martedì 29 maggio 2012

western brutti 3 - Per una bara piena di dollari

1971 PER UNA BARA PIENA DI DOLLARI di Demofilo Fidani. Con Jeff Cameron, Hunt Powers, Gordon Mitchell, Klaus Kinski, Simone Blondell.


Demofilo Fidani: un nome che evoca sciagure. Nascosto dietro svariati, improbabilissimi pseudonimi - Miles Deem, Dick Spitfire, Demos Philos, Nedo De Fida, Lucky Dickinson, Slim Alone per citarne solo alcuni -, è l'uomo che è riuscito a far pronunciare l'aggettivo "brutto" anche ai più scafati cultori del trash nostrano. Non che gli manchino sparuti, indefessi fans, appartenenti alla sfortunata categoria degli autolesionisti. Passato di moda il cilicio, infatti, pare si annullino con reiterate proiezioni di "Ed ora... raccomanda l'anima a Dio!", "Quel maledetto giorno d'inverno... Django e Sartana all'ultimo sangue", "Il suo nome era Pot... ma... lo chiamavano Allegria", "Era Sam Wallash... lo chiamavano 'E così sia'!". Contenti loro...

"Per una bara piena di dollari" credo sia uno dei suoi western più decenti, almeno stando a quanto si dice degli altri. Perlomeno ha una buona fotografia di Aristide Massaccesi, per chi si accontenta. Rimane comunque qualcosa di assolutamente delirante: la sceneggiatura è un'accozzaglia di luoghi comuni e spunti malamente rubati ai classici del genere, gli attori sono improponibili, la regia è di un dilettantismo che ha dell'incredibile, le musiche - del micidiale Lallo Gori - ricordano quelle che accompagnavano il roteare delle giostre a cavalli nei luna-park degli anni '60. Il bello è che il tutto è pure confezionato con un certo assurdo ma definito stile: sparatorie infinite girate con totale sprezzo di geometrie e verosimiglianza, con avversari che spuntano dal nulla e muoiono producendosi in versi belluini e strabilianti contorsioni, magari accompagnate da esageratissimi ralenti; un uso assolutamente folle del sonoro, con pistole che producono deflagrazioni degne di una bombarda del XV secolo e cavalli che, non si sa come, diffondono un assordante scalpiccio di zoccoli anche quando si muovono sulla morbida sabbia del deserto - deserto per modo di dire, visto che siamo in Ciociaria. L'utilizzo insistito della macchina a mano, invece, più che una scelta stilistica sembra una necessità, vista la povertà estrema della produzione. L'operatore, peraltro, in alcune scene pare muoversi in modo del tutto inconsulto, al punto da ostacolare i  movimenti degli attori, costretti a fare i salti mortali per non sbattere contro l'obiettivo della cinepresa.

Il cast, come detto, fa semplicemente ridere. Di tutti i totem inespressivi visti negli spaghetti, Jeff Cameron - l'italianissimo Nino Scarciofolo (sic) - è probabilmente il più inespressivo e il meno totemico. Si aggira per la pellicola con il fare di un turista spaesato: quando si lancia ad affrontare i nemici ha la stessa aria tesa di un ottantenne che si reca alle poste ad incassare la pensione. Il non plus ultra però è rappresentato da un inenarrabile Gordon Mitchell, capace di dare nuova linfa al concetto di "cagneria": alterna movimenti e pose scultoree da teatro elisabettiano a repentini cambi d'umore ed espressione da clown del Circo Togni, producendo effetti comici difficilmente eguagliabili. Kinski al solito si salva, ma d'altronde a lui basta la faccia. E basta, eccome, anche alla bellissima Simonetta Vitelli, figlia del regista, nonostante un trucco orrendo che la fa sembrare una emo dei nostri giorni. Impossibile non citare, infine, l'apparizione cult di Renzo Arbore nei panni di uno sceriffo, con tanto di enorme stellone di cartapesta attaccato al giaccone.

Del tutto inutile riportare incongruenze e buchi logici della trama: il film intero sembra un unico grande errore. Se preso con lo spirito giusto può in fin dei conti anche divertire, ma trovarci altri valori è sinceramente impossibile. Fa giusto tenerezza se si pensa allo spirito incrollabile di Fidani e Massaccesi, che giravano nonostante tutto, inventandosi soluzioni artigianali alla mancanza dei più basilari mezzi di produzione, costretti come non bastasse a sopportare le scenate di un Kinski all'apice della strafottenza. Tanto, esauriti tutti gli espedienti possibili, si faceva sempre in tempo ad inserire un'interminabile cavalcata nelle praterie laziali. Altri tempi, anche per il trash.


Paolo D'Andrea

lunedì 28 maggio 2012

i film 30 - Ultima notte a Warlock

1959 ULTIMA NOTTE A WARLOCK (Warlock)
di Edward Dmytryk, con Richard Widmark, Henry Fonda, Anthony Quinn, Dorothy Malone, Dolores Michaels

Classicissimo anni cinquanta.
Più che per la trama piuttosto classica – il pistolero che viene da fuori a mettere ordine nella città senza legge, occasione per il solito discorso sulla contrapposizione tra ordine e individualismo – vale per lo scavo psicologico e la complessità dei caratteri dei protagonisti.
Se Richard Widmark – grande come psicopatico nei noir come Il bacio della morte, ma un po’ legnoso come interprete western – è una figura di sceriffo ben realizzata ma che finisce per risultare un po’ manichea, il pistolero nerovestito e dalle pistole d'oro di Henry Fonda e, soprattutto, il gambler zoppo di Anthony Quinn, morbosamente “innamorato” di Fonda, possono tranquillamente essere ascritti tra i più grandi personaggi di tutto il cinema western.



Per i primi tre quarti il film si mantiene su un ritmo di attesa, piuttosto lento e indolente, ma il finale è assolutamente esplosivo e memorabile, con ben tre duelli, uno più particolare e bello dell’altro, tutti con una loro precisa valenza simbolica: quello tra Widmark e la banda dei “pareggiatori”, quello notturno tra Fonda e Quinn e infine quello conclusivo, sorprendente, tra Widmark e Fonda.
Non mancano preziosismi e raffinatezze di sceneggiatura e regia, al di là del celebre rapporto sotterraneamente omosessuale tra Fonda e Quinn: lo sceriffo Widmark dal tormentato passato di assassino che si innamora di quella che evidentemente non è altri che una prostituta, Fonda che invece abbandona la ragazza di buona famiglia e il matrimonio per inseguire il suo destino di assassino, la tranquilla e morigerata comunità osservata con uno sguardo a metà tra il compatimento e il disprezzo.

venerdì 25 maggio 2012

i registi 13 - Joaquìn Luis Romero Marchent 2

JOAQUÌN LUIS ROMERO MARCHENT
Il maestro dimenticato 



Parte 2 – Dopo Sergio Leone

Con l’esplosione degli spaghetti western italiani Marchent (e con lui tutto il western spagnolo, il cosiddetto "chorizo western") è declassato da autore di primo piano e con budget di tutto rispetto a regista di secondo piano alle prese con budget risicati. Se i suoi primi western avevano goduto di enorme successo commerciale, soprattutto in Spagna, da qui in avanti le sue pellicole passano totalmente inosservate e ancora oggi vengono prese in scarsa o nessuna considerazione. Anche se a vederli ci si accorge che alla bellissima trilogia iniziale del regista hanno da invidiare solo la ricchezza dei budget.


1964 LA MUERTE CUMPLE CONDENA (100.000 dollari per Lassister) 
di Joaquìn Luis Romero Marchent con Robert Hundar, Pamela Tudor, Luigi Pistilli, Jesus Puente, Roberto Camardiel, José Bódalo, Aldo Sambrell, Benito Stefanelli, Robert Johnson Jr

E di serie B è appunto la produzione di "100.000 dollari per Lassister" (ma il titolo spagnolo è tipicamente alla Marchent: "La morte esegue la condanna"). Girato in contemporanea a "Per un pugno di dollari" e "Una pistola per Ringo", a livello stilistico non ha assolutamente nulla dei nascenti spaghetti western, è invece un elegante e asciuttissimo western all'americana, il cui modello principale sembra Budd Boetticher, con un intreccio che riprende spunti da "Il cavaliere della valle solitaria", contaminato da parecchi spunti da commedia. 

Ma il protagonista, Lassister, finta aria da avvocato e pieno di trucchi, ha già il cinismo avido e sornione dello straniero senza nome di Leone e l'aria beffarda e indifferente del primo Ringo. Lo interpreta l'attore icona di Marchent, un irresistibile Robert Hundar/Claudio Ungari, un attore che davvero meritava infinitamente più fortuna. La trama vede un prepotente ranchero ridotto su una sedia a rotelle che vuole cancellare il suo passato da bandito. Suo malgrado deve rivolgersi al misterioso protagonista, che per i suoi servigi pretende la cifra del titolo italiano. Il tono è brillante ed ironico, ma il film è molto più sofisticato e complesso di quel che può apparire. Anche se dissimulata è infatti l'ennesima storia di vendetta dal finale pessimista alla Marchent. Una delle trovate più originali del film è l'aver donato una personalità e dell'umanità ai tipici pistoleri di cui si circonda il cattivo. Le loro morti, spesso inaspettate, lasciano un retrogusto amaro. Hanno le facce indimenticabili di Aldo Sambrell (taciturno e spietato), Luigi Pistilli (calmo e professionale), Benito Stefanelli (riluttante e in fondo onesto). A loro va aggiunto il notevole personaggio del figliastro del cattivo, amletico e psicotico. Decisamente originali anche i personaggi della tipica vedovella (molto) gnocca e dei suoi due frugoletti, che rapinano gli incauti viaggiatori, con tanto di zio che è uno sciacallo che spoglia i morti. Un film interessante e divertente, che sorprende e spiazza gli spettatori, come il suo protagonista sorprende e spiazza i suoi avversari.


1965 EL OCASO DE UN PISTOLERO (Mani di pistolero o Destino di un pistolero)
di Joaquìn Luis Romero Marchent e Rafael Romero Marchent con Craig Hill, Piero Lulli, Gloria Milland, Carlos Romero Marchent, Conchita Núñez, Jesús Puente, José Guardiola, Raf Baldassarre 

Diretto insieme al fratello esordiente Rafael, che firma ufficialmente la regia. Ma una volta visto il film, riscontrata l’eleganza con cui è girato e tenuto conto dei magrissimi risultati ottenuti poi dall'anonimo Rafael nel genere, ci sono pochi dubbi su a chi vada effettivamente attribuito. Il film segna la rottura tra Marchent e i produttori italiani. In un certo senso è anche il suo addio agli "spaghetti" in generale. Indispettito nel non veder riconosciuta la sua importanza nel genere e nel vedersi considerato un regista di serie B, meno considerato degli emergenti colleghi italiani, manda a quel paese tutti quanti e praticamente si ritira dalla carriera come regista, lasciando il campo al fratello Rafael, che invece diventerà uno dei registi più prolifici del versante spagnolo degli spaghetti, dirigendo una dozzina di titoli (occhio e croce tutti di serie F o Z).

Dopo la parentesi brillante per quanto amara del film precedente, sul West di Marchent cala nuovamente quell'atmosfera di ineluttabile tristezza e pessimismo cosmico che sono il suo marchio di fabbrica. E' un complesso e crepuscolare western psicologico, dallo stile elegante e secco, come sempre incentrato sulla velenosa contagiosità della vendetta e della violenza. E' anche il memorabile e intenso esordio nel genere per Craig Hill, che replicherà subito dopo con il folgorante Per il gusto di uccidere di Tonino Valerii. Un vero peccato che il resto della sua carriera non sia decisamente proseguita sugli stessi livelli. Mentre fugge dalla legge con la famiglia appresso, un pistolero vede suo figlio in fasce colpito per errore da uno sceriffo. La fuga continua al rallentatore nei suggestivi titoli di testa. Alla fine dei titoli il protagonista si risveglia, con moglie e figlio accanto a lui. Il prologo era solo un tormentato ricordo? Seguono venti minuti di western bucolico, tra coppiette felici e cani scondinzolanti, che sembra preannunciare l' ennesima variante de "La pistola sepolta", con il pistolero che ha appeso la pistola al chiodo e che, costretto dagli eventi, riprenderà in mano per difendere la pace della famiglia e della comunità. Invece è tutta un' illusione. La felicità del protagonista e di sua moglie si basa su una tragica menzogna e la violenza esploderà devastante e senza pietà per nessuno. La seconda metà del film, con lo scatenarsi di una tragica e sanguinosissima faida e la discesa del protagonista in una spirale di violenza e autodistruzione è grandissima scuola western. Con splendida ambiguità la rigorosa condanna morale della violenza da parte dell'autore non impedisce allo spettatore di esaltarsi nelle scene in cui il protagonista fredda ad uno ad uno i suoi nemici. Finalone epico alla Marchent, tragico e al solito senza scampo per nessuno. 


1967 FEDRA WEST (Io non perdono... uccido) 
di Joaquìn Luis Romero Marchent con James Philbrook, Norma Bengell, Simón Andreu, Luis Induni, Emil C. Caba, Maria Silva

In piena epoca d’oro dei western spaghetti, Marchent non solo non si adegua all’andazzo generale, ma ispirandosi nientemeno che al mito greco di Fedra (la moglie che ha una relazione con il figliastro provocando volutamente l'ira omicida del marito) gira un'autentica tragedia ambientata nel West, un cupo dramma famigliare e psicologico che rifiuta tutti canoni dei modelli italiani, a cominciare dalla figura del protagonista, un giovane avvocato pacifista che rifiuta la violenza, incarnata invece dal padre, un ranchero dispotico che passa il suo tempo a torturare e linciare i ladri di bestiame.

Il film maledetto di Marchent, probabilmente ispirato al celeberrimo "Duello al sole" di King Vidor. Potrebbe essere il film in cui il lato melodrammatico è sfuggito dalle mani al regista, ma se è folle, eccentrico e violento come appare sulla carta potrebbe essere invece uno dei suoi capolavori. Purtroppo ne possiamo parlare solo per sentito dire, perché la pellicola è praticamente introvabile. Ad oggi ne circola solo una rara copia in inglese, malmessa e gravemente mutilata di molte scene, tanto da rendere persino difficile il capirne la storia.

Dovrebbe trattarsi di un film piuttosto torrido, sia dal punto di vista della violenza che del sesso. (Cosa singolare considerando che si tratta di un film quasi interamente spagnolo e la la censura franchista di allora era particolarmente severa verso i film autoctoni, mentre per ovvie ragioni economiche chiudeva invece un occhio sulle coproduzioni a maggioranza italiana). L'affascinante Norma Bengell era stata protagonista di un altro western spaghetti atipico e con al centro una tragedia famigliare, il bellissimo I crudeli di Sergio Corbucci.

Per una volta il titolo italiano era migliore di quello spagnolo.


1970 UN PAR DE ASESINOS (Lo irritarono... e Santana fece piazza pulita)
di Rafael Romero Marchent con Gianni Garko, William Bogart, María Silva, Andres Mejuto, Carlos Romero Marchent, Raf Baldassarre, Cris Huerta 

Film interamente diretto dal fratello Rafael, ma di cui il Marchent maggiore firma soggetto e sceneggiatura, che sono infatti la parte più interessante del film. Peccato che a dirigere tutto ci sia appunto il fratello minore, che anche qui come in tutti e dodici i suoi western si conferma regista senza un vero stile, smorto e trasandato. 

Film in Italia afflitto anche dal solito titolo per gonzi. Il sempre ottimo Garko in origine si chiama Larry e il personaggio che interpreta non ha nulla a che vedere con il suo Sartana, con la “r” o con la “n” che dir si voglia. Ricorda molto il Sundance Kid di Robert Redford piuttosto, anche per via del doppiaggio. Infatti siamo dalle parti delle pellicole con al centro una coppia di criminali simpatici che se la vedono con criminali antipatici e sceriffi più o meno onesti. Il compare di Garko è il gigionesco William Bogart, nome d’arte anglofono, faccia da messicano, ma che in realtà è un italianissimo Guglielmo Spoletini. Sempre ricalcando il modello di Butch Cassidy, ad un certo punto entra in scena anche una bellissima pupa come terzo componente della banda, non meno cinica e spietata dai due compari.

L’originalità della storia scritta da Marchent sta proprio nel fatto che i due protagonisti rendono giustizia al titolo originale: "Un par de asesinos". Sono quindi davvero una coppia di assassini senza scrupoli e amorali, nulla a che vedere con i fuorilegge romantici interpretati dalla coppia Paul Newman e Robert Redford, anche perché sono per altro prontissimi ad uccidersi anche l'un l'altro. Se suscitano la simpatia degli spettatori è solo perché hanno a che fare con gente infinitamente peggiore di loro. Come l’inquietante famiglia Kirby, che entra in scena a metà film con una lunga e crudele mattanza stile Manson Family (sequenza probabilmente aggiunta per allungare il brodo ma di una torva efficacia) e ne esce poche scene dopo, passando dal ruolo di carnefici a quello di vittime, quando finiscono nelle mani non meno spietate dei due protagonisti. In definitiva un western picaresco girato in modo povero e sbrigativo, ma nobilitato da un cast di prim'ordine e da una visione autenticamente cinica del west. 


1972 CONDENADOS A VIVIR (Cut Throats Nine)
di Joaquin Luis Romero Marchent, con Robert Hundar, Emma Cohen, Alberto Dalbés, Antonio Iranzo, Manuel Tejada, Ricardo Dàaz, José Manuel Martín

Il definitivo addio al western e il capolavoro crepuscolare di Marchent. Ha poco del western e ancor meno dello spaghetti, assomiglia più ad un horror e ad un certo tipo di film d'autore che andavano di moda all'epoca, da Polansky a Joseph Losey.

"Western interamente spagnolo, mai distribuito in Italia e famoso per essere considerato da più parti come il più violento, crudo ed estremo mai realizzato. In realtà secondo il protagonista, il grande Robert Hundar (al secolo Claudio Undari, il primo eroe in assoluto del nostro cinema western e per grinta e prestanza fisica una specie di Charlton Heston italiano), il film esisterebbe in double version: una soft per il mercato spagnolo e una molto più efferata per il mercato americano, per la quale su richiesta del distributore vennero realizzati appositamente degli “inserti” per renderla più forte (nelle proiezioni venivano addirittura date agli spettatori delle mascherine per “proteggersi” contro le scene troppo raccapriccianti). La cosa, in effetti, sembra abbastanza evidente, perché alcune scene di violenza sono realizzate in modo piuttosto asciutto e senza esibizione di sangue, mentre altre in modo molto più efferato e con close-up scioccante, dando proprio l’idea di essere state “rafforzate”. Da dire, comunque, che i dettagli shock sono perfettamente inseriti nello sviluppo delle trama e ben legati con il resto del girato e anzi contribuiscono senza dubbio ad accrescere il fascino malsano del film, in cui l’utilizzo dello splatter in chiave decisamente espressiva anticipa di parecchio gli horror del nostro Lucio Fulci. 
Al di là delle scene cruente, comunque, si tratta in ogni caso di un bellissimo film, sicuramente un “unicum” all’interno del genere spaghetti, con cui ha veramente pochissimi punti in comune, talmente “nero”, angosciante ed allucinato che al confronto Il grande silenzio sembra quasi un ottimistico inno alla vita.

Un soldato dell’esercito accompagnato dalla giovane figlia sta scortando un gruppo di pericolosi assassini incatenati tra di loro fino a una prigione nelle montagne. Il carro viene assalito da una banda di predoni e dopo uno scontro a fuoco, nel quale i soldati di scorta vengono uccisi, il carro distrutto e i cavalli perduti, il sergente si trova a dover condurre a piedi se stesso, la figlia e i selvaggi criminali attraverso le montagne piene di neve. Il viaggio, già di per sé effettuato in condizioni impossibili e disumane, si trasformerà in un autentico gioco al massacro quando i prigionieri scopriranno che le catene che li legano sono fatte d’oro. In un’escalation di orrore senza limiti i banditi si daranno da fare per massacrare il sergente e violentare la figlia. Finirà malissimo per tutti in uno dei finali più cinici e nichilisti mai visti al cinema.

E’ un western nerissimo senza eroi e senza nessuna speranza, quello di Marchent, a cui la fotografia dalle tonalità cupe, la musica sinistra e l'uso straniante del flashback donano un’atmosfere lugubre e malata, molto vicina all’horror e a certi racconti di Ambrose Bierce, girato visibilmente con pochissimi mezzi (c’è una scena simile a quella de Il buono, il buono, il cattivo, in cui i prigionieri per liberarsi dalle catene le appoggiano sulle rotaie della ferrovia, risolta ingegnosamente senza far vedere il treno, che evidentemente non c’era a disposizione), ma con pochi eguali per cattiveria e crudeltà: ogni azione è in esclusiva funzione della lotta per la sopravvivenza e a dominare su tutto sono le pulsioni e la ferocia degli uomini, mentre l’indifferenza della natura, con l’ambientazione nevosa nelle montagne ad aggiungere un ulteriore tocco di gelida desolazione, fa da silenziosa spettatrice." (Mauro Mihich)

"Tutto è portato al limite, per prima cosa il corpo umano, variamente dilaniato ed umiliato, l'istinto di sopravvivenza e l'avidità, che sfociano nella violenza, ma anche e soprattutto il linguaggio cinematografico stesso: far uscire di scena il protagonista (che il regista non manca di dichiarare tale attraverso l'utilizzo della voce fuori campo) dopo nemmeno un'ora non è cosa da poco in quanto a trasgressione! Il limite è anche quello oltre il quale la macchina da presa non può spingersi: Marchent lo sfida, mostrandoci quelle che potrebbero benissimo essere le prime budella della storia del cinema. L'uso di flashback ed ellissi è esemplare, il rewind sulla casa crollata è un colpo di genio e Undari avrebbe davvero meritato maggior fortuna. Un cinema così libero non esiste più." (Paolo D’Andrea)

Quello che che è probabilmente l'ultimo grande maestro del cinema western ancora in vita, attualmente vive a Madrid ormai novantenne.  

martedì 22 maggio 2012

i film 29 - Matalo!


1970 MATALO!  
di Cesare Canevari, con Lou Castel, Corrado Pani, Antonio Salines, Luis Dávila, Claudia Gravy, Ana Maria Noe, Ana Maria Mendoza, Mirella Pamphili 

Lo spaghetti-western più sperimentale e surrealista che sia mai stato girato, oltre che probabilmente quello con meno dialoghi in assoluto, visto che a parte qualche parola fuori campo le battute si contano sulle dita di una mano.
La trama è nient'altro che un pretesto e il film è interamente costruito sullo stile e la parte visiva, sottolineata da una dissonante colonna sonora di rock psichedelico.
Impossibile rendere conto di tutti i virtuosismi della regia e delle prodezze della macchina da presa (ben quattro gli operatori accreditati), tra i quali citiamo almeno l’inizio musicale di dieci minuti con l’arrivo dei banditi e Corrado Pani fuori fuoco e con il cappio al collo; il dolly che segue il lancio del boomerang salendo sopra i tetti per poi abbattersi in primo piano in faccia ad Antonio Salines; la sparatoria finale con la cinepresa che lascia fuori campo i protagonisti che vengono uccisi (inquadrati solo nel piano sequenza finale); l’immagine che oscilla al suono delle campane; le lunghe scene girate interamente con la camera a mano.
Grande ruolo nella riuscita dell’opera hanno anche il montaggio, onirico ed elittico, e la fotografia, oscillante in singolare contrasto tra i toni accesi del deserto e il buio della città fantasma.



Il regista Cesare Canevari (autore di un solo altro western, molto più convenzionale e molto meno riuscito, Per un dollaro a Tucson si muore) spinge notevolmente sui pedali della violenza e del sadismo, ma stranamente non su quello dell’erotismo (nonostante sia principalmente conosciuto per film erotici come Io, Emmanuele, La principessa nuda e L’ultima orgia del Terzo Reich), malgrado un paio di attrici che si presterebbero bene (in particolare Claudia Gravy, che si aggira per tutto il film con un succinto e incredibile abitino anni sessanta).
Del tutto atipico e singolare anche l’aspetto thriller, con giochi di ombre e occhi dilatati che spiano nel buio come nei film di Dario Argento.
Gli interpreti sono tutti perennemente sopra le righe, tranne un impassibile Lou Castel armato di boomerang, attore dotato di poca espressività ma che sullo schermo funzionava benissimo.



Oltre che il maggior pregio del film la sua eccentricità ne costituisce anche il limite, con una parte centrale troppo ridondante, alcuni personaggi non adeguatamente approfonditi (la bionda di Ana Maria Noe, ad esempio) ed alcuni momenti, come la tortura di Castel, eccessivamente lunghi e monocordi, in cui il film arranca e soffre un po’ per mancanza di ritmo.
Pur con questi suoi limiti il film rimane comunque fondamentale testimonianza della libertà creativa possibile in Italia negli anni settanta all’interno di un genere commerciale come il western.

lunedì 21 maggio 2012

i registi 13 - Joaquìn Luis Romero Marchent 1

JOAQUÌN LUIS ROMERO MARCHENT
Il maestro dimenticato 



Parte 1 - Prima di Sergio Leone

Regista spagnolo, classe 1921, il novantenne Joaquìn Luis Romero Marchent è semplicemente uno dei grandissimi del cinema western, non solo europeo. Autore di grande classe, con una sua affascinante e originale visione del western. Autore che non ha nulla a che fare con l'iconografia tradizionale degli spaghetti western, che anzi ripudiò polemicamente, e che più che ai colleghi italiani va confrontato e messo sullo stesso piano dei maestri americani.

Un maestro quasi totalmente sconosciuto nel nostro paese, dato che sfiorò soltanto il western all'italiana, realizzando i suoi film più belli prima della moda degli "spaghetti" esplosa con i film di Sergio Leone e poi tenendosi lontano dagli schemi del genere per i suoi film successivi. Regista fondamentale per il genere fin dalla sua preistoria, con all'attivo due film del Zorro spagnolo, El Coyote, e altri due con lo Zorro originale (ne dirigerà un terzo negli anni '70). Con la sua trilogia di western incentrata sulla vendetta, tema che ritorna ossessivamente in tutti i suoi film, otterrà un successo strepitoso in Spagna, spianando la strada ai western all’italiana. Sarà un autore fondamentale anche della fase crepuscolare del genere.

Assolutamente da non confondere con il fratello Rafael Romero Marchent, altrettanto prolifico nel genere, ma infinitamente meno dotato.

I suoi western:
1962 TRES HOMBRE BUENOS (I tre implacabili)
1963 EL SABOR DE LA VENGANZA (I tre spietati)
1963 ANTES LLEGA LA MUERTE (I sette del Texas)
1964 AVVENTURAS DEL OESTE (Sette ore di fuoco)
1964 LA MUERTE CUMPLE CONDENA (100.000 dollari per Lassister)
1965 EL OCASO DE UN PISTOLERO (Mani di pistolero)
1967 FEDRA WEST (Io non perdono... uccido)
1972 CONDENADOS A VIVIR (Cut Throats Nine)


1962 TRES HOMBRE BUENOS (I tre implacabili)
di Joaquìn Luis Romero Marchent con Geoffrey Horne, Robert Hundar, Paul Piaget, Turia Nelson, Fernando Sancho

Affascinante primo capitolo della trilogia sulla vendetta. Il protagonista (attenzione: un latino), va in cerca, con un amico pistolero, dei sette assassini che gli hanno ammazzato la moglie. Dopo aver vagato per anni come in "Sentieri Selvaggi" e averne fatti fuori cinque, tornerà al paese per fare i conti con il misterioso capo della banda e, a tempo perso, far piazza pulita di un sindaco e uno sceriffo corrotti che spadroneggiano con la loro banda. Al paese i due troveranno un efficace alleato in un simpatico messicano. Dalla trama può sembrare poco più di un secco e veloce western americano di serie B. E in effetti l'elegantissima regia, il ritmo spedito, le musiche, la fotografia e il tipo di recitazione guardano a quei modelli. Ma c'è qualcosa di più. Per cominciare un' aria funerea, intrisa di tipica melodrammaticità latina, dove tutto è esasperato, con scene tipo il marito che tenta di rianimare il cadavere della moglie (che era pure incinta) e la cui ossessione per la vendetta sarà totalizzante. Mezzi personaggi vestiti di nero, l'ambientazione invernale e la riuscita parte gialla e misteriosa, con un assassino che agisce nell'ombra, completano il tono del film.

C'è qualche particolare bizzarro che anticipa gli "spaghetti": delle spille usate per segnare ogni assassino ucciso, un paio di duelli nel buio di una cantina che nascondono un ingegnoso trucco, l'esasperata sparatoria finale. Il modo di agire dei tre protagonisti ricorda un po' quello del nostrano Tex Willer e dei suoi pards, infatti i personaggi sono tratti da una serie di romanzi western pulp molto nota in Spagna. Unico grosso limite del film, un cast dalle facce anonime, per quanto tutti gli attori siano ottimamente diretti. Fanno macchia, non a caso, due volti che diventeranno tipici degli "spaghetti": il solito, onnipresente, Fernando Sancho, che qui come negli atri due film interpreta dei personaggi insolitamente positivi e l'italiano Robert Hundar (Claudio Undari - un altro grande del nostro western dimenticato), che qui invece fa il cattivo a tutto tondo. Incassò benissimo anche in Italia e fu il primissimo western europeo a vedere una partecipazione italiana. Per ora solo a livello produttivo. Per ora...


1963 EL SABOR DE LA VENGANZA (I tre spietati)
di Joaquìn Luis Romero Marchent con Richard Harrison, Robert Hundar, Gloria Milland, Miguel Palenzuela, Fernando Sancho

Lasciati indietro gli elementi da feuilleton e i toni noir dell’esordio, Marchent dirige mirabilmente un western ancor più “americano” e dall’aria più moderna, ispirato ai classici di Anthony Mann. Assolutamente personali restano gli elementi melodrammatici e quel velo di tristezza e malinconia che ricopre i personaggi. La storia ci mostra come la violenza contamini e marchi a fondo anche l’animo delle vittime. Tre bambini vedono uccidere il padre da dei banditi e la madre li cresce nel culto della vendetta. Cresciuti scelgono tre strade diverse: uno decide di rifarsi una vita, un altro (Richard Harrison) diventa un integerrimo uomo di legge, mentre il terzo (Robert Hundar) diventa un fuorilegge. Quando si tratterà di compiere la vendetta ovviamente sarà scontro fraterno.

La distinzione morale tra i personaggi sfugge il manicheismo, tutti i personaggi hanno più sfaccettature e una psicologia complessa. Il fratello uomo di legge è ossessionato e accecato dalle leggi almeno quanto il fratello fuorilegge è ossessionato dalla vendetta. E il personaggio più affascinante è proprio quello di un imponente Robert Hundar, cinico, cupo, tormentato. Bellissimo anche il personaggio della madre (la bellissima moglie del regista Gloria Milland, che rifulgerà ancora di più nel film successivo), che si rende troppo tardi di aver involontariamente avvelenato l’esistenza dei figli. Splendido il finale triste e melodrammatico. Anche questo film ha un enorme successo. Anche in Italia fa ottimi incassi e qualcuno a Cinecittà comincia a chiedersi cosa succederebbe se si iniziassero a produrre western direttamente nel nostro paese...


1963 ANTES LLEGA LA MUERTE (I sette del Texas)
di Joaquìn Luis Romero Marchent con Paul Piaget, Robert Hundar, Fernando Sancho, Gloria Milland, Jesus Puente, Raf Baldassarre

CAPOLAVORO con tutte le maiuscole del caso. Non solo uno dei più bei western europei, ma un film che merita di essere considerato un classico del genere in generale. Anche uno dei western più sommessamente disperati e malinconici mai girati, con un finale melodrammatico da pelle d’oca. Il riferimento principale mi pare ancora Anthony Mann, ma ormai Marchent vola alto con ali sue, con uno stile e dei punti fermi personali e già riconoscibili.

"Ancora ovviamente molto agganciato al modello classico americano, ma già con alcune notevoli componenti “spaghetti”: una certa crudezza nelle scene violente, con abbondante uso di sangue, una certa aria di disincanto, un certo modo di inquadrare. E poi il bellissimo paesaggio desertico dell’Almerìa, il personaggio di Robert Hundar che si chiama già Ringo, le musiche di Riz Ortolani. C’è già anche Fernando Sancho (qui rinominato per l’occasione Fernand Sancho). In più Marchent ci aggiunge una sua personale concezione autoriale in cui mescola il western con il melodramma, con un uso spinto di un grandissimo romanticismo, però sempre misurato e mai fuori dalle righe, che dona al film un pathos davvero riuscito e coinvolgente.
Su tutta la storia grava, infatti, un’atmosfera di imminente e ineluttabile tragedia, con i protagonisti che sembrano loro malgrado convinti –nonostante siano mossi dai più alti e nobili ideali- che il destino che li aspetta non potrà che essere tragico.
Produttivamente è un film ricchissimo: alto budget, moltissime settimane di lavorazione dalle montagne ai deserti della Spagna, una storia dalla costruzione solida e robusta, con una bella sceneggiatura di buon scavo psicologico, grandi scene di massa (c’è un attacco indiano al forte che da' parecchi punti ai contemporanei western americani) e buoni attori.
Robert Hundar (che è il primo cowboy in assoluto del nostro cinema e per grinta e prestanza fisica una specie di Charlton Heston italiano), ricorda che la scena finale del deserto con i protagonisti senz’acqua è così verosimigliante perché anche gli stessi attori si ritrovarono completamente isolati in Almerìa con i rifornimenti che tardavano ad arrivare." (Mauro Mihich)

Non si sa dove i distributori nostrani hanno contato i sette dell'imbecillissimo titolo italiano (escludendo una macchietta cinese, i protagonisti maschili del film sono nove, o sei se si escludono i tre traditori), la cui insipienza è probabilmente uno dei motivi per cui il film è così poco ricordato da noi. Il titolo originale è meraviglioso: "Arriva prima la morte". Assolutamente da riscoprire.


1964 AVVENTURAS DEL OESTE (Sette ore di fuoco)
di Joaquìn Luis Romero Marchent con Clyde Rogers, Adrian Hoven, Kurt Großkurth, Helga Sommerfeld, Raf Baldassarre, Chris Huerta, Lorenzo Robledo, Gloria Milland

Nel 1964 Marchent commette l'errore della sua vita dirigendo questo suo quarto western (da noi intitolato "Sette ore di fuoco", titolo tra i più fuorvianti considerato che la storia parte addirittura raccontando l’infanzia di Buffalo Bill). Senza minimamente aver colto l'aria dei tempi, Marchent realizza non solo un western ultraclassico, ma un film da museo delle cere, con protagonisti i più polverosi e consunti miti del West: Buffalo Bill, Wild Bill Hicock, Calamity Jane, Nuvola Rossa, prendendosi pure enormi libertà . Il film sparisce rapidamente dalle scene, ma non è l'insuccesso commerciale il vero problema, il peggio è che questo film bolla Marchent come regista improvvisamente "vecchio", con una visione del western ormai superata nell’anno di "Per un pugno di dollari", a cui al massimo affidare solo produzioni di seconda e terza fila...

E per una volta non si può dare del tutto torto ai produttori: il film è davvero "vecchio". Senza la naturale compostezza dei prodotti hollywoodiani che vorrebbe imitare, la sensazione è quella di guardare qualcosa di costantemente fuori fuoco e sbiadito. Sembra un film imbalsamato fin dai titoli di testa, corredati di eroiche illustrazione stile album delle figurine e musichetta pomposa. Segue un'ora e mezza di luoghi comuni da western americano che dovevano sembrare esausti già vent'anni prima, tra carovane di pionieri bonaccioni, fortini pieni di linde giacche blu e praterie brulicanti di infidi indiani massacratori. Ciliegina sulla torta, una retorica anti - indiana decisamente fastidiosa in un film del 1964. Gli unici indiani buoni sono quelli guidati da un bianco, uno convertito al cristianesimo e, ovviamente, quelli morti. Anche se si ha l'impressione che lo stesso Marchent non prendesse troppo sul serio questo suo Far West da parrocchia, con fintissimi ma coloratissimi indiani e riferimenti storici allegramente deformati. La mano del regista si intravede in qualche efficace scena di battaglia, tutte messe in scena con un budget che sembra di tutto rispetto, ma resta di gran lunga l'unico titolo trascurabile dei suoi otto western.

Si ritagliano quasi un film tutto loro i personaggi di Wild Bill Hicock (caratterizzato visivamente come un normalissimo cowboy, senza neanche i celebri baffi) e la Calamity Jane della solita Gloria Milland. Nonostante vengano presentati come due macchiette alcolizzate, sono gli unici due personaggi del film dotati di umanità. Nel descrivere la storia della coppia Marchent ritrova un po' della sua tipica malinconia. Meritavano di essere i protagonisti, molto di più di uno dei Buffalo Bill più monodimensionali e antipatici mai visti.

Continua...

venerdì 18 maggio 2012

i film 28 - Dead Man



1995 DEAD MAN
di Jim Jarmusch con Johnny Depp, Lance Henriksen, Gary Farmer, Mili Avital, Crispin Glover, Michael Wincott, Eugene Byrd, John Hurt, Robert Mitchum, Gabriel Byrne, Alfred Molina, Iggy Pop, Billy Bob Thornton

Allucinato capolavoro visionario di Jarmush. Un'opera sgangherata e unica come un po' tutto il cinema del regista, autore in passato a volte anche un po' lezioso, ma sempre interessante e che con questo film e i successivi (Ghost Dog, Broken Flowers, The Limits of Control) si è affermato come uno dei grandi solitari del cinema recente.
Il lungo viaggio verso la morte di William Blake, timido contabile di Cleveland, che si può anche leggere metaforicamente come quello di un intero genere, il western, che completamente spogliato dall’aurea mitica della sua variante classica e di quella nostalgica di quella crepuscolare, rimane solo come desolato scenario su cui si muovono come ombre delle trasognate figure ormai in bilico sull’oltretomba.


Il west più sordido e devastato mai visto sullo schermo, con una città mineraria sovrastata da una enorme fabbrica e il cui commercio più fiorente sembra essere quello di bare e una frontiera popolata da cacciatori di opossum gay, cacciatori di taglie cannibali e indiani filosofi ultimi depositari delle reliquie di una trascendente spiritualità. L’andamento è lento, ipnotico e prosegue più per suggestioni e allegorie che seguendo un vero flusso narrativo, in un alternarsi di sequenze di grande forza, improvvisa violenza, commovente bellezza, lacerante poesia, evidenziate da uno spoglio bianco e nero di abbacinante splendore e dal lancinante commento musicale di Neil Young (tre note in croce per tutto il film, molte parti rumoristiche, ma in molte scene l'unione tra immagini e musica è semplicemente devastante - due anni dopo Jarmush ringrazierà Young girando su di lui uno splendido documentario on the road: Years Of The Horse).


Un Cuore di tenebra nel West, ma senza neanche un colonnello Kurtz da assassinare nel finale, solo un lungo viaggio verso il nulla. Ma anche uno dei rari western degli ultimi trent'anni non ripiegati sul passato glorioso e ingombrante del genere, che ha saputo utilizzarlo per creare sequenze memorabili e originali: il prologo in treno dai tempi dilatati, i titoli di testa con la chitarra di Neil Young che "manda in pezzi" il titolo scritto con le ossa, la camminata di Johnny Depp nelle strade di Machine stracolme di simboli di morte, la fuga tra i fiori di carta bianchi nel fango, la visione di Nessuno con il Peyote, Iggy Pop vestito da donna che vaneggia su "Riccioli d'oro" e filistei, l'assassinio degli sceriffi gemelli Lee e Marvin ("Sei tu William Blake?" "Sono io... conosci le mie poesie?" BANG), la cavalcata tra le sequoie, il ritrovamento del cucciolo di cerbiatto morto, la sparatoria al trading post, il viaggio sul fiume, l'infinita camminata finale al rallentatore nel villaggio dei Klamaths, l'ultimo viaggio verso il mare aperto.


Johnny Depp è perfetto con il suo faccino da bravo ragazzo nel far risaltare lo spaesamento del protagonista di fronte alla nuova dimensione che gli si apre davanti. Gary Farmer è l’indiano Nessuno, “Colui che parla ad alta voce senza dire niente” e che come un novello Caronte traghetta il protagonista fino al termine della vita. Il suo tormentone "stupid white man!" in America è diventato proverbiale, tanto da essere parafrasato da Micheal Moore per un suo libro. Lance Henriksen interpreta la più delirante e grottesca figura di bounty killer mai apparsa in un western. Ma ci sono anche Iggy Pop vestito da donna, il bounty killer chiaccherone di Michael Wincott, Billy Bob Thornton irriconoscibile sotto il barbone di un cacciatore di opossum, Mili Avital come la più tenera prostituta mai vista, John Hurt, Gabriel Byrne e, soprattutto, il grande Robert Mitchum alla sua ultima apparizione, sogghignante, col sigaro in bocca, doppietta in mano e che parla solo al suo orso impagliato.


Tommaso Sega e Mauro Mihich

mercoledì 16 maggio 2012

i film 27 - Silent Tongue


1992 SILENT TONGUE
di Sam Shepard con Richard Harris, Sheila Tousey, Alan Bates, River Phoenix, Dermot Mulroney, Velada McCree

Bellissimo e affascinante western dalle atmosfere arcane e sospese, purtroppo mai arrivato in Italia e poco visto anche in America. Seconda ed oggi ultima regia del grande Sam Shepard, che girò il film nel 1992, probabilmente a ridosso del coevo e affine (almeno come ambientazione) Cuore di tuono, ma scarsamente distribuito solo due anni dopo. Per anni se ne è parlato quasi esclusivamente in relazione alla morte di River Phoenix, essendo l'ultimo film interpretato dall'attore morto nel 1993 ad essere stato distribuito.

Impazzito per la morte della moglie indiana un giovane ne veglia morbosamente il cadavere. Per strapparlo all'albero su cui giace il corpo, il padre rapisce la sorella della morta, sperando che la ragazza riesca a farlo ragionare. Sulle loro tracce si mettono il premuroso fratellastro bianco della ragazza e il padre, laido capocomico di un Medicine Show, che aveva violentato la madre delle due sorelle, una donna sacra (la Silent Tongue del titolo). A complicare le cose ci sono le inquietantissime apparizioni del fantasma della defunta.


Non è certo un film d'azione, non ci sono sparatorie o scazzottate, ma è un film attraversato da una bella tensione e da un grande senso di inquietudine. Sam Shepard scrive e dirige un film crudo e poetico, dai ritmi dilatati, ma dallo stile asciutto. C'è un grande senso del folclore dell'epoca, con una splendida e sentita ricostruzione dei Medicine Show ambulanti, popolati da freak, comici scalcinati e immancabili nani.
Un'opera profondamente malinconica, narrativamente divagante e dai ritmi meditativi, che si muove sul difficile confine tra poetico e poetizzante, ad esempio dispiegando a livello visivo rischiose immagini di meravigliosi crepuscoli e di paesaggi mozzafiato, ma che non diventa mai un esercizio di stile fine a se stesso o di bella e vuota calligrafia. Shepard non perde mai di vista i suoi personaggi e riesce a raccontare una fiaba crudele, dove anche i momenti più esplicitamente metaforici conservano un sapore acre e concreto. Se Bergman avesse mai girato un western probabilmente sarebbe venuto fuori qualcosa di molto simile. D'altra parte il maestro svedese è esplicitamente citato nel bel finale (lo stesso de "Il settimo sigillo") e anche le scene di vita del Medicine Show ricordano molto i suoi film.


Riuscitissima anche la mescolanza tra western e inquietanti squarci fantastici, con il personaggio dello spettro femminile probabilmente influenzato dalla tradizione cinematografia giapponese. Nonostante il film sia un chiaro atto d'amore verso la cultura dei nativi americani, non si scade mai nella facile idealizzazione dello spiritualismo e spiritismo indiani. Il tema centrale è piuttosto l'ossessione per il possesso dei bianchi, esemplificata dall'orrido e dickensiano personaggio del capocomico interpretato da Alan Bates (la cui cattiveria fin troppo sottolineata è forse l'unico grosso limite del film) e anche dall'attaccamento morboso del ragazzo alla moglie defunta, che in fondo altro non è che una continuazione del fatto che la donna le era stata comprata come un oggetto dal padre. 

Shepard tira fuori la sua esperienza teatrale e fa un gran lavoro anche con gli attori. Del resto il cast è semplicemente straordinario, con al centro un grandissimo Richard Harris, che in quello stesso periodo bissava  nel genere con Gli spietati di Eastwood. L'unico un po' monocorde è proprio il povero Phoenix, che però qui ha il non trascurabile merito, almeno agli occhi dei cultori del western, di ricordare il Jeffrey Hunter di "Sentieri Selvaggi". 

giovedì 10 maggio 2012

news - Orvieto Western Festival

1° ORVIETO WESTERN FESTIVAL


Un Festival dedicato al cinema western in Italia è cosa più unica che rara. Se poi oltre al cinema, celebrato tramite proiezioni, tavole rotonde e incontri con attori, sceneggiatori e registi, si unisce anche il fumetto western, altro “pallino” di noi di Se Sei Vivo Spara, allora l’appuntamento diventa semplicemente imperdibile, e sul presente blog non potevamo non farne menzione.

Da domani fino a domenica a Orvieto (TR) a fianco di protagonisti del western italiano del calibro di Gianni Garko, Fabio Testi, Sergio Donati, Giancarlo Santi, Remo Capitani e molti altri sfileranno affermati autori di fumetti come Paolo Eleuteri Serpieri, Raul e Gianluca Cestaro, Mauro Laurenti e Moreno Burattini...




Il programma di Orvieto:

1 giorno, venerdì 11 maggio
(I protagonisti del cinema di Sergio Leone)
9:00 Film animato “West&Soda” VERSIONE RESTAURATA CON CONTENUTI SPECIALI Bruno Bozzetto (sala 400) 10:30 Incontro con lo sceneggiatore Sergio Donati con gli alunni del Liceo Artistico di Orvieto (sala dei 400) 11:15/12:30 visita alla mostra di Paolo Eleuteri Serpieri in anteprima esclusiva 13:00 Pausa 14:00 Apertura stand mostra mercato fumetto, vinile e gadget (sala Expo) 14:00 Docufilm “Claudio Mancini Story” regia Luigi Pastore ANTEPRIMA ITALIANA (sala dei 400) con la presenza di Claudio Mancini e Luigi Pastore 15:00 Rassegna Cinema Italiano indipendente (sala dei 400) con la presenza dei registi Cortometraggio “Abbiamo ancora tempo” regia Stefano Salvatori Cortometraggio “Tramonto” regia di Roberto Urbani Teaser “Undead man” regia Daniele Statella Lungometraggio “Inferno bianco” regia Stefano Jacurti 17:00 Tavolata d’autore con Sergio Donati, Nino Baragli, Claudio Mancini, Giancarlo Santi (sala 400) a seguire consegna awards 18:00 Docufilm “I sogni nel mirino” regia Luca Morsella (sala 400) con la presenza del regista 19:00 Incontri d’autore: Incontro con Sergio Donati (storico sceneggiatore dei film di Sergio Leone) e presentazione del suo libro “C’era una volta il West (ma c’ero anch’io)” (sala dei 400) 21:00 video messaggio del maestro Ennio Morricone in omaggio al Festival a seguire incontro con Giancarlo Santi storico collaboratore di Sergio Leone e proiezione de “Il grande duello” regia Giancarlo Santi (sala dei 400) 00:00 Film “Ombre rosse” regia John Ford (sala dei 400)

2 giorno, sabato 12 maggio
(Spaghetti western & Comics)
10:00 Apertura stand mostra mercato fumetto, vinile e gadget (sala Expo) 11:00 Docufilm “L’America a Roma” regia Gianfranco Pannone (sala 400) con la presenza del regista 12:00 Inaugurazione Mostra “Il West di Serpieri” con Paolo Eleuteri Serpieri, sindaco di Orvieto Antonio Concina e personalità locali (Palazzo dei Sette) 12:00 Annullo Filatelico, bollo speciale di Poste Italiane (Palazzo dei Sette) 13:00 Pausa 14:00 Film “Lo chiamavano Trinità” regia Enzo Barboni (E.B. Clucher) (sala dei 400) con la presenza di Sandra Zingarelli 16:00 Docufilm “Trinità… e fu tempo di fagioli e west” regia Alberto Donati (sala dei 400) 17:00 Incontri d’autore – Il West di Trinità - Incontro con Franco Micalizzi (sala dei 400) 18:00 Video messaggio del maestro Ennio Morricone al Festival e a seguire vetrina sonora con Graziano Romani e performance estemporanea di Mauro Laurenti (Zagor) ed i fratelli Gianluca e Raul Cestaro (Tex) (sala dei 400) 19:00 Tavolata d’autore con Gianni Garko, Franco Micalizzi, Nori e Carlo Corbucci, Gianfranco Pannone, Sandra Zingarelli e Remo Capitani (sala 400) a seguire consegna awards 21:00 Film “Una nuvola di polvere… un grido di morte… arriva Santana” regia Giuliano Carnimeo (sala 400) con la presenza di Gianni Garko 23:00 Film “Django” regia Sergio Corbucci (sala 400)

3 giorno, domenica 13 maggio
(Gli eroi del West)
10:00 Apertura stand mostra mercato fumetto, vinile e gadget (sala Expo) 10:00 Film “Jess il bandito” regia Henry King (sala dei 400) 11:00 Presentazione fumetto “John Doe Western” con Lorenzo Bartoli (sala etrusca) 12:00 Dibattito sul Fumetto Western “Duri a morire? Che futuro per gli eroi di carta?” con Paolo Eleuteri Serpieri, Mauro Laurenti, fratelli Raul e Gianluca Cestaro, Lorenzo Bartoli – coordina Moreno Burattini (sala dei 400) 13:00 Pausa 14:00 Presentazione dei nuovi libri in uscita sul Far West e, a seguire, proiezione in anteprima teaser “Day of the Gun” regia Wayne Shipley (sala dei 400) 15:00 Proiezione DOC “Sweetgrass” regia Lucien Castaing -Taylor ANTEPRIMA ITALIANA (sala dei 400) 17:00 Incontri d’autore: Incontro con Gianni John Garko e Fabio Testi coordina Marco Giusti VIDEOMESSAGGIO IN ESCLUSIVA di TOMAS MILIAN (sala dei 400) a seguire consegna award 18:00 “I Quattro dell’apocalisse” regia Lucio Fulci 21:00 Concerto Graziano Romani 22:00 Film “Il cavallo d’acciaio” regia John Ford

sito internet: www.westernfestival.it

mercoledì 9 maggio 2012

i registi 12 - Clint Eastwood

CLINT EASTWOOD
L’eroe dei due mondi



"Tu sei William Munny del Missouri. Hai ucciso donne e bambini."
"Si. Ho ucciso donne e bambini. Ho ucciso qualunque cosa potesse camminare o strisciare. E ora sono qui per uccidere te..."
Gli spietati

Vincitore di due premi Oscar come miglior regista, Clint Eastwood viene attualmente considerato, con ragione, uno dei più grandi autori del cinema mondiale e universalmente indicato come l’ultimo erede del cinema classico americano, ma il percorso per arrivare a questa agnizione è stato ripido ed avventuroso, oltre che legato a filo doppio con il western.
Attore di secondo piano in una delle numerose serie televisive western statunitensi dell’inizio degli anni sessanta, Rawhide, fu scelto da uno sconosciuto regista italiano, Sergio Leone, per il ruolo da protagonista di un film western "di recupero" da girare in poche settimane in Spagna, Il magnifico straniero, che nelle intenzione di autori e produttori non doveva oltrepassare i confini del suolo italico (ragione per cui nessuno pensò di pagare ad Akira Kurosawa i diritti di sfruttamento del copione de La sfida del samurai, a cui il film si rifaceva).
L’inatteso successo italiano e poi mondiale di quel film, ribattezzato prima dell’uscita Per un pugno di dollari, e dei due successivi capitoli di quella che venne poi chiamata "trilogia del dollaro" aprì allo sconosciuto Eastwood le porte della popolarità e tornato in America egli seppe scegliere con molta attenzione i ruoli da interpretare e gestire con oculatezza la nuova dimensione da star, tanto da riuscire nel giro di pochi anni a fondare una propria piccola casa di produzione, la Malpaso, con la quale produrre, e successivamente anche dirigere, i suoi film come attore.

L’accettazione critica di Eastwood è stata altrettanto lunga e complicata. Snobbato, se non proprio irriso e disprezzato, dalla stampa e dalla critica per tutti gli anni settanta e ottanta, per l’immagine da macho e la filosofia anarcoide di personaggi come il celebre ispettore Callaghan, e nonostante intimistici ritratti di perdenti votati alla sconfitta e all’autodistruzione come Honkytonk Man e Bird, il regista ha dovuto attendere un altro film western per essere sdoganato e riconosciuto finalmente come Autore. Gli spietati ha costituito di fatto per Eastwood l’inizio della seconda parte della sua carriera cinematografica, quasi una negazione dell’epigrafe di Francis Scott Fitzgerald messa in apertura a Bird, secondo cui "non esistono secondi atti nella vita degli americani".

1973 LO STRANIERO SENZA NOME (High Plains Drifter) di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Verna Bloom, Marianna Hill, Mitchell Ryan, Jack Ging, Geoffrey Lewis


High Plains Drifter è il più allegorico e bizzarro dei western di Eastwood, oltre che il più intimamente legato alle atmosfere e ai dettami di Sergio Leone e della scuola dei western italiani.
Il personaggio archetipico dello "straniero senza nome" viene qui trasceso e stilizzato fino alle estreme conseguenze, tanto da suggerire l’ipotesi che lo spietato vendicatore protagonista della pellicola non sia altro che il fantasma dello sceriffo ucciso anni prima tornato dal passato per compiere la sua spietata vendetta. Una risoluzione niente affatto ortodossa, se si pensa che il doppiaggio italiano modificò arbitrariamente il finale del film, per proporre la più canonica spiegazione che il protagonista fosse in realtà il fratello dell’ucciso.
Alla sua seconda prova registica Eastwood dimostra di possedere uno stile già sicuro e personale, permettendosi scelte stilistiche originali e notevoli aperture visionarie, come il paese colorato interamente di rosso e rinominato "Hell", che donano alla pellicola un’atmosfera oscura e surreale.
Con il suo cinismo e nichilismo il film è a suo modo anche eretico se non oltraggioso verso le convezioni del genere, e può essere interpretato come una versione rovesciata di Mezzogiorno di fuoco, con lo sceriffo che lascia ammazzare gli inermi cittadini anziché salvarli, tanto che John Wayne, fino ad allora ammiratore e incoraggiatore di Eastwood, scrisse al regista una lettera di disapprovazione, accusandolo di tradire lo spirito e gli ideali dei pionieri americani. In tempi di critica ideologica la libertà espressiva che già dimostrava Eastwood era probabilmente ancora intollerabile.

1976 IL TEXANO DAGLI OCCHI DI GHIACCIO (The Outlaw Josey Wales) di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Sondra Locke, Chief Dan George, Bill McKinney, John Vernon, Paula Trueman, Geraldine Keams, Royal Dano


The Outlaw Josey Wales è il più epico, lirico ed ironico dei western di Eastwood e nonostante sia anche tra i più complessi e stratificati, oltre che indubbiamente tra quelli più convincenti e riusciti, inizialmente non doveva esserne lui l’autore.
Il film fu iniziato da Philip Kaufman, notato da Eastwood nel crepuscolare La banda di Jesse James, autore anche della sceneggiatura, che venne licenziato dopo due settimane di riprese per inconciliabili divergenze artistiche e sostituito in prima persona dall’attore (cosa che ebbe degli strascichi e costrinse il sindacato dei registi a emanare una norma secondo cui non fosse più possibile che un regista venisse allontanato e rimpiazzato da un interprete dello stesso film: qualche anno più tardi in una situazione del tutto analoga, per il film Corda tesa, Eastwood dovette infatti lasciare la paternità della pellicola al regista inizialmente designato, Richard Tuggle).
Con questa pellicola Eastwood prende le distanze dai precetti leoniani de Lo straniero senza nome (tanto che il titolo originale riporta programmaticamente nome e cognome del protagonista) fino a giungere, pur attraverso un percorso del tutto anticlassico e antiromantico, nei territori dei western di John Ford e Anthony Mann.
Più fedele all’etica, alla tradizione e al formalismo del genere il film si distingue tra gli altri western di Eastwood anche per essere storicamente ben documentato, per la durata inconsueta di 135 minuti e per la grande varietà di personaggi e ambientazioni.
Il protagonista non è più un uomo senza nome, ma un inquieto antieroe ferito nell’anima e pieno d’odio che intraprende un lungo percorso di ricerca interiore e di redenzione che lo porterà infine a rinnegare il suo individualismo, e pur essendo la sua una parabola molto violenta si chiude con un messaggio pacifista di riconciliazione e tolleranza, che non sarebbe dispiaciuto al John Ford di Sentieri selvaggi.

1985 IL CAVALIERE PALLIDO (Pale Rider) di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Chis Penn, Michael Moriarty, Carrie Snodgress, Richard Dysart, Sydney Penny, Richard Kiel, Charles Hallahan


Remake non dichiarato de Il cavaliere della valle solitaria, Pale rider è anche la scommessa vinta da Eastwood di riuscire a girare un western adulto e di successo nel decennio più oscuro per il genere, dove gli unici tentativi in tal senso erano rivisitazioni puerili come Silverado o prodotti giovanilistici e superficiali come Young Guns.
E’ anche l’attualizzazione in chiave ecologista del film di George Stevens, con una chiara critica alla disumanizzazione della società organizzata e industriale, simboleggiata dagli idranti dei cercatori d’oro di stampo capitalistico che sfruttano e devastano le montagne mentre le piccole comunità di minatori, microcosmi sempre osservati con benevolenza dall’autore, sono destinate a soccombere all’avanzata del "progresso".
Il film è anche un’ulteriore evoluzione del personaggio dello straniero senza nome, che da fantasma vendicatore assume una dimensione ancora più astratta e metafisica, apparendo ora quasi come l’incarnazione di Dio in persona.
"Il quarto cavaliere aveva nome Morte e l'Inferno lo seguiva" è l’esergo biblico che apre il film, che calato in una livida luce invernale e denso di simbologie religiose propone l’attore nelle vesti di vero e proprio cavaliere dell’apocalisse.
A questa atmosfera fantastica Eastwood contrappone il solito stile spoglio e realistico, pienamente calato nella grande tradizione del genere ma sempre personale e riconoscibile, con accenti se possibile ancora più cupi e autunnali, come nella magistrale sequenza d’apertura, tra le più belle dirette da Eastwood nella sua carriera.

1992 GLI SPIETATI (Unforgiven) di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Gene Hackman, Morgan Freeman, Richard Harris, Jaimz Woolvett, Frances Fisher, Anna Thomson, Saul Rubinek


Ad inizio degli anni novanta la carriera di Eastwood aveva imboccato una parabola discendente. I suoi tentativi autoriali, Bird e Cacciatore bianco, cuore nero, erano stati ignorati, se non scherniti, dalla solita critica cieca e prevenuta mentre i suoi film "di cassetta", il ritorno dell’ispettore Callaghan Scommessa con la morte e La recluta, si erano rivelati dei clamorosi tonfi al botteghino. Per l’attore-regista si stava quindi prospettando la stessa discesa nell’anonimato che aveva colpito altre icone maschili della Hollywood degli anni settanta come Burt Reynolds e Charles Bronson, sostituite nelle preferenze del pubblico da eroi gonfiati con gli steroidi e grondanti retorica reaganiana come Sylvester Stallone o Arnold Schwarzenegger. A salvare e rilanciare la carriera di Eastwood fu, ancora una volta, il western.
Il regista decise che i tempi fossero ormai maturi per tirare fuori dal cassetto una vecchia sceneggiatura di David Webb Peoples (Blade Runner) da lui opzionata ancora nei primi anni ottanta, The William Munny Killings.
Con il titolo modificato in Unforgiven questa si trasformò in uno dei film di maggior successo di Eastwood (più di cento milioni di dollari di incasso nei soli Stati Uniti), quello che mandò in estasi la critica che reiterò all’infinito nei suoi confronti il termine "capolavoro" e sembrò improvvisamente accorgersi del regista, tanto da portare in poco tempo a un clamoroso ribaltamento d’opinione nei suoi confronti, e quello che gli fece ottenere quattro premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e il miglior regista.
Gli spietati era nelle intenzioni di Eastwood il suo ultimo western, e in effetti è difficile pensare a qualcosa di più definitivo e radicale, non solo nell’ottica della filmografia del regista, ma riguardo all’intero genere. Eastwood con questo film non solo prende diametralmente le distanze dal western classico, mostrando quanto il vero volto del Mito sia miserabile e disperato, ma rifiuta anche le istanze dei western revisionisti diretti da Leone, Peckinpah e da lui stesso, in cui l’esasperazione della violenza e l’aumento esponenziale del numero dei morti ammazzati erano state sanguinose costanti. L’uccisione di altri essere umani in Gli spietati diventa atto un grave ed enorme, pregno di significati e conseguenze, tanto che il film si prefigura come una potente riflessione sulla violenza, avvolta da un pessimismo di fondo in cui si smarriscono completamente i concetti di innocenza e redenzione, e anche il classico e coreografico riscatto finale del protagonista nella notte da tregenda stavolta ha i toni dell’apocalisse. "Non merito di morire in questo modo" piagnucola Gene Hackman steso sul pavimento del saloon, "In questa storia i meriti non c’entrano" sibila Clint, prima di scaricargli il canne mozze dritto in faccia.
Mauro Mihich

giovedì 3 maggio 2012

il film 26 - La lunga notte di Tombstone



1967 LA LUNGA NOTTE DI TOMBSTONE (Crónica de un atraco)
di Jaime Jesús Balcázar con Tomas Milian, Claudio Camaso, Fernando Sancho, Anita Ekberg, Hugo Blanco

Il western di ambientazione moderna è una variante del genere abbastanza prolifica nel cinema americano, con all'attivo parecchi titoli memorabili. Invece nell'ambito dei western spaghetti l'idea di un film ambientato ai giorni nostri non è stata praticamente mai sfruttata. Facile capirne il motivo: per un film di ambientazione moderna tanto valeva ambientare i film direttamente in Italia o Spagna e risparmiarsi la fatica di scenografie finto americane. Probabile unica eccezione che conferma la regola questo film di Balcázar, "spaghetti" moderno con per altro tre attori simbolo del genere. Due di loro, Sancho e Camaso, in quello stesso anno si erano già visti insieme in due memorabili titoli come Per 100.000 dollari ti ammazzo e 10.000 dollari per un massacro. Vista anche qualche similitudine nel disegno dei personaggi, si può azzardare che questo film di Balcázar fosse un ulteriore capitolo di un unico pacchetto produttivo di film. Beninteso che questo è al massimo un gradevole film di serie B, nulla a che vedere con quei gioielli. 

La trama segue uno dei canovacci classici del cinema gangster, con una banda di rapinatori che per una notte sequestra un'intera comunità; quella di un minuscuolo paesino senza nome, la Tombstone del titolo è il solito vaneggiamento dei distributori italiani. Però più che ai classici del cinema criminale, gli autori si rifanno piuttosto ai film con capelloni teppisti che all'epoca furoreggiavano nel cinema americano di serie C e Z. Infatti i criminali sembrano usciti da "Gioventù bruciata" e nella messa in scena si abbonda in tutto ciò che allora faceva "giovane e trasgressivo". Quindi giù di colori pop, atmosfere lounge e musica beat. Vien così a mancare un elemento sempre presente nei western moderni americani: l'atmosfera crepuscolare. Insomma, niente tristi cowboy sul viale del tramonto e nostalgie per uno stile di vita che si stava spegnendo, ma ruspanti giovinastri con pettinature alla Mick Jagger e molta curiosità per uno stile di vita che stava esplodendo. 

Il film è più spagnolo che italiano, quindi senza quella marcia in più del nostro cinema d'allora (sigh!). La confezione è infatti solida, ma tira un'aria un po' anonima da telefilm americano, solo con un bel po' di violenza in più (anche se comunque ben al di sotto degli standard "spaghetti"). D'altra parte le ambizioni sono un po' da film psicologico, con un tormentato rapporto tra padre e figlio (Sancho e Milian) dai prevedibili esiti tragici. 


Quel che illumina davvero il film e lo rende diverso dai modelli americani a cui si ispira è l'affascinate e magnetico trio di attori protagonisti. Un ombroso Tomas Milian è Chino, indolente e taciturno mariachi un po' hippie, tutto vestito di jeans, sigaretta sempre in bocca e bottiglia di tequila al fianco. Suo padre è un Fernando Sancho insolitamente contenuto (relativamente ai suoi soliti modi), anche perché per una volta non fa il cattivo, ma il criminale di mezza tacca che vorrebbe andare in pensione. Cattivissimo, pur con qualche sfumatura, invece il personaggio interpretato dal povero e sfortunato Claudio Camaso/Volonté, chissà cosa avrebbe potuto fare non fosse stato schiacciato dall'inevitabile confronto con il fratello, continuamente rammentato dalla somiglianza fisica e nelle espressioni. C'è anche Anita Ekberg, che fa la bella statua decorativa.

Più dalle parti de "Il selvaggio" con Marlon Brando che di un vero e proprio western e nulla a che vedere con il futuro poliziottesco italiano.