lunedì 11 giugno 2012

i registi 15 - Antonio Margheriti 1

ANTONIO MARGHERITI
Ombre sulla Frontiera





PARTE I


Antonio Margheriti (1930-2002) è stato uno dei piú eclettici e preparati registi del nostro cinema di genere. Dotato di un invidiabile bagaglio tecnico e di incrollabile inventiva, è stato assieme a Bava il maggior esponente della fantascienza e dell'horror nostrani, oltre che uno stimato soggettista, sceneggiatore e addetto agli effetti speciali - notoria la sua collaborazione con Sergio Leone per la sequenza della collisione dei treni in Giú la testa (1970). Al maestro sanremese lo accomunavano dal punto di vista registico l'eleganza plastica della messinscena, la capacità artigianale di sopperire alla povertà delle produzioni con ingegnose soluzioni di fortuna e, soprattutto, l'amore per le atmosfere umbratili e cimiteriali che troveranno sfogo nel filone del "gotico" italiano degli anni '60. Un amore, questo, che nel caso di Margheriti si riverbera potentemente anche sulla produzione western, in particolare nei suoi due migliori contributi al genere, il notevole Joko, invoca Dio... e muori! (1968) e il fondamentale E Dio disse a Caino... (1969), uno dei capolavori riconosciuti del filone. Due classiche storie di vendetta che nelle mani del nostro assumono i contorni di esperienze in bilico fra reale e fantastico, tanto concretamente violente - il bodycount negli spaghetti di Margheriti è sempre elevato - quanto stranamente ambigue. Meno personale e piuttosto altalenante è invece la sua filmografia western "minore": l'esordio, Joe l'implacabile (1967), è un godibile piccolo film, stralunato ed esplosivo;  Là dove non batte il sole (1974) è un tremendo mash-up coi film di arti marziali dello Studio Shaw, sulla scia del piú riuscito Il mio nome è Shanghai Joe (1972) di Mario Caiano; La parola di un fuorilegge... è legge! (1975) è un altrettanto maldestro tentativo di contaminazione con la dilagante blaxploitation; Whisky e fantasmi (1976) è infine un assai modesto fagioli-western in cui la componente sovrannaturale viene utilizzata in chiave volgarmente ridanciana. 



***


1967 ...JOE L'IMPLACABILE (DINAMITE JOE) di Antonio Margheriti. Con Clyde Rogers, Halina Zalewska, Mercedes Castro, Renato Baldini, Santiago Rivero.



«La parola "dinamite" nel titolo e nel nome del protagonista ispirava evidentemente questi filmetti coloratissimi e un po' stupidotti, come si nota confrontandolo con il molto simile Dinamite Jim (1966) dei fratelli Balcàzar. Fa parte di quel filone degli spaghetti quasi interamente basato sulla stranezza "pop" del protagonista, in questo caso un imperturbabile dandy che risolve tutto con esplosivi di ogni sorta, disintegrando letteralmente i nemici, tanto che ogni volta che fa fuori qualcuno i cadaveri svaniscono e resta solo un buco per terra. Da particolari come questo o da trovate assurde come una diligenza interamente fatta d'oro è facile intuire che si tratta di un film molto ironico, "fumettoso" e improbabile, rivolto forse ai ragazzi. Questo non toglie che ci siano comunque diversi tocchi politicamente scorretti. Il protagonista con i suoi trucchi esplosivi in fondo evita sempre lo scontro diretto, seduce e strapazza le femmine stile James Bond e in una sequenza, per uscire da una miniera in cui è stato sepolto vivo, fa saltare in aria mezza montagna, provocando un'inondazione che spazza via la residenza del cattivo, ma dove muoiono anche delle donne.
Il film è girato benissimo, con grandi sequenze d'azione, una splendida fotografia, effetti speciali poveri e grezzi, ma assolutamente efficaci. Cast con facce di terza scelta, ma nei ruoli giusti. Peccato che il tutto sia messo al servizio di una sceneggiatura sabotata da un'ironia controproducente e alla buona, oltre a scontare una certa mancanza di ritmo. Nonostante la quantità di botti ed esplosioni, o forse proprio a causa di un eccesso di questi, passata la prima ora è difficile trattenere qualche sonoro sbadiglio.
La mano di Margheriti si vede in un certo tono stralunato - Dinamite Joe si presenta ad una riunione di senatori facendo esplodere una parete - e in alcune ambientazioni incongrue per un western - il ballo a casa del senatore. Stranianti anche le belle musiche di Carlo Savina, a tratti quasi felliniane.» (Tommaso Sega)


1968 JOKO, INVOCA DIO... E MUORI! di Antonio Margheriti. Con Richard Harrison, Claudio Camaso, Sheyla Rosin, Werner Pochat, Paolo Gozlino.



Uno spaghetti-western a prima vista assolutamente tradizionale, ma girato benissimo e con uno spiazzante finale da horror che costringe lo spettatore a riconsiderare l'intera pellicola da un'altra angolazione.
La trama è convenzionale, semplice e prevedibile ma Margheriti, con il fondamentale contributo dell'ottimo Riccardo Pallottini alla fotografia, è scatenato: il film è colmo di grandi movimenti di macchina, splendidi primi piani, soggettive folli - ce n'è persino una degli stivali di Joko mentre rifila un calcione -, in una sovrabbondanza visiva che riesce a rendere godibile un copione che in mani altrui sarebbe risultato quantomeno soporifero. Richard Harrison non cambia espressione una sola volta, ma Camaso è memorabile nei panni di un cimiteriale dandy - con tanto di cilindro e bastone - che pare uscito dai piú malfamati sobborghi della Londra del XIX secolo.
Come detto, il finale è la cosa migliore del film: ambientato per intero nei meandri di una solfatara, illuminata da luci e colori di baviana memoria, getta un'ombra ambigua e inquietante - l'inquadratura conclusiva - sull'intera vicenda, che assume i caratteri di una leggenda a sfondo soprannaturale.
Questa idea margheritiana di spaghetti-western gotico troverà, comunque, una piú compiuta espressione due anni dopo con lo splendido E Dio disse a Caino....
Buon commento musicale di Carlo Savina.


1969 E DIO DISSE A CAINO... di Antonio Margheriti. Con Klaus Kinski, Peter Carsten, Marcella Michelangeli, Guido Lollobrigida, Antonio Cantafora.



«Antonio Margheriti riesce là dove Mario Bava aveva fallito, realizzando un indimenticabile western gotico, oltre che un’opera unica all’interno del genere, dotata di una compattezza e di una presa visiva che dopo quarant’anni non hanno ancora perso un grammo della loro modernità. Anche perché il regista romano riesce sia a usare perfettamente gli stilemi del genere horror dal quale proveniva e nel quale si era rivelato maestro, con film come Danza Macabra e La vergine di Norimberga, che a rispettare allo stesso tempo le regole, i tempi e l’estetica del western leoniano.
A elementi tipici dell’horror gotico - le atmosfere notturne, le catacombe, la chiesa, la villa dal dècor gotico, il protagonista dipinto quasi come un fantasma soprannaturale - si accompagnano, infatti, i temi tradizionali dello spaghetti western - la vendetta, la figura-archetipo del cavaliere solitario, il terribile segreto nascosto nel passato dell’eroe, le sparatorie coreografiche, la quantità abnorme di morti ammazzati.
Il plot è assolutamente minimale (tra l’altro si trattava della stessa identica sceneggiatura di un altro western, riciclata per l’occasione): Klaus Kinski dopo dieci anni di lavori forzati ritorna nel suo vecchio villaggio per vendicarsi dei compagni che lo avevano tradito e in un’unica notte di tempesta li fa fuori tutti. La differenza la fa tutta la regia di Margheriti: virtuosistica, ipnotica e piena di trovate visive - i primi piani, gli zoom da film horror, la fotografia di Pallottini a tinte rosse come la camicia del protagonista - e sonore - il rumore della goccia d’acqua che cade e che permette a Kinski di individuare il killer, i rintocchi della campana, lo sferzare del vento - e che dona all’opera un climax claustrofobico, che in un crescendo parossistico e in un’atmosfera da tregenda farà toccare al bodycount livelli assolutamente ragguardevoli.
In maniera piuttosto unica per uno spaghetti western il film vanta le stessa unità di tempo - il tutto si svolge nel corso di un’unica notte - e di spazio - il desolato paese battuto dal vento. Niente flashback, e anche il terribile segreto di Kinski viene narrato per interposta persona. Assolutamente notevole anche il finale da tragedia greca nella sala degli specchi, forse ispirato a quello de La signora di Shanghai di Orson Welles.
Klaus Kinski, nell’unico ruolo da “buono” della sua carriera western, è semplicemente straordinario nel trasmettere l’implacabilità, l’ira repressa e la sofferenza interiore del suo personaggio di angelo vendicatore e, per una volta, è anche eccezionalmente misurato e contenuto. Grande anche il tedesco Peter Carsten, nella parte del patriarca dalle mani lorde di sangue.
Bellissimo l’incipit che si apre su un campo di lavori forzati con il sottofondo di una ballata gospel, che mi ha ricordato l’inizio di Fratello, dove sei? dei Coen. Un inizio assolato a cui fa poi da contraltare un proseguio interamente notturno e una musica molto piú cupa, con il sole che lascia posto alle tenebre fino al sorgere dell’alba nel finale, altrettanto indimenticabile e nichilistico, con il protagonista che si incammina a cavallo verso l’orizzonte e con una scritta in sovrimpressione che spiega il titolo del film: “Col tuo omicidio hai creato il male ed il sangue versato ricadrà su di te e sulla tua stirpe che andrà fuggiasca sulla terra vagando”.
Uno delle opere fondamentali del genere.» (Mauro Mihich)


continua...

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