piani di buchi in fronte, bambini frustati, o che tirano a loro volta schioppettate nella schiena di qualcuno, un bordello pieno di simpaticissime puttane dal cuore d’oro e dall’inequivocabile daffare, frati garrottati e impiccati, un grande Geoffrey Lewis che depreda i cadaveri e spara ai moribondi con la doppietta, un nostalgico Aldo Sambrell che rimembra di quando violentava le suore e poi le crocefiggeva… decisamente il politicamente corretto non era ancora di moda.

Mauro Mihich e Tommaso Sega

lunedì 30 gennaio 2012

Anthony Mann 2 - Le Furie

1950 LE FURIE (The Furies) di Anthony Mann. Con Barbara Stanwyck, Walter Huston, Wendell Corey, Gilbert Roland, Judith Anderson.




Piú che un western un ingessato drammone in abiti western, teatrale e un poco antiquato, che fa specie sapere successivo al fiammeggiante e modernissimo Winchester ‘73: non stupisce sia uno dei capitoli meno celebrati della carriera di Mann. Non un brutto film comunque, anzi: fatto il callo all’atmosfera seriosa e ai toni stentorei, irrimediabilmente datati dei dialoghi – non aiuta il vetusto doppiaggio, che aggiunge improbabili citazioni in latino e italianizza maldestramente i nomi – si possono apprezzare le tinte forti da tragedia, suggerite sin dal titolo – le Furie o Erinni nella mitologia greca erano tre sorelle, personificazione della Vendetta – e le inevitabili implicazioni psicanalitiche, riassunte nel perverso rapporto di amore-repulsione che unisce la giovane e impetuosa Vance al padre, megalomane e tirannico. Non mancano i rimandi a Shakespeare, consuetissimi in Mann: il vecchio Jeffords rinvia direttamente a Lear, anticipando per molti versi l’Alec Waggoman dell’Uomo di Laramie, ma si individuano facilmente anche collegamenti con La bisbetica domata, senza dimenticare influenze dostoevskijane (L’idiota soprattutto), indicate dallo stesso Mann. L’eredità letteraria è insomma cospicua, e se da un lato costituisce un indubbio motivo d’interesse, dall’altro incombe sulla pellicola come un peso gravoso, talora spossante, di cui in qualche modo sembra risentire il regista stesso. Mann infatti, concordemente alla materia narrata, sfoggia uno stile insolitamente compassato e flemmatico, che trova sfogo soltanto nelle poche, ma memorabili, sequenze d’azione: strepitose la sparatoria notturna presso la proprietà degli Herrera, famiglia di abusivi che Jeffords vuole scacciare dalle “Furie”, e la conseguente impiccagione del capofamiglia. Nel cast, oltre alla Stanwyck, bravissima - pur con un che di fastidiosamente accademico - nel rendere un personaggio complesso e mutevole, svetta il grande Gilbert Roland, attore splendido e poco fortunato che troverà il ruolo della vita soltanto a carriera cinematografica praticamente finita in un misconosciuto gioiello del western italiano, Ognuno per sé di Giorgio Capitani. La scura e violenta fotografia, quasi da noir, aggiunge tenebre ad una Frontiera ferma al Medio Evo, in cui, come ricorda l’iscrizione iniziale, i feudatari sono sostituiti dai proprietari terrieri in un delirio di grandezza e dominio, fra busti di Napoleone e una miseria sotterranea, inconfessabile e spaventosa. Le Furie, a differenza della maggior parte dei western manniani, non è passato indenne alla prova del tempo: eppure conserva, forse proprio in virtú di questo, un fascino strano, una potenza indefinibile e inquietante. Come fosse scritto da un Eschilo che abbia per chissà quale meccanismo valicato le barriere spazio-temporali, giunto fino a noi per ribadire uno dei suoi ancestrali, terribili moniti.

Paolo D'Andrea

domenica 29 gennaio 2012

le monografie 2 - I film di Sartana

SARTANA!
...il diavolo, probabilmente

Tra le mancanze dei produttori nostrani nella gestione della stagione del western italiano c'è da mettere in conto anche l'incapacità di tutelare i nomi dei personaggi simbolo del genere, tutti sfruttati e usati fino alla nausea per ogni genere di produzione. Più ancora dei vari Django e Ringo, a farne le spese è stato il personaggio di Sartana, il cui nome ancora oggi viene associato alle peggiori produzioni di serie Z. Anche a causa dei titoli surreali che distinguono la serie, roboanti e funerei, facilmente utilizzabili per giochi di parole e battute.
Sfortuna critica e cattiva fama paradossali, perché tra tutti gli antieroi degli "spaghetti" Sartana è l'unico ad essere stato protagonista di una saga regolare e ufficiale, curata e coerente. Sartana è praticamente il James Bond del nostro cinema. Non solo per via delle trame intricatissime e dei gadget di cui si serve il protagonista, caratteristiche evidentemente riprese dalla serie di 007, ma anche per lo stile elegante e pop dei film.



La serie di Sartana conta ben cinque film ufficiali, tutti diretti dall'elegante Giuliano Carnimeo, tranne il primo diretto da Gianfranco Parolini. Se Carnimeo è stato il motore della serie, Parolini è stato l'inventore del personaggio, una volta estromesso dalla serie Parolini infatti cercò in tutti i modi di ricrearne uno simile, inventandosi il Sabata di Lee Van Cleef e l'Indio Black di Yul Brinner. Ma Sartana vive soprattutto del fascino del suo interprete: Gianni Garko. Faccia tra le più memorabili del nostro cinema western, miglior emulo di Clint Eastwood, attore carismatico e versatile, il biondo Garko (che aveva già interpretato un personaggio di nome Sartana nel bellissimo Mille dollari sul nero) dona al personaggio un' aria aristocratica e misteriosa, con un che di costantemente minaccioso in sottofondo. Meno incisivo sarà il Sartana interpretato da George Hilton.

"Mi ha fatto paura... per un attimo mi è sembrato un fantasma!" dice un personaggio alla primissima apparizione di Sartana. E in effetti Sartana è un personaggio piuttosto spettrale, anche se più che un fantasma, visto anche il nome, potrebbe essere il diavolo in persona. Come il diavolo sparisce e riappare a suo piacimento, imprendibile e sulfureo. A differenza dello straniero senza nome dei film di Leone, che a un certo punto veniva umanizzato facendogli sorbire un pestaggio, Sartana non viene mai catturato o torturato, a meno che non lo decida lui per i suoi scopi. I suoi avversari raramente lo mettono in difficoltà, il divertimento sta nel vedere dove e quando Sartana salterà fuori e con quale trucco li ucciderà ogni volta. Bounty-killer, becchino, gambler, avvoltoio: la sua unica ragione di vita sembra essere l'oro, che strappa dalle mani di personaggi identificabili come cattivi solo perché relativamente più avidi e spietati di lui.


1968 ...SE INCONTRI SARTANA, PREGA PER LA TUA MORTE di Gianfranco Parolini
con Gianni Garko, William Berger, Klaus Kinski, Fernando Sancho, Sidney Chaplin, Sal Borgese

La serie si apre con un filmaccio tagliato con l'accetta a tutti i livelli, ma divertentissimo. Tutto il film è praticamente una sequela infinita di ammazzamenti. Il body-count è stellare, occhio e croce si vedranno accoppare tra le settanta e ottanta persone. Carogne che uccidono altre carogne e alla fine restano in piedi il protagonista e il becchino. Tutti (ma proprio tutti) fanno il doppio e triplo gioco, tentando di fregare gli altri. Nessun personaggio sembra sfiorato dal minimo senso di umanità, men che mai il gelido e spiritato protagonista, che si aggira per il film intrigando e accoppando al pari degli altri. Anzi, il più simpatico è proprio il più carogna di tutti: il Lusky di un grande William Berger, capace di compiere stragi con la sua mitragliatrice o accoltellare la sua amante sempre con un solare sorriso stampato in viso. Fernando Sancho fa uno dei suoi cento finti generali messicani pieni di patacche e riesce sempre ad essere divertente. Particina anche per uno spietato Klaus Kinski, che esce di scena molto presto, ma con una morte degna di nota; verrà ripescato nel film successivo. Niente di che il resto del cast, ma tanto i personaggi restano in scena al massimo due o tre scene prima di finire tutti accoppati. Qualche svarione nell'intrigo, ma non è evidentemente la trama ciò che conta.


1969 SONO SARTANA, IL VOSTRO BECCHINO di Giuliano Carnimeo Con Gianni Garko, Frank Wolff, Klaus Kinski, Gordon Mitchell, Ettore Manni, Sal Borgese, Renato Baldini, Rick Boyd, José Torres

Notevole salto di qualità della serie, che dal ruspante Parolini passa nelle mani del più raffinato e sofisticato Carnimeo. Uno dei classici di tutto il western all'italiana. Memorabile fin dalla strepitosa colonna sonora e gli spettacolari titoli di testa su sfondo rosso, tutti giocati sugli elementi distintivi di Sartana. Coloratissimo e stilizzato il film porta alle estreme conseguenze il lato gioiosamente macabro del genere. Assistiamo quindi ad un' altra iperbolica girandola di stragi e omicidi, con Sartana che si distingue dagli altri solo perché più abile ad ammazzare e a non farsi ammazzare. Se non fosse per la divertita aria pop e da fumetto che si respira, la visione del mondo proposta dal film sarebbe spaventosa, con un cumulo di personaggi senza alcun freno morale, accecati solo dalla più bieca avidità. La trama è intricata a livelli surreali, il che permette agli autori di sbizzarrirsi in colpi di scena e sequenze ad effetto a ripetizione. Esplosiva la galleria di personaggi messi in scena, a cominciare dalla schiera di bounty killer che si mettono sulle tracce di Sartana, ingiustamente ricercato per una rapina. Il film conta su facce mitologiche del genere come Frank Wolff, Gordon Mitchell, Sal Borgese, Rick Boyd, José Torres, Ettore Manni. Si ritaglia quasi un film tutto suo uno strepitoso e divertentissimo Klaus Kinski, nella parte del biancovestito Hot Dead, gambler incapace di giocare a poker(!), che fa il bounty killer solo per ripagare i debiti di gioco.



1970 BUON FUNERALE AMIGOS... PAGA SARTANA di Giuliano Carnimeo
con Gianni Garko, Daniela Giordano, George Wang, Ivano Staccioli, Helga Liné, Luis Induni, Franco Ressel, Rick Boyd

Bello quasi come il precedente e un po' diverso: è il più serio e il meno ironico di tutti i film di Sartana, quello più concentrato sulla trama gialla e misteriosa. Molto cupo e quasi gotico, visto anche il gran numero di sequenze notturne, girato quasi come fosse più un thriller che un western. Pochissimi gadget e nessuna scenografia fantasiosa. Ad un Sartana più sulfureo e fantasmatico che mai, fanno da contraltare non i soliti avversari pittoreschi, ma personaggi ambigui e sfuggenti che si muovono nell'ombra. Unica nota di colore la riuscitissima figura di biscazziere cinese (il "cinese di Roma", George Wang), protagonista del bellissimo e beffardo finale. L'aria pop del film sta tutta nell'eleganza e cura dello confezione: regia stilizzatissima, fotografia dai colori saturi, colonna sonora di gran classe. Forse è il capitolo che più mostra i debiti di Sartana con 007, tanto che stavolta il suo interesse non è concentrato unicamente sull'oro, visto che va persino a letto con una gran bel pezzo di figliola (Daniela Giordano), anche se non del tutto disinteressatamente. Il numero dei morti ammazzati è insolitamente basso per gli standard della serie, "appena" poco più di una ventina, quasi tutti defunti nei ripetuti attentati a Sartana che costellano il film. Qui come nel prossimo film Garko ha i baffi.


1970 UNA NUVOLA DI POLVERE... UN GRIDO DI MORTE... ARRIVA SARTANA di Giuliano Carnimeo con Gianni Garko, Nieves Navarro, Piero Lulli, Bruno Corazzari, Frank Braña, Massimo Serato, Renato Baldini, Sal Borgese

Tornano dosi più massicce di ironia e la serie continua a funzionare come un meccanismo ben oliato. C'è il solito intrigo, stavolta talmente complicato da sfiorare l'incomprensibilità. Come se non bastasse ci sono pure dei flashback menzogneri stile "Rashmon". Non manca la solita caterva di morti ammazzati, attentati, omicidi, doppi e tripli giochi. Se da una parte Carnimeo sembra già voler spostarsi verso i toni più grotteschi e acri dei suoi film successivi con Hilton, il Sartana di Garko diventa un personaggio assolutamente surreale e pop, vero e proprio precursore della moda dello steampunk visto i gadget assolutamente deliranti di cui si serve, tra cui un organo a canne che diventa una mitragliatrice e un piccolo totem - robottino che utilizza nelle maniere più diparate e letali. Nel solito branco di carogne che per tutto il film, per il solito bottino conteso, si fanno le scarpe a vicenda, si distingue la sempre meravigliosa Nives Navarro. Purtroppo è l'ultimo Sartana con Garko.



1970 C'E' SARTANA VENDI LA PISTOLA E COMPRATI LA BARA! di Giuliano Carnimeo
con George Hilton, Charles Southwood, Erika Blanc, Piero Lulli, Nello Pazzafini, Marco Zuanelli, Rick Boyd, Luciano Rossi

Titolo da antologia della serie e ultimo dei Sartana ufficiali. Sempre diretto dall'ottimo Carnimeo, ma con il biondo Garko sostituito dal moro George Hilton. Continuando le analogie con 007, questo passaggio di testimone fa lo stesso effetto di quello tra Sean Connery e Roger Mooore nella serie dell'agente segreto. L'ironia macabra e mortifera dei film precedenti si stempera un po', i morti ammazzati sono sempre parecchi, ma si respira un' aria relativamente meno crudele, più leggera e più apertamente parodistica. In una scena il Sartana di Hilton si dimostra addirittura premuroso e generoso con una vedova e il suo marmocchio, rivelandosi un po' più gambler e un po' meno becchino. Il film è comunque il solito spasso, divertente e ricchissimo di trovate, girato con il consueto mestiere e confezionato in maniera impeccabile. Mancano forse personaggi forti come nei film precedenti, anche se gli antagonisti sono i collaudatissimi Nello Pazzafini, nella parte del solito bandolero messicano, e Piero Lulli, in quella altrettanto solita dell'affarista corrotto. Nella parte di una coppia di fratelli killer mitico il doppio cameo di Rick Boyd e Luciano Rossi, i due biondini psicotici per eccellenza del cinema di genere italiano. Il pezzo forte è il lungo e gustoso scontro finale tra Sartana e un Sabata biancovestito e con l'ombrellino rosa. L'unico vero difetto del film è che al quinto giro di giostra la formula inizia a mostrare la corda.

Forse per questo, Carnimeo e Hilton decidono di mettere da parte Sartana e di dar vita ad un altro personaggio: Alleluja. Nonostante tutto però si tratta in tutta evidenza sempre dello stesso personaggio, anche dal punto di vista estetico difficilmente distinguibile da Sartana. Quindi le due pellicole di Alleluja possono tranquillamente essere considerate un' appendice alla serie ufficiale. Ma dei legittimi (anche se non sempre degni) eredi di Sartana ne scriveremo alla prossima occasione.

Tommaso Sega

sabato 28 gennaio 2012

i film 5 - Il giorno dei lunghi fucili

1971 IL GIORNO DEI LUNGHI FUCILI (The Hunting Party) di Don Medford, con Oliver Reed, Gene Hackman, Candice Bergen, Simon Oakland, Mitch Ryan, L.Q. Jones, Francesca Tu


Notevole western inglese girato in Spagna, di grande violenza e sensazionalismo, diretto con mano pesante e senza molte sfumature dal regista televisivo americano Don Medford.
Pur avendo contribuito molto marginalmente, e soprattutto sul finire del filone, alla causa dell’Eurowestern bisogna dare atto alla cinematografia inglese di avere saputo produrre quasi sempre dei risultati di medio-alto livello e, particolare non disprezzabile, spesso più vicini al western americano crepuscolare che non allo spaghetti italiano (o meglio ancora operando un’interessante commistione tra le due “correnti”) e a Sam Peckinpah in particolare.
Il riferimento a Peckinpah è quello più immediato riguardo a The Hunting Party, sia a livello estetico, per l’iperrealismo delle scene di violenza, costruite come dei balletti di morte e con l'uso del classico montaggio sincopato e dei ralenty peckinpahiani, sia a livello tematico, per il ribaltamento dell’etica classica della frontiera, con i fuorilegge visti come ultimi rimasugli di un mondo ormai destinato alla scomparsa e sempre più basato sulla sopraffazione capitalistica.


Peccato che nel film, purtroppo, vi sia poca traccia della complessità tematica e della profondità psicologica dei grandi personaggi di Bloody Sam e che sembri costruito più che altro sull’esibizione sadica e compiaciuta di scene forti e ad effetto, sia di violenza che di sesso, con i rapporti con le donne basati unicamente sullo stupro, e strutturato piuttosto linearmente proprio come la battuta di caccia del titolo originale, in cui allo spettatore non resta che rimanere in attesa delle varie carneficine, realizzate benissimo e indubbiamente il pezzo forte del film.


Notevole punto debole, invece, è il protagonista Oliver Reed, che non ha ne’ il carisma ne’ il fisico (troppo appesantito dall’alcool) per sostenere la parte del capobanda in un film western e che in vari momenti scivola nel ridicolo. Candice Bergen, bellissima, è sacrificata in un ruolo banale e che non le consente molti toni di recitazione (la maestrina rapita e violentata che si innamora del suo carnefice). Gene Hackman, invece, tanto per cambiare si mangia il film sguazzando alla grande nella parte del mefistofelico e sanguinario allevatore, che si rivela ben peggiore dei rapitori a cui da la caccia, quasi un’anticipazione del perfido e sadico Little Boy de Gli spietati. C’è anche, in una parte secondaria, il grande caratterista peckinpahiano L.Q. Jones.
L’unica cosa italiana è la musica, lugubre ed epica, di Riz Ortolani.


Mauro Mihich

giovedì 26 gennaio 2012

le monografie 1 - Una trilogia "biblica"

LA TRILOGIA "BIBLICA"
DEL WESTERN ALL'ITALIANA

Dio disse ad Abramo: “Uccidi un tuo figlio per me”
Abe disse: “Amico, mi stai prendendo in giro?”
Dio disse: “No.”
Abe disse “Cosa?”
Dio disse: “Abe, fa' quel che ti pare, ma la prossima volta che mi vedi è meglio se sparisci.”
(Highway 61 Revisited, Bob Dylan 1965)



Tre film, tre notevoli ed intriganti western all'italiana, attraversati da echi biblici risalenti ad archetipi quali Caino, Abele e Abramo, uniti dal filo rosso di tematiche quali l'irriducibilità del Male nell'animo di ogni essere umano e dell'irrazionalità con cui esplode e si manifesta. Ad accomunarli anche delle atmosfere di affascinante ed insolita tristezza, alcune finezze psicologiche assolutamente inedite per i western nostrani e un gusto per le sequenze oniriche ed irreali.

Tre film che rappresentano dei casi isolati nelle piuttosto modeste carriere cinematografiche dei due autori, il tuttofare Alberto Cardone (1920 - 1977), che dirige i primi due, e il produttore Mario Siciliano (1925 - 1987), che dopo aver prodotto gli altri dirige da solo il terzo. È quest'ultimo con tutta probabilità da considerare il vero autore della trilogia, soprattutto considerando la pochezza dei successivi western di Cardone senza la sua supervisione. Come già verificato in un caso eclatante come quello di Nando Cicero, ad una generazione di registi italiani il western evidentemente regalò il soffio di un'ispirazione che subito svaporava a contatto con altri generi.


1966 7 DOLLARI SUL ROSSO di Alberto Cardone
con Anthony Steffen, Fernando Sancho, Jerry Wilson, Loredana Nusciak, Elisa Montés

Anche se i pezzi da novanta sono le due pellicole successive, non va sottovalutato questo primo capitolo, dallo stile più impalato e naïf, ma di grande fascino, tutto basato su inquadrature larghissime e classicamente posate, che creano un' atmosfera strana e irreale, quasi metafisica. Storia decisamente triste intrisa di un fatalismo inconsueto anche per i non certo allegrissimi standard dei western spaghetti di quei primi anni. Anthony Steffen è alla disperata ricerca del figlio rapito tanti anni prima da una banda di fuorilegge, ma ignora che nel frattempo il figlio è diventato peggiore dei suoi rapitori. Gran finale tragico di conseguenza.

“[...]è una sorta di tragedia greca in chiave western e con echi biblici, ma l’atmosfera di cupa disperazione e la violenza grafica non sono esasperate come nel film successivo e la regia di Cardone è ancora abbastanza convenzionale, senza i momenti visionari e i tocchi di genio che contraddistingueranno “Mille dollari sul nero”. Inoltre manca anche un personaggio forte come il Sartana-Gianni Garko di quel film.
Il finalone melodrammatico sotto la pioggia con il duello nella main street tra padre e figlio, però, è assolutamente notevole.
La storia è una riuscita variazione sul tema della vendetta, particolarmente apprezzabile per il fatto che tutti i personaggi siano votati alla sconfitta e destinati a soccombere al destino inesorabile. Piuttosto efficaci sia il solitamente ingessato Anthony Steffen in un ruolo piuttosto sfaccettato rispetto agli abituali suoi che Fernando Sancho in una parte quasi da protagonista, nel suo personaggio classico del bandito messicano spietato, sanguinario e dalla roboante risata.
Bella la colonna sonora di Francesco de Masi.
Il titolo che sembra riferirsi a una puntata alla roulette in realtà allude ai sette dollari gettati dal cattivo sulla gonna rossa della moglie del protagonista appena uccisa" (Mauro Mihich).


1966 MILLE DOLLARI SUL NERO di Alberto Cardone (e Mario Siciliano)
con Anthony Steffen, Gianni Garko, Erika Blanc, Sieghardt Rupp, Angelica Ott, Sal Borgese

Il primo film con Sartana, già interpretato da Gianni Garko ma ancora connotato come personaggio folle e negativo. E’ uno spaghetti western nero e cupissimo, nonostante l’abbacinante sole dell’Almeria (che mai come in questo film sembra un deserto assolutamente privo di vita), con sadismo, torture e violenza a tutto spiano e con il corollario di un incredibile campionario di facce patibolari perennemente avvolte in una maschera di sudore.
La trama, dell’ottimo Ernesto Gastaldi, ha cupi toni biblici e da tragedia greca (il film si chiude con un versetto dal Levitico e il flano di lancio era “Non levare la mano contro tuo fratello, così disse il Signore e l’uomo rispose –Prima che il sole tramonti voglio bagnarmi in un lago di sangue”) ed è permeata da una disperazione, da un cinismo e da una crudeltà anomali perfino all’interno dello stesso genere, tanto che il film uscì in sala vietato ai minori di 18 anni.
Stilisticamente la regia di Alberto Cardone (ma al film collaborò anche il produttore Mario Siciliano) è folle e geniale, con primissimi piani dei volti, degli occhi e di altri dettagli dei personaggi, inquadrature di taglio, lunghe riprese dei personaggi a cavallo accompagnate da una musica straniante, fermo immagini del sole (ora accecante, ora al tramonto, ora coperto da nuvole) a fare da stacco tra le sequenze, personaggi che non vengono presentati ma semplicemente compaiono nell’inquadratura quasi come dei fantasmi (tipo Lo straniero senza nome di Eastwood).
Davvero suggestiva la colonna sonora che alterna stranianti motivetti quasi allegri al cupo rimbombare di ritmi funerei e quasi marziali e particolarmente indovinati anche i costumi e gli arredi, con candele e merletti quasi da film gotico.
Persino il legnosissimo Anthony Steffen, nel ruolo di un Clint Eastwood in versione tragica, funziona alla perfezione e anzi la sua povertà espressiva diventa quasi un valore aggiunto al fascino del film. Ma l’autentico mattatore e pezzo forte della pellicola è uno straordinario Gianni Garko che impersona, in una furente e rabbiosa interpretazione alla Klaus Kinski, il General Sartana, sadico personaggio dedito a orge di sangue e deliri di violenza, che ha il suo quartier generale in un tempio azteco e che bacia il medaglione che tiene al collo prima di ammazzare qualcuno.
Molto valida anche la componente femminile, con in testa un’Erika Blanc purtroppo sempre completamente vestita. Bello il gioco di parole del titolo, con i mille dollari che sono il valore della collana portata al collo dalla madre dei protagonisti, perennemente vestita a lutto.
Western notevolissimo (Mauro Mihich).



1968 I VIGLIACCHI NON PREGANO di Mario Siciliano
con Gianni Garko, Sean Todd, Elisa Montes, Jerry Wilson, Alan Collins

Se gli altri due possono vantare una loro piccola fama almeno tra gli appassionati del genere, questo terzo film è una perla praticamente misconosciuta, assolutamente da riscoprire. Il budget del film è visibilmente di serie B, ma le idee e la classe sono di serie A. Della mancanza di soldi soffre solo qualche scena d’azione un po’ confusa. È un ottimo esempio del clima nero e pessimista che aleggiava nel western italiano nel 1968, si vedano altre pellicole di quel periodo come “Cimitero senza croci”, “Black Jack”, “Sentenza di morte”.

Esordio come regista di Siciliano, che comunque già prima pare seguisse molto da vicino le riprese dei film che produceva. Purtroppo in nessuna delle molte pellicole che girerà in seguito (tra cui molti porno) ritroverà lo stile di questo suo primo film. Ottima la sua rigorosa e austera regia, quasi tutta costruita sui dettagli. Uno stile che crea sequenze quasi da film horror. La parte centrale è un po’ dispersiva, ma l’inizio e tutto il secondo tempo sono da urlo.

Il vero protagonista del film è il cattivo di uno strepitoso Gianni Garko che fa ancora lo psicopatico come in “Mille dollari sul nero”. È raro trovare un villain dalla personalità tanto complessa in un western, non solo italiano. Nello splendido prologo lo vediamo come un amorevole marito, ma arrivano quattro disertori che dopo averlo messo fuori combattimento stuprano e uccidono la moglie. Sulle note della bella e malinconica musica di Manuel Parada, scorrono i titoli di testa su un memorabile primissimo piano di Garko svenuto. Al suo risveglio, come dopo un sogno, ha dimenticato tutto. Da quel momento ogni cosa che gli ricorderà il trauma della morte della moglie provocherà in lui una follia omicida. Nel corso del film sembrerà fare di tutto per diventare simile agli assassini della moglie (che sono stati impiccati, anche se lui non lo saprà mai) e farsi così uccidere dall’uomo che lo ha salvato. “Tutto quello che mi è successo è come se lo avessi visto succedere ad un altro! Tutto quello che ho fatto mi sono trovato a farlo senza accorgermene!” confessa nel gran finale, una resa dei conti in una miniera illuminata da luci espressioniste. Personaggio d’antologia del genere.

Pur rispettando i meccanismi della spettacolarità di un film di serie B, l’intero film è un bel groviglio psicologico. Tutti i personaggi sembrano fare scelte masochiste e autodistruttive. Per quanto più convenzionale rispetto alla sua nemesi, anche il personaggio del buono alla fine rinuncerà alla legge a cui era devoto per inseguire la vendetta personale. Non a caso ha il volto ombroso del perennemente accigliato Sean Todd, spesso utilizzato in ruoli da cattivo. Di un gusto quasi surrealista alcune sequenze che lo vedono protagonista, come quella dell'assurda roulette russa con cui viene “risolto” un caso di omicidio, grottesca rappresentazione di come anche la giustizia sia in realtà affidata continuamente al caso. Surreali anche tutti i duelli che costellano il film, ad esempio al buio con la sola luce dei sigari come bersaglio o a cavallo come in un torneo medievale, la cui bizzarria va ad accrescere il clima psicotico e un po’ folle del film.

Tommaso Sega e Mauro Mihich

mercoledì 25 gennaio 2012

i film 4 - Un minuto per pregare, un istante per morire

1968 UN MINUTO PER PREGARE, UN ISTANTE PER MORIRE di Franco Giraldi, con Alex Cord, Robert Ryan, Arthur Kennedy, Enzo Fiermonte, Giampiero Albertini, Mario Brega, Nicoletta Machiavelli

Il capolavoro di Franco Giraldi, regista sottostimato dagli stessi studiosi e appassionati del western all’italiana ma che è stato in realtà tra i padri fondatori del genere insieme a Leone, Corbucci e Tessari.
Direttore della seconda unità per Leone in Per un pugno di dollari (del quale pare abbia diretto le sequenze del massacro dei soldati al fiume e della strage nella villa dei Baxter) esordisce come regista con Sette pistole per i MacGregor, film campione d’incassi ma in genere non molto considerato, che mischiava, molto prima dei Trinità, la violenza del western serio con le scazzottate e le battute di quello comico. Già in quest’opera prima si può notare l’intento di Giraldi di non seguire pedissequamente la linea leoniana, ma di proporre qualcosa di più vicino al western americano (sia pure quello un po’ parrocchiale alla Sette spose per sette fratelli), oltre che la sua grande abilità nel costruire le sequenze d’azione (il film è "il trionfo dei cascatori Made in Italy", secondo la definizione di alcuni critici).
Con Un minuto per pregare un istante per morire, però, Giraldi fa sul serio senza nascondere le sue alte ambizioni e realizza una pellicola che può essere tranquillamente inserita tra le più importanti e riuscite del filone.
L’ispirazione dal western americano e la contrapposizione ai film di Leone si fa ancora più evidente e quasi programmatica. Nella costruzione del suo film, infatti, Giraldi sembra seguire i dettami di Anthony Mann, per il quale i protagonisti del western sono “non assassini professionisti, ma uomini semplici spinti alla violenza dalle circostanze, che devono compiere un percorso che comincia e finisce, una traiettoria nel corso della quale si scontrano con la vita”.
I bounty-killers, che Leone nella Trilogia del Dollaro elevò al rango di eroi, in questo western, come nel Grande Silenzio di Corbucci (in un primo momento, non a caso, designato come regista), hanno connotazioni esclusivamente negative e vengono raffigurati come spietati avvoltoi che uccidono senza pietà per pochi dollari. Caratteristiche che però Giraldi estende, a differenza di Corbucci, anche agli stessi fuorilegge braccati come selvaggina (e la grande sequenza iniziale con i due banditi a piedi inseguiti nella prateria dai killer a cavallo dà il preciso senso del film), che a loro volta si rifanno sui più deboli, tormentando i loro stessi compagni.
Lo stesso protagonista, fragile, contorto e vittima di attacchi di epilessia che gli bloccano periodicamente il braccio destro (quello che usa per sparare) è molto simile a quelli interpretati da James Stewart nei western di Mann, come pure la sotterranea vena di tristezza e disperazione che percorre tutto il film, quasi neorealistico nella rappresentazione, sottolineata dall'efficace musica lirica e struggente di Carlo Rustichelli, della povertà delle famiglie dei fuorilegge, costrette a rifugiarsi in un villaggio fantasma e alla prese con problemi di fame e sopravvivenza (come quasi mai esplicato in un western).
Da sottolineare, infine, anche l’aspetto squisitamente “politico” del film, con il discorso sull’amnistia promulgata dal governatore progressista per dare una seconda chance ai banditi e toglierli così dalle grinfie dei cacciatori di taglie, e il rifiuto della stessa da parte degli uomini di legge e dei rispettabili e morigerati cittadini.
La cosa più rivoluzionaria ed eclatante della pellicola, però, è probabilmente il finale (non a caso tagliato nell’edizione americana del film), con il protagonista costretto suo malgrado a consegnare le armi per ricevere la lettera di amnistia e che immediatamente dopo viene ucciso da due bounty-killers, che accortisi che ormai non vale più niente sputano sul suo cadavere e se ne vanno mentre sullo schermo compare la parola “Fine”.
Se il protagonista, Alex Cord, non è molto espressivo, il film è senz'altro da ricordare per essere l’unico spaghetti interpretato da Robert Ryan, che fa una memorabile entrata in scena a cavallo da grande attore del western classico e poi giganteggia in ogni sua scena. Ma ci sono anche il grande attore della Hollywood classica Arthur Kennedy e caratteristi nostrani come Mario Brega, sorprendentemente sotto le righe nella parte del cattivo, e Nicoletta Machiavelli, come sempre di sfolgorante bellezza.

Mauro Mihich

martedì 24 gennaio 2012

Anthony Mann 1 - Winchester '73

1950 WINCHESTER '73 di Anthony Mann. Con James Stewart, Rock Hudson, Shelley Winters, Stephen McNally, Dan Duryea.




Distillato di western purissimo, rilancio e revisione ad un tempo del Mito della Frontiera cinematografica, Winchester '73 è il leggendario esordio nel genere dell'immenso Anthony Mann. Dal primo, tesissimo segmento cittadino, in cui l'esplosione violenta è impedita dall'assenza delle armi, agli spettacolari, rutilanti assedi che lo costelleranno successivamente, è uno splendido viaggio a tappe in un West romantico e avventuroso, fra giovani soldati in difficoltà, indiani bellicosi, trafficanti d'armi, banditi e uomini onesti. Un film a suo modo poetico e straordinariamente vitale; ma, al contempo, con un che di stranamente triste, di languidamente malinconico. Quel protagonista infallibile e implacabile, ma che tradisce appena percettibili accenni di rassegnazione, di rimpianto - e Stewart è quasi commovente per come sa rendere delicatamente vivi questi sentimenti; quella vendetta che sembra compiersi, piú che per volontà personale, per azione di un Fato irriverente e spietato; quella storia di fratellanza e sangue dai connotati biblico-tragici che tinge di rosso l'intera vicenda: si cela soprattutto in questi tratti il lato oscuro - ma anche quello piú autoriale - del primo grande capolavoro manniano. E poi c'è il fucile. Il vero protagonista, inanimato e prezioso, del film: una presenza costante che, quasi mossa da una forza superna, passa di mano in mano suscitando di volta in volta invidie, avidità e morte. Forse un allegoria di quel Destino ineffabile di cui sopra; ma anche un giocattolo, in fondo, che smaschera il lato piú infantile dei personaggi duri e puri visti in decenni di western classico. Dal punto di vista del puro intrattenimento è un gioiello di ritmo, un campionario di magnifici personaggi - c'è tutto: l'amico fedele e affettuoso, lo sceriffo integerrimo, il marito codardo, la ragazza dal passato imprecisato in cerca del vero amore, l'ufficiale di cavalleria anziano e leale, il fuorilegge caciarone e quello torvo e pensieroso -, una lezione di regia classica e prosciugata - ma che premette già, in alcuni punti, alle future sperimentazioni su profondità di campo e gestione degli spazi. Il tutto in un bianco e nero da urlo di William Daniels. Insomma un classico imprescindibile, senza aggiungere altro.


Paolo D'Andrea

sabato 21 gennaio 2012

Sam Peckinpah 2 - I telefilm

PECKINPAH ON TV
I western del giovane Sam

Mentre il percorso cinematografico di Sam Peckinpah – da La morte cavalca a Rio Bravo (The Deadly Companions, 1961) a Osterman Weekend (id., 1983) – è stato analizzato e sviscerato fin nei minimi particolari, tramite decine di saggi e studi critici (quasi nessuno dei quali – ahimè – pubblicato in Italia), la sua lunga militanza televisiva rimane spesso ancora oggi avvolta da una coltre di silenzio e sconosciuta ai più, senza dubbio anche per la difficoltà oggettiva di reperimento di queste opere giovanili (praticamente mai viste sui nostri teleschermi) di cui sarebbe oramai più che mai auspicabile un’edizione critica su supporto digitale (inseriamo comunque i link ove essere siano reperibili su YouTube o altri canali video).
In questa sede, invece, tale corpus ci appare molto interessante, sia perché compiuto quasi interamente sotto l’egida del western, sia perché significativo dell’apprendistato e la formazione di quello che sarà un indiscusso maestro del cinema, sia perché già esemplificativo, nei suoi risultati maggiori (come la serie The Westerner o il film televisivo Noon Wine) della complessità tematica e stilistica di un grande autore in fieri.

L’occasione per Peckinpah per debuttare nel palcoscenico televisivo avviene nel 1955 quando la CBS decide di trasferire in tv la sua popolarissima trasmissione radiofonica Gunsmoke. L’emittente contattò Don Siegel, che preferendo continuare a lavorare per il cinema fece però il nome di Sam, suo assistente e supervisore ai dialoghi per Rivolta al blocco 11 e L’invasione degli ultracorpi, a cui fu affidata la sceneggiatura di uno degli episodi scritti per la radio da John Meston. Questo fu talmente ben accolto che al giovane Peckinpah ne vennero commissionati un’altra dozzina tra il 1955 e il 1958. Non solo, il clamoroso successo di Gunsmoke dette il via a una miriade di altri prodotti analoghi – i cosiddetti “adult western”, che si differenziavano dai telefilm precedenti per una maggiore verosimiglianza storica, i temi più attuali e la violenza più realistica – che invasero le tv americane negli anni successivi (solo nel 1959 venivano trasmesse nei canali USA ben 48 serie televisive western!). Peckinpah si trovò di colpo a essere uno dei più quotati sceneggiatori televisivi western in circolazione e di lì a poco ebbe la possibilità di debuttare finalmente anche alla regia.

Le serie western televisive a cui Peckinpah, a vario titolo, collaborò sono le seguenti:

GUNSMOKE

Celeberrima serie western trasmessa dalla CBS dal 1955 al 1975, conosciuta anche in Italia con il titolo Lo sceriffo di Dodge City o anche Storie del vecchio West. Il protagonista è James Arness nella parte dello sceriffo Matt Dillon. Tra i co-protagonisti anche un giovanissimo Burt Reynolds. Tra i registi figurano Andrew McLaglen e Ted Post. Peckinpah, al suo esordio televisivo, sceneggiò una dozzina di episodi tra il 1955 e il 1958, due dei quali vennero premiati dal sindacato sceneggiatori americani. Le sceneggiature per Gunsmoke sono ritenute dai critici tra le migliori tra quelle scritte da Peckinpah per il piccolo schermo, con una particolare attenzione al realismo e agli autentici dettagli storici, ma a posteriori il regista lamenterà il fatto che i suoi copioni fossero spesso edulcorati dai produttori televisivi per renderli più adatti al grande pubblico.
Gli episodi sceneggiati da Peckinpah sono i seguenti:
- The Queue (1955), regia di Charles Warren
- Yorky (1956), regia di Charles Warren
- Cooter (1956), regia di Robert Stevenson
- How to Die for Nothing (1956), regia di Ted Post
- The Guitar (1956) regia di Harry Horner
- The Round Up (1956) regia di Ted Post
- Legal Revenge (1956), regia di Andrew V. McLaglen
- Poor Pearl (1956), regia di Andrew V. McLaglen
- Jealousy (1957), regia di Andrew V. McLaglen
- How to Kill a Woman (1957), regia di John Rich
- Dirt (1958), regia di Ted Post

THE 20th CENTURY FOX HOUR

Per questa serie contenitore Peckinpah sceneggia l’ottavo episodio della seconda stagione, cioè l’adattamento televisivo di un’ora del film di Henry King Il romantico avventuriero (The Gunfighter,1950) con Gregory Peck, che fu nominato miglior western televisivo della stagione ’56-57 dal Writers Guild of America.
- End of a Gun (1957), regia di Lewis Allen

BROKEN ARROW

Serie trasmessa dalla ABC dal 1956 al 1958 per un totale di 73 episodi e basata sul film L’amante indiana di Delmer Daves, a suavolta tratto dal romanzo Blood Brothers di Elliott Arnold. Costituì la prima regia in assoluto di Peckinpah a cui venne affidato proprio l’ultimo episodio della serie (e che così ricorda la tensione del suo primo giorno in assoluto da regista: “In maniera molto pragmatica predisposi le prime tre scene, poi mi diressi con calma verso il bagno e vomitai anche l’anima”).
- The Assassin (1957), sceneggiatura di Sam Peckinpah
- The Teacher (1957), sceneggiatura di Sam Peckinpah
- The Knife Fighter (1958), sceneggiatura di Sam Peckinpah
- The Transfer (1958), sceneggiatura e regia di Sam Peckinpah

TALES OF WELLS FARGO

Serie trasmessa dalla NBC tra il 1957 e il 1962. Peckinpah sceneggiò un episodio.
- Apache Gold (1957)

TRACKDOWN

Trasmessa dalla CBS tra il 1957 e il 1959 e interpretata dal grande Robert Culp. Peckinpah scrisse un episodio.
- The Town (1957), regia di Douglas McDougall

HAVE GUN – WILL TRAVEL

Serie della CBS trasmessa dal 1957 al 1963, di grande fama e interpretata da Richard Boone. Tempo fa si parlava di un adattamento cinematografico interpretato da Eminem. Peckinpah sceneggiò un episodio.
- The Singer (1958), regia di Andrew V. McLaglen

TOMBSTONE TERRITORY

Trasmessa dalla ABC tra il 1957 e il 1959. Peckinpah sceneggiò un episodio.
- The Johnny Ringo Story / Johnny Ringo’s Last Ride (1958)

MAN WITHOUT A GUN
Prodotta dalla 20th Century Fox Television e andata in onda tra il 1957 e il 1959. Peckinpah sceneggiò un episodio.
- The Kidder (1959)

PONY EXPRESS

Trasmessa tra il 1959 e il 1960. Peckinpah sceneggiò un episodio.
- The Story of Julesburg (1960), regia di Lewis R. Foster

KLONDIKE

Serie in 17 episodi trasmessa dalla NBC tra il 1960 e il 1961, ambientata durante la febbre dell’oro e interpretata da Ralph Taeger e James Coburn. Peckinpah scrisse un episodio e ne diresse un altro.
- Swoger’s Mules (1960)
- Klondike Fever (1960), regia di Sam Peckinpah

ZANE GREY THEATER

Andata in onda sulla CBS tra il 1956 e il 1961. Presentava brevi serie a puntate o episodi autoconclusivi (due dei quali, diretti da Sam, divennero pilot di altre serie, The Rifleman e The Westerner). Tra gli attori anche un giovane Steve McQueen. Peckinpah scrisse e diresse tre episodi.
- Trouble at Tres Cruces (1959) , con Brian Keith
- Lonesome Road (1959), con Edmond O’ Brien
- Miss Jenny (1960), con Vera Miles

THE RIFLEMAN

Trasmessa dalla ABC dal 1958 al 1963, per 5 stagioni e 169 episodi e interpretata nel ruolo del protagonista da Chuck Connors (che successivamente venne a cercar gloria negli Spaghetti Western. Non la trovò) questa serie fu creata e sviluppata da Peckinpah, che sceneggiò sei episodi e ne diresse quattro. Tra gli attori di contorno Dennis Hopper, Warren Oates, Katy Jurado. Gli episodi realizzati da Peckinpah per questa serie sono degli autentici gioiellini, con un magnifico bianco e nero, in cui già si intravedono tutte le tematiche-cardine dell’autore, con la rappresentazione di un Far west realistico e antiretorico e l’utilizzo di ralenty,  inquadrature inedite e ricercate e un’accurata coreografia nelle scene di violenza.
L’insistenza di Sam per la violenza e il realismo lo misero in urto con il produttore e lo costrinsero ad abbandonare la serie dopo la prima stagione. Fu il programma televisivo con il più alto indice d’ascolto fino allora registrato e gli diede la possibilità di realizzare in piena autonomia The Westerner, la sua serie capolavoro. 
- The Sharpshooter (1958), sceneggiatura di Sam Peckinpah , regia di Arnold Laven 
- Home Ranch (1958), sceneggiatura di Sam Peckinpah, regia di Arnold Laven
- The Marshal (1958), sceneggiatura e regia di Sam Peckinpah
- The Boarding House (1959) sceneggiatura e regia di Sam Peckinpah
- The Money Gun (1959) sceneggiatura e regia di Sam Peckinpah
- The Baby Sitter (1959) sceneggiatura e regia di Sam Peckinpah

THE WESTERNER

Il capolavoro western-televisivo di Sam. Una breve serie di 14 episodi da lui prodotta, scritta e diretta, trasmessa dalla NBC nel 1960 e interpreta da Brian Keith. In questa serie crepuscolare e antiretorica, violenta e realistica, la complessità tematica, il lirismo e la profondità psicologica dei personaggi di Sam appaiono già pienamente sviluppati. Peckinpah produsse tutti gli episodi, ne scrisse cinque e ne diresse sette. Tra gli interpreti figurano grandi caratteristi peckinpahiani come Warren Oates, Slim Pickens e L.Q. Jones. Tra gli sceneggiatori il romanziere western Bruce Geller. Tra gli altri registi, oltre a Peckinpah, Andrè De Toth, Ted Post, Elliot Silverstein e Tom Gries (che sviluppò successivamente il suo episodio nel film Costretto ad uccidere, con Charlton Heston). Data l’importanza di questa seria le dedicheremo prossimamente un articolo a parte. 
Dopo questa serie Peckinpah è ormai pronto al passaggio al grande schermo, che avverrà l’anno successivo con lo stesso protagonista di The Westerner, Brian Keith, e con il film La morte cavalca a Rio Bravo. In contemporanea al suo esordio cinematografico, però, Peckinpah realizzò anche dei brevi film televisivi per trasmissioni-contenitore come Route 66 e The Dick Powell Show:

- MON PETIT CHOU (1961), con Lee Marvin


- PERICLES ON THE 31th STREET (1962), con Strother Martin e un giovanissimo Kurt Russell


- THE LOSERS (1963), con Lee Marvin e Keenan Wynn (trasmesso in Italia con il titolo I due vagabondi)
Successivamente Peckinpah fu costretto suo malgrado a tornare alla televisione a seguito delle vicissitudini successive alla lavorazione di Sierra Charriba e al licenziamento dopo pochi giorni dal set di Cincinnati Kid, che gli affibbiarono la nomea di regista pericoloso e inaffidabile e sembrarono di fatto stroncargli la carriera, e diresse due tv movie:

- NOON WINE (1966)

Una storia lirica e intimistica tratta dal romanzo di Katherine Anne Porter e interpretata da Jason Robards e Olivia De Havilland. Viene considerato dagli studiosi di Sam alla stregua delle sue opere maggiori e tra i suoi capolavori western. Paul Seydor nel suo libro Peckinpah: the Western Films - A Reconsideration gli dedica un’analisi di 45 pagine. E tutti sono concordi nel definirlo un capolavoro dimenticato. Premiato come miglior adattamento televisivo e miglior regia televisiva dell’anno, aprì di nuovo a Sam le porte dell’industria cinematografica e subito dopo la MGM gli affidò la realizzazione de Il Mucchio Selvaggio. Mai trasmesso in Italia e introvabile (perlomeno in un’edizione decente) anche in America.

- THAT LADY IS MY WIFE (1967), con Bradford Dillman e Jean Simmons

Trasmesso in Italia nel 1972 con il titolo Angeli caduti . Anche questo pressoché impossibile da trovare.

Peckinpah tornerà a confronterà di nuovo con il mezzo televisivo a fine carriera, dirigendo due video musicali per il cantante Julian Lennon, Valotte e Too Late for Goodbies (dal titolo tristemente profetico, visto che fu il suo ultimo lavoro, diretto pochi mesi della sua scomparsa).
Mauro Mihich

venerdì 20 gennaio 2012

i film 3 - La taglia è tua... l'uomo l'ammazzo io

1969 LA TAGLIA È TUA… L’UOMO L’AMMAZZO IO di Edoardo Mulargia. Con Robert Woods, Mark Fiorini, Rosalba Neri, Aldo Berti, Mario Brega.



Uno dei western piú estremi, raggelati e sconsolanti del panorama italiano, paragonabile soltanto a gioielli come Il grande silenzio di Corbucci e Un minuto per pregare, un istante per morire di Giraldi. Il film della vita per il modesto Edoardo Mulargia, per il resto autore di spaghetti tra l’infimo (Cjamango, 1967; Rimase uno solo e fu la morte per tutti, 1971) e l’appena potabile (Shango la pistola infallibile, 1970): complice il clima hippy di allegra dissoluzione che aleggiava sul set – sia Woods che Fiorini non facevano economia in quanto a stupefacenti – e nonostante un budget men che irrisorio e una sceneggiatura evidentemente improvvisata giorno per giorno, il regista sardo consegna ai posteri il suo capolavoro, tutt’oggi oggetto di culto in varie parti del mondo. Un film violento, ambiguo, dal ritmo lento e ammaliante, abitato da personaggi sgradevoli e destinati alla sconfitta in palese antitesi con l’epica del western americano e la ieraticità dei characters leoniani. Chi cerca finezze di scrittura e regia resterà inevitabilmente deluso, ma è impossibile rimanere indifferenti di fronte ad un West che porta alle estreme conseguenze la visione post-apocalittica di Corbucci, fangoso e plumbeo come non mai. Da antologia, per laidezza e crudeltà, la banda di assassini capitanata dallo strepitoso Mark Fiorini, zingaro psicopatico e omosessuale che, in una sequenza difficile da dimenticare, bacia sulla bocca Aldo Berti dopo aver ammazzato di botte una prostituta. Non da meno Brega, ossessionato da un folle amore per il fratello e in sospetto di pedofilia. Il protagonista poi, pistolero alcolizzato e perseguitato dalla propria fama, è da annoverare tra le piú radicali figure di antieroi del western italiano: basti citare la scena in cui viene randellato da un oste perché non ha i soldi per pagarsi il whisky, o quella della resa dei conti, durante la quale si adagia in tutta calma ad attendere il suo destino su una sedia a dondolo. Il glaciale, indimenticabile epilogo non lascia spazio nemmeno alla catarsi o alla commozione, tanto è improvviso e perentorio. Molto del fascino del film è dovuto anche alla fotografia - di Antonio L. Ballesteros in collaborazione con lo stesso Mulargia -, tutta giocata su colori opachi e invernali, e alle scenografie in disfacimento degli studi Pisorno di Tirrenia. È uno di quegli spaghetti in cui la povertà della produzione diventa, paradossalmente, una virtú, contribuendo in maniera decisiva a trasmettere allo spettatore il senso di desolazione e cupio dissolvi di cui è imbevuta la pellicola. Unica nota stonata la colonna sonora di Alessandro Alessandroni, che ruba senza vergogna dal repertorio morriconiano.

p.s.: La copia del film che ho visionato si apre con l'avviso «Il film che state per vedere è stato ricostruito in una rarissima versione integrale, pertanto in alcuni momenti l'audio non sarà in lingua italiana» ed è formata da un collage di VHS francesi, spagnole, italiane ed inglesi. La qualità delle immagini è ovviamente altalenante, ma in attesa di un’edizione decente è il massimo che si possa trovare.


Paolo D'Andrea

giovedì 19 gennaio 2012

i registi 6 - Ralph Nelson

RALPH NELSON
Il regista del massacro


Il rischio che si corre riesumando il ricordo di registi dimenticati o trascurati è quello di voler a tutti i costi rintracciare un percorso artistico in quelle che furono normali carriere da artigiani del cinema, al massimo baciate dalla fortuna di essersi sviluppate in tempi più interessanti di altri. Questo è probabilmente il caso dell'americano Ralph Nelson (1916 - 1987), regista solido e convenzionale, privo di una vera personalità registica, ma in grado di riflettere con una manciata di pellicole un certo spirito degli anni 60. Dei quindici lungometraggi da lui diretti tra il 1962 e 1979, molti dei quali sotto il segno delle tensioni razziali e della violenza, tre sono i titoli chiave della sua carriera, di cui i primi due ampiamente caduti nel dimenticatoio. Il primo è I gigli del campo, del 1963, volenterosa commedia anti-razzista con Sidney Poitier, ai tempi premiata dagli oscar, ma oggi per forza di cose un po' stantia e all'acqua di rose. Il secondo è I due mondi di Charlie, del 1968, tratto dall'agghiacciante romanzo Fiori per Algernon di Daniel Keyes, cupissima opera sul fallimento del progresso umano, sintetizzato nella parabola di un ritardato che acquisita e perde l'intelligenza ottenuta grazie ad un esperimento scientifico. Di questa interessante opera in genere oggi si ricorda solo che l'attore protagonista, Cliff Robertson, vinse l'oscar nell'anno in cui era in concorso il Dustin Hoffman de Il laureato. Ma è con il terzo titolo con cui Nelson lascerà un segno controverso e sanguinante sulla storia del cinema: Soldato blu.

In questa sede ci occupiamo ovviamente solo dei western diretti da Nelson, che sono tre e molto diversi tra loro.


Duello a El Diablo (1965, Duel at Diablo) di Ralph Nelson
con James Garner, Bibi Anderson, Sidney Poitier, Dennis Weaver

Western ancora piuttosto classico e convenzionale, non ancora crepuscolare, anche se i primi dubbi si stavano insinuando nel genere. Ci sono ancora le giubbe blu buone e gli indiani (quasi) cattivi, ma il tutto è contaminato da tensioni razziali che scombinano i ruoli e le parti. Il protagonista deve vendicare la moglie indiana uccisa e scalpata da un bianco, il coprotagonista è un ex-sergente nero, il personaggio femminile è una donna bianca rapita dagli apaches che ha anche avuto un figlio da un capo indiano. Da questi pochi cenni di trama si può notare come vengano anticipati alcuni elementi che si ritroveranno proprio in "Soldato blu". Soprattutto il personaggio di Bibi Anderson, la donna rapita dagli apache, che praticamente interpreta la versione passiva e un po' lagnosa del futuro personaggio di Candice Bergen. Il film è godibile, un classico di indiani contro giacche blu, e civili più o meno innocenti nel mezzo, ambientato nei rossicci e aridi territori del profondo sud-ovest. La prima parte è un po' lenta e verbosa, ma la seconda è spettacolare e violenta, con un tripudio di canyon, agguati, assedi, frecce e torture.


Soldato blu (1970, Soldier Blue) di Ralph Nelson
con Candice Bergen, Peter Strauss, Donald Pleasence, John Anderson
Tratto dal romanzo Arrow in the Sun di Theodore Olsen

Mentre risuanono le aspre note di "Soldier Blue", della cantautrice folk e indiana Buffy Saint-Marie, scorrono i titoli di testa del film. Si vedono immagini di campi fioriti e all'orizzonte, in controluce, la sagoma di una ragazza che cammina, capelli al vento, passo indolente. Il film comincia e si vede uno squadrone di soldati sporchi e annoiati, in attesa che l'ufficiale chiuso nella latrina abbia finito i suoi bisogni. Basterebbe questo inizio, fuori da ogni schema western visto fino ad allora, anche a livello iconografico e musicale, per smentire che la novità di "Soldato blu" stia solo nella netta presa di posizione in favore degli indiani e nella violenza messa in scena nel celebre massacro conclusivo. Finale che ha sempre messo in ombra l'ora e un quarto di pellicola che viene prima, dove invece risiede la vera originalità del film. Come ad esempio nell'iniziale massacro dei soldati, che smonta molti cliché dell'eroismo cinematografico, mettendo in scena militari goffi e impauriti e mostra una battaglia dove tutto sembra casuale e confuso.

Ma il vero cuore del film è soprattutto la bellissima parte centrale, ironica e picaresca, che vede in scena per un'ora quasi solo lo sbigottito soldatino interpretato da Richard Strauss e l'indiana bianca di Candice Bergen. È qui che avviene il ribaltamento di uno dei fondamenti di tutto il cinema western, con la messa in scena di un personaggio femminile che ruba a quello maschile il baricentro etico del film. Non è solo una questione di ruoli convenzionali che vengono scompaginati, ma di impiego di un punto di vista inedito interno al genere. Come il soldato blu, anche lo spettatore è costretto, man mano che il film procede, a filtrare la visione del west attraverso l'ottica alternativa e dissonante di cui il personaggio della Bergen si fa portavoce. E infine è costretto ad aprire gli occhi sulla violenza e il sangue sempre rimossi e anestetizzati dal cinema, non solo western.


Per un'indimenticabile e luminosa Candice Bergen è il ruolo della vita. I suoi lunghi capelli biondi e le abbondanti porzioni di epidermide mostrate per mezzo film la impongono nei sogni di una generazione, incoronandola come una delle attrici simbolo del cinema contestatore di quegli anni. Il suo è un personaggio mai visto in un western e poi praticamente mai più rivisto. Una ragazza disinibita e rozza ma in fondo dolce, cinica e menefreghista ma anche fragile e alla fine sconfitta.


E poi certo, c'è la mezz'ora finale. Ancora oggi un pezzo di cinema tra i più disturbanti, sinistri e violenti mai visti, con dettagli macabri insostenibili anche per lo smaliziato spettatore moderno. Dall'arrivo dei protagonisti al campo militare, il film cambia decisamente tono, assumendo i toni gravi di un'opera di denuncia storica, ma anche quelli saturi della satira più torva, per di più con ovvie allusione alla guerra del Vietnam allora in corso. Certo "Soldato blu" non è un film che va troppo per il sottile, la presa di posizione antimilitarista è netta e quasi greve nella sua virulenza, l'idealizzazione degli indiani come vittime inermi e pacifiche è antistorica. Ma attaccare, come fanno molti, il film sul piano della verosimiglianza storica appare quantomeno ingiusto: di fronte a migliaia di western che ci hanno raccontato la storia come ben sappiamo, perché non ha diritto di esistere UN film che ha avuto il coraggio di raccontarcela stando senza mezzi termini dall'altra parte? E comunque forse è bene ricordare che degli oltre 150 Cheyenne uccisi sul Sand Creek la maggior parte erano donne, bambini, anziani e che quasi i tutti cadaveri furono mutilati... sfugge il motivo per cui anche di fronte ad episodi storici del genere non si possa prendere una posizione di condanna netta, senza sconti, sanamente incazzata.

Anche il finale era qualcosa di mai visto in un western: il male trionfa e i buoni, impotenti e prigionieri, vengono divisi. Memorabile l'addio muto e disperato tra i due protagonisti. E il sorriso tra le lacrime di Candice Bergen.


La collera di Dio (The Wrath of God, 1972) di Ralph Nelson
con Robert Mitchum, Rita Hayworth, John Colicos, Frank Langella

Nelson torna al western per la terza ed ultima volta con questa pellicola picaresca d'ambientazione messicana, evidentemente influenzata dal modello dei western all'italiana, dove tre avventurieri (un vagabondo irlandese, un trafficante d'armi e uno strano prete) sono loro malgrado invischiati in una faida tra fazioni rivoluzionarie. In realtà è un western sui generis, essendo ambientato nel Messico del 1920 e guardando volentieri anche all'estetica dei gangster, con i mitragliatori thompson che spesso sostituiscono fucili e pistole. Il film è a tratti divertente, ha delle belle sequenze di violenza ispirate ai modelli (non eguagliati) di Peckinpah e Aldrich e rispetto ai film italiani può contare sulle magnifiche e vere location messicane, ma soffre anche dell'indecisione di molti di queste pellicole americane che si ispiravano ai modelli italiani, non sapendo scegliere tra l'allegro e colorato cinismo dei western nostrani e la consuetudine hollywoodiana di trarre comunque un senso e una morale da quello che si sta raccontando. Un po' insensata in questo senso la denuncia della violenza che traspare in qualche scena e dialogo, in un film in cui i personaggi dovrebbero essere tutti dei cinici, e piuttosto noiosa tutta la parte centrale dedicata a melodrammatici discorsi sulla fede e su dio. Gli stagionatissimi divi Mitchum (che ripropone una versione meno sinistra del suo falso predicatore di “La morte corre sul fiume”) e Rita Hayworth (al suo ultimo film) danno al film un'aria un po' polverosa, ma sono anche il sale del film. Meno convincenti i giovani John Colicos (l'irlandese) e Frank Langella nella parte del capo rivoluzionario che i protagonisti devono assassinare. 

Gli anni 70 vedono il rapido declino commerciale di Nelson. Tra i suoi ultimi da ricordare almeno l'inquietante Embryo con Rock Hudson, del 1976, film su un esperimento genetico, che per tematiche affini e per massicce dosi di pessimismo ricorda molto “I due mondi di Charlie”. Forse qualcosa da dire, un discorso che attraversava molti suoi film, l'onesto artigiano Nelson ce l'aveva davvero.

Tommaso Sega

mercoledì 18 gennaio 2012

i registi 5 - Robert Altman

ROBERT ALTMAN E IL WESTERN
Ovvero la lezione di cinema di un inguaribile anticonformista



« E poi perché mai il cinema deve essere considerato un’industria? Se il cinema morirà sarà proprio perché era arte, era cultura, e l’hanno cacciato a forza tra i “profitti e perdite.” »

Nonostante abbia mosso i suoi primi passi come regista dirigendo alcuni episodi di famose serie televisive come Bonanza probabilmente Robert Altman non è mai stato particolarmente interessato al western. Per lui il genere non era altro che un mezzo con cui disinnescare i consolidati e paludati miti e modelli hollywoodiani, con lo stesso procedimento adottato per il noir (Il lungo addio), il gangster-movie (Gang), il film di guerra (M.A.S.H.) e di fantascienza (Quintet). Essendo anzi il genere cinematografico americano per eccellenza il western gli dava la possibilità di esprimere con maggior forza e sarcasmo i suoi intenti dissacranti e smitizzanti. Ciò non toglie che con soli due titoli al suo attivo il regista abbia saputo ritagliarsi un posto importante, se non fondamentale, nella storiografia del genere e che i suoi due film siano a loro volta divenuti, soprattutto il primo, dei punti di riferimento obbligati per chi in seguito abbia voluto confrontarsi, in chiave realistica e anti-epica, con il filone. I due film in questione sono ovviamente I compari e Buffalo Bill e gli indiani.

1971 I COMPARI (McCabe & Mrs. Miller) di Robert Altman, con Warren Beatty, Julie Christie, Shelley Duvall, William Devane, Keith Carradine, Michael Murphy, Corey Fischer

Forse il miglior film in assoluto di Altman, che nel suo percorso di rilettura dei generi hollywoodiani si cimenta con il western, destrutturandolo dalle fondamenta ma realizzando anche uno degli indiscutibili capolavori del genere. 
Per prima cosa viene stravolta l’ambientazione, spostata, con un’operazione non dissimile da quella compiuta per il western italiano da Sergio Corbucci con Il grande silenzio, dai deserti e dalle praterie assolate a una frontiera gelida, innevata e fangosa, con un surplus di desolazione e sporcizia (e Altman è tra i primi a porre l’accento sul fatto che nel West sapone e rasoio erano ben poco usati) e la mirabile e minuziosa ricostruzione dell’insediamento minerario di Presbyterian Church, basata su una rigorosa documentazione fotografica degli inizi del secolo scorso, con il saloon più lurido mai visto in western e le tende delle puttane in mezzo al fango.
Poi viene spogliata l’aura mitica, con la figura dell’“eroe”, non più così centrale, mutata in quella di un piccolo magnaccia dalle motivazioni incerte e casuali, un “piccolo imprenditore” che invece che coraggioso pioniere di un Far West inteso come terra di conquista e simbolo di progresso è malaugurata vittima di un capitalismo spietato che divora i più deboli.
Infine vengono disinnescati i luoghi comuni, gli elementi coreografici e i momenti topici, come ben evidenzia il duello finale costruito contro tutta la decennale grammatica del genere: niente confronti faccia a faccia o sfide in velocità, ma uccisioni rigorosamente alle spalle, con gli antagonisti impauriti e che cercano solo di salvare la pelle.
Il commento musicale anziché a ritmi enfatici, marziali o tambureggianti viene affidato alle spoglie e indimenticabili ballate di Leonard Cohen, che trasmettono tutta la tristezza, la malinconia e la disperazione degli improvvisati “eroi” altmaniani, interpretati magnificamente da Warren Beatty e Julie Christie, che aleggia costantemente per tutta la pellicola.
La regia di Altman è antispettacolare, quasi improvvisata nel cogliere protagonisti e non protagonisti in momenti della loro quotidianità, raffinata negli zoom che scrutano i volti dei personaggi, con una bellissima fotografia dalle tonalità ocra e pastello di Vilmos Zsigmond.
Un film che poteva essere pensato e diretto solo nella New Hollywood degli anni settanta, quando sembrava che le esigenze espressive e le istanze artistiche degli autori potessero avere la meglio su quelle commerciali dei produttori. Un breve periodo d’oro durato solo pochi anni, poi alla fine del decennio il trionfo clamoroso di Guerre stellari darà il via al nuovo cinema fracassone e il disastro commerciale de I cancelli del cielo riporterà il final cut in mano ai manager degli studios, togliendolo per sempre da quelle degli autori.

1976 BUFFALO BILL E GLI INDIANI, OVVERO LA LEZIONE DI STORIA DI TORO SEDUTO (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull's History Lesson) di Robert Altman, con Paul Newman, Burt Lancaster, Geraldine Chaplin, Joel Grey, Harvey Keitel, Kevin McCarthy, Will Sampson

Secondo e ultimo western di Altman, rispetto al già demitizzante I compari del tutto allegorico e satirico, con cui completa il suo discorso di decostruzione (e distruzione) del genere, disinnescandone i miti che ne stanno alla base. Tra i suoi film migliori, con dei dialoghi assolutamente strepitosi.
Nell’anno del bicentenario degli USA, la “celebrazione” di Altman è all’insegna della più sferzante ironia: il film è ambientato interamente nel famoso circo di Buffalo Bill, elevato a velenosa metafora del teatrino mediatico degli Stati Uniti d’America e dello show business che inventa false icone grondanti retorica patriottarda e razzista sulle ceneri di un genocidio, ad uso e consumo di un pubblico ottuso che secondo il regista è il vero colpevole (“è sua la responsabilità di ciò che accade all’intorno. La sua eventuale inerzia merita la più severa condanna”).
Da applausi l’interpretazione di Newman, in un’inedita e cialtronesca raffigurazione di William F. Cody. Ma è ottimo anche tutto il resto del cast: Geraldine Chaplin è una deliziosa Annie Oakley, Burt Lancaster il “creatore di miti” Ned Buntline e, in un ruolo minore, c’è anche un giovanissimo Harvey Keitel.
La regia di Altman tecnicamente è stata spesso sottovalutata: l’uso massiccio del teleobiettivo, la quasi assenza di primi piani e campi-controcampi, la recitazione degli attori con ampio spazio all’improvvisazione, il suono in presa diretta e l’overlapping (più personaggi che parlano contemporaneamente) contribuiscono a una messa in scena sicuramente antiaccademica, quasi più teatrale che cinematografica, ma tremendamente efficace. 
Il produttore Dino de Laurentiis, scomparso di recente e ovunque celebrato come un grande mecenate del cinema, mutilò addirittura mezzora di film, cosa che mandò a monte il successivo progetto che lui e Altman dovevano realizzare insieme, Ragtime, passato poi nelle mani del più tranquillizzante e “integrato” Milos Forman.
Nonostante il film sia poco considerato (su alcuni famosi dizionari di cinema viene giudicato addirittura “datato”) e l’intento metaforico di Altman magari anche fin troppo scoperto, il suo rigore e la sua lucidità tra i registi contemporanei non li possiede più nessuno: “A cosa servono i miti? A celare, giustificare, a fornire verità ufficiali. Muovendosi verso ovest, cavalcando i propri interessi, i pionieri avevano un solo obiettivo: far fuori gli occupanti di quelle terre. Tuttavia alle loro famiglie cosa raccontavano? Assalti, massacri, tradimenti? No, l'onore andava salvaguardato. Gli assalti, i massacri e i tradimenti andavano subiti, non compiuti... In altre parole, Buffalo Bill è uno che sa sparare e stare in sella come tutti, dati i tempi. E quando lo scritturano in un circo e diventa attore... Eh, bè, è così bello, così biondo, così "americano" che costruirgli addosso il mito diventa facile. Buffalo Bill è la prima star del sistema: da un lato la sua perfezione, dall'altro la rappresentazione degli indiani stupratori, alcolizzati, scotennatori.” (Robert Altman)
Mauro Mihich