giovedì 26 gennaio 2012

le monografie 1 - Una trilogia "biblica"

LA TRILOGIA "BIBLICA"
DEL WESTERN ALL'ITALIANA

Dio disse ad Abramo: “Uccidi un tuo figlio per me”
Abe disse: “Amico, mi stai prendendo in giro?”
Dio disse: “No.”
Abe disse “Cosa?”
Dio disse: “Abe, fa' quel che ti pare, ma la prossima volta che mi vedi è meglio se sparisci.”
(Highway 61 Revisited, Bob Dylan 1965)



Tre film, tre notevoli ed intriganti western all'italiana, attraversati da echi biblici risalenti ad archetipi quali Caino, Abele e Abramo, uniti dal filo rosso di tematiche quali l'irriducibilità del Male nell'animo di ogni essere umano e dell'irrazionalità con cui esplode e si manifesta. Ad accomunarli anche delle atmosfere di affascinante ed insolita tristezza, alcune finezze psicologiche assolutamente inedite per i western nostrani e un gusto per le sequenze oniriche ed irreali.

Tre film che rappresentano dei casi isolati nelle piuttosto modeste carriere cinematografiche dei due autori, il tuttofare Alberto Cardone (1920 - 1977), che dirige i primi due, e il produttore Mario Siciliano (1925 - 1987), che dopo aver prodotto gli altri dirige da solo il terzo. È quest'ultimo con tutta probabilità da considerare il vero autore della trilogia, soprattutto considerando la pochezza dei successivi western di Cardone senza la sua supervisione. Come già verificato in un caso eclatante come quello di Nando Cicero, ad una generazione di registi italiani il western evidentemente regalò il soffio di un'ispirazione che subito svaporava a contatto con altri generi.


1966 7 DOLLARI SUL ROSSO di Alberto Cardone
con Anthony Steffen, Fernando Sancho, Jerry Wilson, Loredana Nusciak, Elisa Montés

Anche se i pezzi da novanta sono le due pellicole successive, non va sottovalutato questo primo capitolo, dallo stile più impalato e naïf, ma di grande fascino, tutto basato su inquadrature larghissime e classicamente posate, che creano un' atmosfera strana e irreale, quasi metafisica. Storia decisamente triste intrisa di un fatalismo inconsueto anche per i non certo allegrissimi standard dei western spaghetti di quei primi anni. Anthony Steffen è alla disperata ricerca del figlio rapito tanti anni prima da una banda di fuorilegge, ma ignora che nel frattempo il figlio è diventato peggiore dei suoi rapitori. Gran finale tragico di conseguenza.

“[...]è una sorta di tragedia greca in chiave western e con echi biblici, ma l’atmosfera di cupa disperazione e la violenza grafica non sono esasperate come nel film successivo e la regia di Cardone è ancora abbastanza convenzionale, senza i momenti visionari e i tocchi di genio che contraddistingueranno “Mille dollari sul nero”. Inoltre manca anche un personaggio forte come il Sartana-Gianni Garko di quel film.
Il finalone melodrammatico sotto la pioggia con il duello nella main street tra padre e figlio, però, è assolutamente notevole.
La storia è una riuscita variazione sul tema della vendetta, particolarmente apprezzabile per il fatto che tutti i personaggi siano votati alla sconfitta e destinati a soccombere al destino inesorabile. Piuttosto efficaci sia il solitamente ingessato Anthony Steffen in un ruolo piuttosto sfaccettato rispetto agli abituali suoi che Fernando Sancho in una parte quasi da protagonista, nel suo personaggio classico del bandito messicano spietato, sanguinario e dalla roboante risata.
Bella la colonna sonora di Francesco de Masi.
Il titolo che sembra riferirsi a una puntata alla roulette in realtà allude ai sette dollari gettati dal cattivo sulla gonna rossa della moglie del protagonista appena uccisa" (Mauro Mihich).


1966 MILLE DOLLARI SUL NERO di Alberto Cardone (e Mario Siciliano)
con Anthony Steffen, Gianni Garko, Erika Blanc, Sieghardt Rupp, Angelica Ott, Sal Borgese

Il primo film con Sartana, già interpretato da Gianni Garko ma ancora connotato come personaggio folle e negativo. E’ uno spaghetti western nero e cupissimo, nonostante l’abbacinante sole dell’Almeria (che mai come in questo film sembra un deserto assolutamente privo di vita), con sadismo, torture e violenza a tutto spiano e con il corollario di un incredibile campionario di facce patibolari perennemente avvolte in una maschera di sudore.
La trama, dell’ottimo Ernesto Gastaldi, ha cupi toni biblici e da tragedia greca (il film si chiude con un versetto dal Levitico e il flano di lancio era “Non levare la mano contro tuo fratello, così disse il Signore e l’uomo rispose –Prima che il sole tramonti voglio bagnarmi in un lago di sangue”) ed è permeata da una disperazione, da un cinismo e da una crudeltà anomali perfino all’interno dello stesso genere, tanto che il film uscì in sala vietato ai minori di 18 anni.
Stilisticamente la regia di Alberto Cardone (ma al film collaborò anche il produttore Mario Siciliano) è folle e geniale, con primissimi piani dei volti, degli occhi e di altri dettagli dei personaggi, inquadrature di taglio, lunghe riprese dei personaggi a cavallo accompagnate da una musica straniante, fermo immagini del sole (ora accecante, ora al tramonto, ora coperto da nuvole) a fare da stacco tra le sequenze, personaggi che non vengono presentati ma semplicemente compaiono nell’inquadratura quasi come dei fantasmi (tipo Lo straniero senza nome di Eastwood).
Davvero suggestiva la colonna sonora che alterna stranianti motivetti quasi allegri al cupo rimbombare di ritmi funerei e quasi marziali e particolarmente indovinati anche i costumi e gli arredi, con candele e merletti quasi da film gotico.
Persino il legnosissimo Anthony Steffen, nel ruolo di un Clint Eastwood in versione tragica, funziona alla perfezione e anzi la sua povertà espressiva diventa quasi un valore aggiunto al fascino del film. Ma l’autentico mattatore e pezzo forte della pellicola è uno straordinario Gianni Garko che impersona, in una furente e rabbiosa interpretazione alla Klaus Kinski, il General Sartana, sadico personaggio dedito a orge di sangue e deliri di violenza, che ha il suo quartier generale in un tempio azteco e che bacia il medaglione che tiene al collo prima di ammazzare qualcuno.
Molto valida anche la componente femminile, con in testa un’Erika Blanc purtroppo sempre completamente vestita. Bello il gioco di parole del titolo, con i mille dollari che sono il valore della collana portata al collo dalla madre dei protagonisti, perennemente vestita a lutto.
Western notevolissimo (Mauro Mihich).



1968 I VIGLIACCHI NON PREGANO di Mario Siciliano
con Gianni Garko, Sean Todd, Elisa Montes, Jerry Wilson, Alan Collins

Se gli altri due possono vantare una loro piccola fama almeno tra gli appassionati del genere, questo terzo film è una perla praticamente misconosciuta, assolutamente da riscoprire. Il budget del film è visibilmente di serie B, ma le idee e la classe sono di serie A. Della mancanza di soldi soffre solo qualche scena d’azione un po’ confusa. È un ottimo esempio del clima nero e pessimista che aleggiava nel western italiano nel 1968, si vedano altre pellicole di quel periodo come “Cimitero senza croci”, “Black Jack”, “Sentenza di morte”.

Esordio come regista di Siciliano, che comunque già prima pare seguisse molto da vicino le riprese dei film che produceva. Purtroppo in nessuna delle molte pellicole che girerà in seguito (tra cui molti porno) ritroverà lo stile di questo suo primo film. Ottima la sua rigorosa e austera regia, quasi tutta costruita sui dettagli. Uno stile che crea sequenze quasi da film horror. La parte centrale è un po’ dispersiva, ma l’inizio e tutto il secondo tempo sono da urlo.

Il vero protagonista del film è il cattivo di uno strepitoso Gianni Garko che fa ancora lo psicopatico come in “Mille dollari sul nero”. È raro trovare un villain dalla personalità tanto complessa in un western, non solo italiano. Nello splendido prologo lo vediamo come un amorevole marito, ma arrivano quattro disertori che dopo averlo messo fuori combattimento stuprano e uccidono la moglie. Sulle note della bella e malinconica musica di Manuel Parada, scorrono i titoli di testa su un memorabile primissimo piano di Garko svenuto. Al suo risveglio, come dopo un sogno, ha dimenticato tutto. Da quel momento ogni cosa che gli ricorderà il trauma della morte della moglie provocherà in lui una follia omicida. Nel corso del film sembrerà fare di tutto per diventare simile agli assassini della moglie (che sono stati impiccati, anche se lui non lo saprà mai) e farsi così uccidere dall’uomo che lo ha salvato. “Tutto quello che mi è successo è come se lo avessi visto succedere ad un altro! Tutto quello che ho fatto mi sono trovato a farlo senza accorgermene!” confessa nel gran finale, una resa dei conti in una miniera illuminata da luci espressioniste. Personaggio d’antologia del genere.

Pur rispettando i meccanismi della spettacolarità di un film di serie B, l’intero film è un bel groviglio psicologico. Tutti i personaggi sembrano fare scelte masochiste e autodistruttive. Per quanto più convenzionale rispetto alla sua nemesi, anche il personaggio del buono alla fine rinuncerà alla legge a cui era devoto per inseguire la vendetta personale. Non a caso ha il volto ombroso del perennemente accigliato Sean Todd, spesso utilizzato in ruoli da cattivo. Di un gusto quasi surrealista alcune sequenze che lo vedono protagonista, come quella dell'assurda roulette russa con cui viene “risolto” un caso di omicidio, grottesca rappresentazione di come anche la giustizia sia in realtà affidata continuamente al caso. Surreali anche tutti i duelli che costellano il film, ad esempio al buio con la sola luce dei sigari come bersaglio o a cavallo come in un torneo medievale, la cui bizzarria va ad accrescere il clima psicotico e un po’ folle del film.

Tommaso Sega e Mauro Mihich

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