giovedì 28 febbraio 2013

prossimamente - Gold



Che un film western venga presentato in concorso al Festival del Cinema di Berlino costituisce già di per sé un avvenimento del tutto straordinario. Se poi il film batte bandiera tedesca la cosa diventa addirittura più unica che rara.
Il western tedesco, come sa chi segue questo blog, è un genere con una lunga tradizione - legata soprattutto ai romanzi del ciclo di Winnetou scritti da Carl May -, nonostante sia poco o nulla conosciuto al di fuori della Germania e dei paesi dell’Est Europa, e noi di Se Sei Vivo Spara gli abbiamo dedicato alcuni corposi approfondimenti.
Il film in questione, Gold, di Thomas Arslan, che è in uscita proprio in questi giorni sugli schermi tedeschi, sembrerebbe però il primo esperimento “autoriale” in tal senso.


La trama della pellicola, che ricorda in maniera sospetta il Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt con Michelle Williams, un western indipendente americano praticamente senza parole che è quasi un capolavoro, vede come protagonista un gruppo di sette immigrati tedeschi che nel 1898, in piena corsa all’oro, si inoltrano nel Klondike lungo una pista che nessuno ha mai esplorato in una ricerca dell’Eldorado che presto si trasformerà in un cammino di morte e disperazione.

Interpretato come protagonista dalla pluripremiata attrice tedesca Nina Hoss e girato in esterni nella Columbia Britannica in Canada, il film di Arslan purtroppo non è stato accolto molto favorevolmente alla Berlinale, dove è stato generalmente bocciato come noioso e illustrativo, e in effetti dalle poche immagini e video che si trovano in rete sembra promettere molti bei paesaggi e poche sparatorie. Abbiamo il forte sospetto, insomma, che nonostante le alte ambizioni possa risultare meno interessante di qualunque indianerfilm di Gojko Mitic!



mercoledì 27 febbraio 2013

i film - Oggi a me... domani a te



1968 OGGI A ME... DOMANI A TE! 
di Tonino Cervi, con Brett Halsey, Bud Spencer, William Berger, Wayde Preston, Tatsuya Nakadai

Nonostante sia in genere conosciuto soprattutto per essere stato uno dei primissimi film interpretati da Bud Spencer, per l’occasione con una barba visibilmente posticcia (se l’era tagliata sul set di Al di là della legge, girato immediatamente prima) e doppiato per l’unica volta nella sua carriera da Ferruccio Amendola – tanto che dopo il successo dei Trinità venne rieditato con nuove locandine che mostravano lui come il protagonista principale e il film come una commedia, e anche nelle edizioni per l’home video è sempre Bud a campeggiare in primo piano –, l’unico western di Tonino Cervi è stato rivalutato come merita solo in anni più recenti, e viene attualmente indicato, da Quentin Tarantino in primis, che lo iscrive tra i suoi preferiti, come uno dei migliori revenge western italiani.



La riuscita del film, nonostante il budget poverissimo, deriva da una combinazione probabilmente nemmeno pienamente voluta di diversi fattori, che donano all’opera un’atmosfera stilizzata e rarefatta, assolutamente originale: la sceneggiatura di Dario Argento, che si muove per archetipi e innesta in un canovaccio tipicamente western (dal vendicatore nerovestito alla Django al reclutamento in stile I magnifici sette) twist e situazioni inusuali per il genere – a partire dalla fascinazione per le armi da taglio, che ritornerà in tutti i suoi thriller –, la fotografia di Sergio D’Offizi, già operatore di Ognuno per sé, che riesce a trasfigurare un bosco appena fuori Roma in luogo surreale e fantasmatico, e soprattutto la presenza dell’attore giapponese Tatsuya Nakadai, interprete di tanti film di Akira Kurosawa, che è il vero perno attorno a cui ruota il film, protagonista di una performance nevrotica e isterica di notevole spessore.



La storia è semplicissima e tutta a base di luoghi comuni, il che per un western non è mai un gran problema. Il tono scarno è talmente efficace che si perdona volentieri qualche ingenuità. Quasi metà film è occupato dal reclutamento della banda dei giustizieri, è la parte migliore, laconica e molto divertente. Più prevedibile la seconda parte tutta ammazzamenti, ma ci sono comunque ottime idee e sequenze di gran fascino anche in questa.

Il cast è una gioia per gli occhi, almeno per gli appassionati del genere. Bud Spencer ha degli ottimi momenti, come la sua entrata in scena o il duello con Nakadai. La sequenza in cui rompe il bicchiere in mano ad un tizio è probabilmente la più violenta della sua carriera, ma c’è anche una sua scazzottata quasi stile Trinità con un oste interpretato da Remo Capitani. L'infiorettato e sempre affascinante William Berger è il solito spasso nella parte del pistolero dandy e ha una sua bella presenza anche l'americano Wayde Preston nei panni di un pistolero dall'aria più classicamente hollywoodiana. Brett Halsey aveva il fisico per fare il beccamorto alla Django, ma è un bene che tutto sommato lui e il suo personaggio non siano il fulcro del film. L'unico personaggio un po' sfocato e in secondo piano è il quinto del gruppo di giustizieri, il più giovane.
Ma come già scritto il piatto forte del film è la presenza magnetica e straniante di Tatsuya Nakadai, che porta negli spaghetti la tipica recitazione giapponese, fisica e spiritata. La sua morte è un gran momento di cinema.

Splendida, come detto, la fotografia, con paesaggi invernali e boschi spogli (il film è stato girato in pieno gennaio e si vede) che danno al film un'aria spettrale, da racconto gotico. Molto riuscite anche le scenografie, di Carlo Gerasi, in ricercato stile vittoriano e i costumi, molto particolari.
Non sempre a registro invece la musica di Angelo Lavagnino, a tratti troppo allegra.



Tonino Cervi, figlio del grande attore Gino e già famoso come produttore (tra gli altri di Deserto rosso di Antonioni, un clamoroso fiasco che lo costrinse a buttarsi nel cinema commerciale), al suo esordio dietro la macchina da presa dimostra una sicurezza e un mestiere da consumato professionista, e lasciando in secondo piano dialoghi e disegno psicologico dei personaggi cura la pellicola sotto l’aspetto figurativo, donandole un climax fantastico e bizzarro, che la rende quasi un’opera cerniera tra gli spaghetti western e i chambara giapponesi.



Il duello finale, assolutamente atipico per il genere, vede Halsey e Nakadai fronteggiarsi immobili in silenzio uno di fronte all’altro per un tempo lunghissimo – quasi mezzo minuto – proprio come i due samurai nel finale del Sanjuro di Kurosawa; e dato che Nakadai era protagonista anche di quel duello ci è difficile pensare che la cosa possa essere casuale.


Infine, non vorremmo passare per quegli appassionati di un genere che vedono riferimenti e citazioni anche dove non ci sono, ma il flashback girato in bianco e nero in cui si vede l'uccisione della moglie del protagonista, sia nel tono che nella strana luminosità, ricorda davvero moltissimo le sequenze nella chiesa di Kill Bill, dell'onnipresente Tarantino.

  
M.Mihich & T.Sega

martedì 26 febbraio 2013

prossimamente - Gallowwakers



E’ stato rilasciato il primo trailer di Gallowwakers, il weird western interpretato da Wesley Snipes tenuto bloccato addirittura dal 2006 per le note vicende giudiziarie dell’attore, attualmente ancora detenuto in carcere per evasione fiscale. Non è escluso che la decisione di tirare fuori la pellicola dal cassetto sia dovuta, almeno in parte, al clamoroso successo internazionale di Django Unchained e al ritorno di popolarità di cui sta godendo il genere western, specie quello “contaminato” e “pulp”.

La regia e la sceneggiatura sono di Andrew Goth, regista inglese già autore del thriller Everybody Loves Sunshine (1999) e dell'horror Cold and Dark (2005). Nel cast, oltre a Snipes, ci sono Tanit Phoenix, Riley Smith, Kevin Howarth e Patrick Bergin. Il film è stato girato nel deserto della Namibia.


Nonostante la sinossi sembri alquanto trash – Snipes è un misterioso pistolero di nome Aman, figlio di una suora che ha rinnegato Dio rifiutandosi di abortire, e quindi vittima di una maledizione che lo vede condannato a veder tornare in vita chiunque uccida; dopo aver sterminato una banda di fuorilegge, colpevoli di aver ucciso la sua donna, dovrà vedersela con i resuscitati che cercano vendetta – il trailer, ad alto tasso di emoglobina e con vaghe reminescenze da El Topo di Alejandro Jodorowsky, sembra promettere se non altro abbondanti dosi di piombo e sangue…

lunedì 25 febbraio 2013

western brutti - Ramon il messicano


1966 RAMON IL MESSICANO
di Maurizio Pradeaux con Robert Hundar, Wilma Lindamar, Jean Louis, José Torres, Luciano Rossi, Thomas Clay

Dove si narra della faida tra la famiglia del cattivissimo Ramon e la famiglia Baxter.
Che ovviamente non sono quel Ramon e non sono quei Baxter. Ancor più ovviamente l'esordiente e micidiale Pradeaux non è Leone e l'inguardabile caratterista Jean Louis come protagonista non ha il carisma dell'ombra del sigaro di Clint Eastwood. L'unico che reggerebbe il confronto con il modello evocato è il grande Claudio Undari/Robert Hundar, che in quanto a presenza scenica aveva poco da invidiare persino a Volonté. Ma a conti fatti anche il suo Ramon è solo un gran carognone, del tutto privo del fascino luciferino del suo celebre omonimo di "Per un pugno di dollari". (Hundar interpreterà un vero cattivo alla Volonté nel ben più interessante "Un buco in fronte" di Giuseppe Vari.)

Che comunque Hundar e il suo personaggio fossero l'unica cosa che funzionava nel film dovevano averlo capito anche i produttori, che infatti dedicarono il titolo al cattivo, mettendo il nome di Hundar per primo nei titoli di testa e concedendo al villain molto più tempo di quello solitamente riservato a personaggi di questo tipo. Peccato che il tutto si risolva in una sfilza di luoghi comuni da lasciare basiti. Ovvero ci viene mostrato tutto quello che ci si aspetta faccia un bandolero messicano nel suo tempo libero, quindi ampio spazio a banchetti da crapuloni, gozzoviglie, mezze orge, ballerine con le nacchere.
Per tutto il film il nostro Ramon è addirittura più svelto del buono. Almeno finché questi non fa un corso accelerato di estrazione della pistola con un'accetta: o diventa più veloce o l’accetta gli taglia la mano. Il che in effetti è un buon incentivo per imparare la lezione fin dal primo tentativo.

Il film è tanto brutto quanto curioso, perché sembra mettere in scena una faida tra mafiosi siciliani o briganti sardi, con quindi tutto quel bel sottofondo di "valori" che si può immaginare. A cominciare da un distorto senso dell’onore e una totale fiducia nella legge del taglione che accomuna tutti personaggi. In fin dei conti l'unica cosa che ci segnala che i Baxter sono i buoni è il fatto che hanno una serva nera stile Mami di "Via col vento".
Ad accentuare l'atmosfera da strapaese italiano contribuiscono una colonna sonora vagamente operistica e scene madri da sceneggiata napoletana. Quindi ci si può deliziare con scene come quella della bella che fa un fioretto alla Madonna promettendo che sposerà l’uomo che l’ha violentata (sempre Ramon ovviamente, che però da vero macho latino POI gli fa la serenata sotto la finestra) o come quella del buono che pianta i suoi uomini per andare a giurare sul letto di morte della sua amata mamma che non toccherà più la pistola. Poi però gli avversari gli trucidano pure la mamma e lui ci ripensa. Puro melodramma anche il duello finale, con il protagonista che si presenta al duello risolutore travestito da prete.

Il tipico film più divertente da raccontare che da vedere, perché in realtà la noia regna sovrana. Il budget inesistente soffoca i rari spunti di buona volontà della regia, gli italianissimi faccioni di gran parte del cast sono un disastro totale e il ridicolo involontario aleggia su tutte le scene che non vedono in campo Hundar. Solo per trashofili convinti.

venerdì 22 febbraio 2013

i registi 19 - José Antonio de la Loma

Due piccoli western senza eroi

Prolifico sceneggiatore, direttore di produzione e regista José Antonio de la Loma ha attraversato quasi cinquant'anni di cinema spagnolo senza lasciare grandi tracce dietro di sé, almeno da noi in Italia. Nel western come sceneggiatore firmò tredici pellicole, soprattutto come assiduo collaboratore dei tre fratelli Balcázar, produttori e registi che furono delle autentiche colonne del versante più spagnolo degli "spaghetti". Tredici film di solida serie B che probabilmente vedono come titolo più interessante quello di "Professionisti per un massacro" di Nando Cicero. Come regista nel genere ha invece diretto solo due misconosciuti, ma interessanti filmetti, che curiosamente si collocano agli estremi della parabola commerciale degli spaghetti western, agli albori del genere subito dopo "Per un pugno di dollari" e al suo crepuscolo quando ormai il filone era degenerato nel comicarolo.



1965 Perché uccidi ancora?
di José Antonio de la Loma [e Edoardo Mulargia] con Anthony Steffen, Evelyn Stewart, Aldo Berti, Gemma Cuervo, José Calvo, Hugo Blanco, José Torres, Ignazio Spalla

Come a volte capitava all'epoca il film ha una doppia attribuzione per la regia. Nelle copie spagnole è firmato da de la Loma, in quelle italiane da Edoardo Mulargia. Per spirito campanilista in Italia il film passa in genere come l'esordio nel genere del regista italiano, ma si fatica ad attribuire a Mulargia (regista sgangherato come pochi, pur non privo di sporadiche alzate d'ingegno) la compostezza classica e quasi americana del film. Inoltre sembrano molto spagnoli anche il tono melodrammatico di molte sequenze e il sottofondo vagamente morale della vicenda. Ipotizziamo che a Mulargia possano essere attribuite forse le numerose sequenze di sparatorie a cavallo, che in effetti sembrano girate da una mano diversa rispetto al resto del film, con l'uso frequente della cinepresa a mano, caratterizzate da un montaggio più frenetico e inquadrature più moderne.

Realizzato sulla scia di "Per un pugno di dollari", Perché uccidi ancora? è uno dei primi titoli del filone interamente basati sul poi iper-sfruttato canovaccio del protagonista che deve massacrare in serie un certo numero di personaggi per vendicare un delitto visto all'inizio del film. Anthony Steffen, al suo secondo "spaghetti" da protagonista dopo "Una bara per lo sceriffo", funziona particolarmente bene. Parla poco e la sua nota inespressività ben si adatta al carattere di un personaggio con una sola idea fissa in testa.



La trama è per molti versi una variante di quella del primo western di Leone, con la novità che il protagonista non è il terzo incomodo tra due famiglie nemiche, ma l'unico rappresentante combattente di una delle due parti in causa. Nel prologo suo padre viene legato ad un albero e poi massacrato da ben ventisette pistoleri che gli sparano un colpo a turno - non abbiamo tenuto il conto se poi il protagonista nel corso del film ne ucciderà esattamente ventisette, ma occhio e croce dovremmo esserci. In pratica è la storia di una faida tra due famiglie e la cosa interessante è che i torti non stanno solo da una parte. Accecato dalla sua ossessione per la vendetta il protagonista non ascolta ragioni e non è meno crudele dei suoi avversari. In una scena accoppa il figlio del cattivo e gli scarica il cadavere davanti a casa. Le sole dotate di buon senso in un universo maschile votato al massacro reciproco sono le due uniche donne del film, che cercano melodrammaticamente di far desistere i loro uomini dai loro propositi di vendetta. Una, innamorata del protagonista nonostante sia la figlia del boss del clan avversario, viene ammazzata a sangue freddo, l'altra (la sempre bellissima Evelyn Stewart / Ida Galli), che è la sorella del protagonista, subirà curiosamente al posto del fratello il rituale pestaggio nel prefinale dei western all'italiana. Il sacrificio delle donne umanizzerà il fin lì scostante protagonista, tanto che per ammazzare l'ultimo dei cattivi e salvarsi deve farsi aiutare dalla sorella e da un sicario pentito.

Gli autori non avevano ancora assimilato le novità stilistiche del cinema di Leone e quindi il film ha ancora un'aria molto naif, ma alcune idee avevano già attecchito: l'esasperazione della violenza, una crudeltà diffusa, le sparatorie fulminee, la visione di un west polveroso e desolato, un protagonista glaciale e implacabile.
I limiti evidenti della pellicola sono una dignitosa, ma plateale, povertà di mezzi e una storia quasi inesistente. Praticamente tutto il film non è altro che una serie di duelli, agguati e inseguimenti, con i personaggi che sembrano entrare in scena un po' per caso e poi morire quando capita. Il tutto è girato però abbastanza decorosamente da essere divertente.



1972 Nevada (El más fabuloso golpe del Far-West)
di José Antonio de la Loma con Mark Edwards, Fernando Sancho, Carmen Sevilla, Charly Bravo, Piero Lulli, Frank Braña, Yvan Verella, Barbara Carrol, Fernando Bilbao

Se il film precedente gode di un minimo di notorietà presso i cultori del genere, almeno per via della presenza di Steffen, il secondo western di de la Loma da regista è stato ignorato all'epoca e poi è caduto nel dimenticatoio. La cosa non stupisce più di tanto, dato che il film uscì in piena mania di "fagioli western", con i sempre più rari western seri relegati alle produzioni di serie Z. Non solo Nevada non era un western comico, ma era un raro esempio di western europeo influenzato dal filone crepuscolare e revisionista del cinema americano dell'epoca. A cominciare da una livida e affascinante ambientazione invernale, tra boschi coperti di neve e una cittadina dalle strade infangate.

La storia è quella di una rapina in banca. Non proprio "il più favoloso colpo del Far West" come prometteva il roboante titolo spagnolo, ma un buon colpo. Per metterlo in atto i banditi devono scavare un tunnel sotto la città, mescolandosi nel frattempo alla vita dei paesani. Quindi c'è tutta una prima parte corale e di attesa, priva di un protagonista centrale e d'azione, con il tentativo particolare, per un western europeo, di ricostruire sullo schermo con una certa credibilità la vita quotidiana di un paese del vecchio west (limiti di budget permettendo). Nessun attore di spicco, ma ci sono molti noti faccioni da caratteristi nel cast, il che accentua ulteriormente l'aria crepuscolare del film. I più conosciuti sono quelli di Fernando Sancho (che nonostante il consueto sombrero interpreta per una volta un personaggio diverso dai suoi soliti), Piero Lulli e Frank Braña. L'australiano Mark Edwars, il capo dandy della banda, era invece un novizio degli spaghetti western.



Nonostante il buon cast, i personaggi e i dialoghi non sono però molto interessanti e alcuni particolari sopra le righe durante la rapina stridono con il tentato realismo della messa in scena. Quel che funziona di più è la parte ironica con Fernando Sancho che prende sotto la sua protezione una bella e prosperosa ragazzina, ma è combattuto tra il portarsela a letto o il fargli da figura paterna. Quel che funziona meno è tutta una manfrina sulla rivalità tra due sorelle, una puttana e l'altra maestrina, entrambe amanti dello stesso bandito, una linea narrativa che poi si rivelerà di scarso peso nella trama. Probabilmente era giusto la scusa per qualche vaghissimo ammiccamento erotico.

Dopo la rapina a metà film i banditi fuggono dal paese e si danno appuntamento al loro rifugio in montagna. Qui inizia la parte più interessante del film, che si trasforma in una variante western di "Dieci piccoli indiani", dato che il bottino sparisce e qualcuno di loro inizia a far fuori gli altri per non spartire. Non avendo potuto identificare un protagonista lo spettatore non può prevedere chi muore o fare particolari ipotesi sull'identità dell'assassino, quindi il film riesce a piazzare lì un bel paio di colpi di scena, fino ad arrivare ad un finale particolarmente beffardo che si ricollega alla prima parte. A impreziosire il tutto c'è la magnifica ambientazione innevata, con diverse sequenze girate sotto autentiche e fitte nevicate, con gli attori che arrancano realmente in  un metro e mezzo di neve.

mercoledì 20 febbraio 2013

i film - La rossa ombra di Riata


1973 LA ROSSA OMBRA DI RIATA (The Deadly Trackers)
di Barry Shear, con Richard Harris, Rod Taylor, Al Lettieri, Neville Brand, William Smith, Isela Vega, Pedro Armendáriz Jr.

Tra i numerosi dirty western degli anni settanta, fieramente osteggiati dalla critica alla loro uscita per l’eccessivo tasso di violenza e non ancora riscoperti neppure in questi tempi di “rivalutazione selvaggia”, ma che a noi di Se sei vivo spara piacciono tanto, questo ha alle spalle una storia produttiva particolarmente travagliata, e un risultato finale probabilmente non all’altezza delle aspettative di partenza.
Le riprese furono iniziate nel 1972 in Almeria dal grande Samuel Fuller, autore anche del racconto (“Riata”) da cui la pellicola è tratta, ma insanabili divergenze artistiche con la star del film Richard Harris portarono al suo licenziamento da parte della produzione e alla sospensione del film, che fu ricominciato da capo in Messico nel 1973, con una nuova troupe, una nuova sceneggiatura e la regia affidata alle più accomodanti mani del meno conosciuto Barry Shear (del girato di Fuller pare sopravvivano solo i fermo immagine che accompagnano i titoli di testa).



La mano poco esperta del regista si vede facilmente nel modo totalmente libero con cui Harris, truccato come William Berger in un film di Sabata, costruisce il suo ruolo di sceriffo-vendicatore, sfoderando smorfie, ghigni, espressioni tormentate e furibondi scoppi d’ira, finendo per assomigliare a un Klaus Kinski in una delle sue performances più esagitate.
Nonostante vada spesso in “overacting” l’attore irlandese rimane un magnifico interprete western (nello stesso periodo era sugli schermi anche con Un uomo chiamato cavallo e Uomo bianco, và col tuo Dio!) e con la sua furente interpretazione e la sua maschera tragica risulta comunque assai efficace in un film così sopra le righe, anche grazie al supporto di un ottimo cast, che vede Al Lettieri in una delle sue rare parti da “buono” (è un poliziotto messicano, protagonista di un finale sorprendente), che lo conferma uno dei caratteristi più validi degli anni settanta, Rod Taylor efficacissimo invece nel suo primo ruolo da “cattivo” e la star messicana Isela Vega che interpreta con la consueta bravura una prostituta maltrattata un po’ da tutti.



Se il soggetto di partenza di Fuller è oltremodo duro, cupo e nichilista la sceneggiatura di Lukas Heller in molti passaggi appare invece piuttosto semplicistica e stereotipata, accontentandosi di mettere in scena un facile meccanismo chiastico di causa ed effetto, mentre la regia troppo televisiva di Shear (che dopo questa pellicola tornerà a dirigere telefilm) pare concentrata unicamente sull’accumulo di immagini sanguinose e scene violente in un facile sensazionalismo da film d’exploitation, certamente rozzo ma a suo modo anche efficace.
Il regista non lesina allo spettatore uccisioni di donne, vecchi e bambini, pallottole in fronte in primo piano, sgozzamenti e massacri variamente assortiti attingendo a piene mani alle esagerazioni del western italiano (i cattivi lombrosiani e dediti a perversioni varie, tra cui un personaggio con un pezzo di rotaia al posto della mano amputata, non sfigurerebbero in pellicole borderline come Il mio nome è Shanghai Joe).



Tra le righe il film nutre anche delle ambizioni di critica sociale e mette in contrapposizione la vendetta del libero cittadino e il lassismo della legge, ponendosi senza molta fantasia sulla scia di altri film di successo dell’epoca che trattavano di giustizia privata e libero arbitrio, come Cane di paglia e Ispettore Callaghan: il caso Skorpio è tuo.

Dove la pellicola risulta sicuramente degna di nota è nella sua parte messicana (il film è stato girato in coproduzione tra USA e Messico): sia le location (Cocoyoc e Cuernavaca nello stato di Morelos, a sud di Città del Messico) che il comparto tecnico, soprattutto la fotografia satura e nera di Gabriel Torres e le scenografie di Ernesto Carrasco, sono assolutamente notevoli.



Malgrado le vicissitudini produttive e la banalizzazione dell'assunto di partenza La rossa ombra di Riata rimane un solido revenge-western di serie B, ma certo non si può non pensare con rimpianto a quello che sarebbe stato nelle mani di Fuller.

lunedì 18 febbraio 2013

nuovi western - Django Unchained



Proviamo a far ripartire il blog, da mesi in coma profondo.
E non potevamo non farlo che con un articolo sull'attesissimo Django Unchained di Tarantino. Che sarebbe stato l'evento western dell'anno era facile prevederlo, che sarebbe stato - stando stretti - l'evento western dell'ultimo ventennio era invece più difficile immaginarlo. Pare infatti ormai che quest'ultima opera dell'autore di Pulp Fiction sia uno dei massimi incassi del western americano, secondo solo (per ora) a Balla coi lupi di Kevin Costner. Ma al di là dell'arida contabilità dei botteghini, il vero miracolo a cui ha fatto assistere Django Unchained è l'essere riuscito ad affollare le sale cinematografiche di spettatori di tutte le età che si sono divertiti, esaltati, emozionati di fronte ad un film western. Per registrare un tale entusiasmo di massa attorno ad un film genuinamente western (quindi il kolossal avventuroso ed ecologico di Costner non fa molto testo) bisogna probabilmente tornare indietro di quarant'anni, in Italia almeno ai film di Trinità, per altro puntualmente citati da Tarantino. Negli Stati Uniti l'icona del Django di Jamie Foxx, con i suoi anacronistici occhiali da sole e il vestito di Little Joe di Bonanza, si è già ritagliata il suo posto nell'immaginario collettivo, venendo citata negli spot pubblicitari, nelle vignette satiriche sui giornali e negli annunci amatoriali dei concerti. Un successo che almeno per un po' ha strappato il genere al culto amorevole, ma vagamente necrofilo, degli appassionati di cinema western (e qualcuno infatti non l'ha presa bene), restituendolo alla sua vera vocazione, quella del grande cinema popolare.

Un successo che è anche l'ennesima conferma di Quentin Tarantino come regista centrale nel cinema moderno. Autore e personaggio troppo ingombrante e particolare per non avere larghe schiere di nemici e detrattori, ma piaccia o meno non si può negare il fatto evidente che è uno degli ultimi giganti rimasti nel cinema. Uno degli ultimi che, kubrickianamente, gira film solo quando li può girare esattamente come vuole girarli, senza mai scendere a compromessi (se non a livello distributivo: la divisione in capitoli sia di Kill Bill che di Grindhouse - il che comunque conferma l'intoccabilità del suo girato), e che ogni volta che affronta un genere costringe chi viene dopo a confrontarsi con la sua visione. 



2012 DJANGO UNCHAINED
di Quentin Tarantino, con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Kerry Washington, Samuel L. Jackson, Walton Goggins, Dennis Christopher, James Remar, David Steen, Dana Michelle Gourrier, Nichole Galicia, Laura Cayouette, Ato Essandoh, Sammi Rotibi, Clay Donahue Fontenot, Don Johnson, Franco Nero, James Russo, Don Stroud, Russ Tamblyn, Bruce Dern, Jonah Hill, Tom Savini, Quentin Tarantino, Robert Carradine

Quello tra Quentin Tarantino e il Western era probabilmente un incontro inevitabile.
Il più importante tra i nuovi registi americani ha infatti sempre professato pubblicamente tanto la sua conoscenza enciclopedica che la sua ammirazione per il genere, soprattutto nella sua declinazione italiana, tanto da fare da padrino alla retrospettiva dedicata agli spaghetti-western alla Mostra del Cinema di Venezia del 2007 e disseminare con il suo inconfondibile stile pop e citazionistico i suoi film di battute, musiche e omaggi al genere.
Va da sé, quindi, che quando ad inizio del 2011 si è sparsa la voce che l’autore era al lavoro su un western propriamente detto l’attesa degli appassionati è salita rapidamente alle stelle.
Dopo la visione del film possiamo dire che tale attesa non è andata delusa e se era facile attendersi che l’approccio tarantiniano al genere non fosse meno che personale, più difficile era aspettarsi che il prodotto finale fosse un film addirittura geniale.


Il risultato è un film divertentissimo e fulminante, non perfetto (qualche strana caduta di tono in qualche flashback e nelle scene oniriche), ma con tocchi di genio assoluto.

Chi l'avrebbe mai detto che Tarantino sarebbe diventato uno dei registi più esplicitamente politici e virulenti del cinema americano (per quanto a ben vedere tra le righe lo è sempre stato fin dai tempi de Le iene)? Perché, alla faccia delle note polemiche di Spike Lee (il quale avrebbe solo da imparare da Tarantino su come gestire il talento personale, invece di continuare ad alternare almeno due film mediocri per ogni pellicola degna di nota), se qualcuno ha mai visto un film più velenosamente satirico e meno riappacificato di questo sullo schiavismo americano ci faccia un fischio, perché noi non l'abbiamo visto o non lo ricordiamo.
State certi che nessun fanatico neonazista con il fucile sotto il letto terrà mai questo film nella sua videoteca personale... dove magari si rischia di trovare Pulp fiction o Kill Bill.

Anche se il vero bersaglio degli umori caustici del regista è il romanticismo sudista più che l'epica western, i puristi del genere hanno avuto comunque di che indignarsi, soprattutto per certe scelte musicali. Dimenticando magari che quasi 50 anni fa le chitarre elettriche, i ritmi jazzati, gli assoli beat, le vocalità operistiche che Morricone inseriva nelle sue colonne sonore western erano trovate forse più "scandalose" che inserire oggi una canzone hip hop durante una sparatoria.


Esattamente come nella sua precedente pellicola, Bastardi senza gloria, che prendeva solo il titolo e poco altro da uno sconosciuto film di guerra italiano di Enzo G. Castellari (Quel maledetto treno blindato), Tarantino parte sì da Django, ma del personaggio di Sergio Corbucci rimangono solamente il nome e qualche altro omaggio sparso (tra gli altri il bellissimo inizio con i titoli di testa in rosso e il divertito cameo di Franco Nero) e il suo lunghissimo western (ben 165 minuti) devia ben presto verso la blaxploitation western degli anni settanta e pellicole come Libero di crepare e Mandingo (tanto che lo stesso regista più che western definisce il suo film «southern»), fino a pervenire addirittura nei territori di film classici americani come Nascita di una nazione e Via col vento. Nonostante la mole di rimandi ad altre pellicole che i fan, dimostrando di guardare forse più il dito che la luna, si stanno affannando a cercare, Django Unchained rimane però un’opera squisitamente personale e non collocabile in nessun sottofilone, classificandosi come assolutamente unica all’interno del genere.

Se è giusto quindi dire che il film di Tarantino non è uno spaghetti western (anche perché - monsieur de La Palisse ci consenta di farlo notare - non è un film italiano e non è stato girato in Europa), lasciateci però aggiungere che ci sono cadute le braccia leggendo in Italia cento volte in cento recensioni l'estremizzazione opposta, cioè che Django Unchained non avrebbe addirittura nulla a che vedere con il western all'italiana, con tanto di compatimento dei poveri ingenui che si sarebbero fatti distrarre dal solito specchietto per le allodole tarantiniano.

Le braccia cadono perché perché se è vero che Django Unchained non è un vero western spaghetti, allo stesso modo come Kill Bill non era ovviamente un vero wuxia o chambara, resta comunque un film intriso fino al midollo di umori e atmosfere "spaghetti". Non fosse altro Tarantino per il suo film ha ripreso pari - pari la struttura base di uno dei filoni più originali, interessanti e purtroppo dimenticati del western nostrano, cioè quello cosiddetto gotico. Film che univano all'estetica western trovate da tragedia greca e atmosfere da racconto alla Poe (o di horror alla Corman se vogliamo) e che vedevano - esattamente come in Django Unchained - quasi sempre una prima parte in cui veniva descritto il viaggio picaresco dei protagonisti e una seconda parte claustrofobica ambientata in ville, manieri, ranch spettrali dove esplodeva la tragedia e la follia. Uno schema che in diversi varianti è presente in pellicole come E Dio disse a Caino, Requiescant, Texas addio, Il pistolero dell'ave Maria, Ciakmull l'uomo della vendetta e soprattutto Le Colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro di Fulci, da cui Tarantino riprende qualcosa di più che qualche isolata citazione.

E allora? Allora si scopre che in Italia per la maggior parte delle persone e (quel che è peggio) dei critici quei titoli non esistono o è come se non esistessero. Perché nell'immaginario comune gli spaghetti western sono al massimo i film di Leone, i due o tre film più noti di Corbucci, i due Trinità e ad un'altra decina di titoli ad essere ottimisti. Mentre il resto del filone, cioè qualcosa come 600 e passa titoli, resta materia per relativamente pochi estimatori. E se si può capire la difficoltà dello spettatore comune di scremare i titoli degni dall'immane mole di spazzatura prodotta ai tempi (ma grazie a tanti siti, forum e - perché no? - blog come questo la cernita non è più tanto complicata in realtà), difficile invece capire e giustificare la pigrizia e la cronica miopia della critica.

La figuraccia è dunque doppia. Non solo deve venire un regista americano a dimostraci quanto variegato, multiforme e complesso fosse il nostro western, ma la maggioranza della critica italiana neanche coglie la dimostrazione.


Se graficamente Django Unchained è forse il western più violento di tutti i tempi – una sua singola scena contiene probabilmente più sangue di quello usato da Peckinpah in tutta la sua carriera – è però anche il film più lineare di Tarantino e non c’è il classico spezzettamento temporale marchio di fabbrica dell’autore. Il racconto segue in ordine cronologico il viaggio di un ex-schiavo, Django (Jamie Foxx), e del cacciatore di taglie che lo ha liberato (Christoph Waltz), e il loro tentativo di liberare la moglie del primo, Broomhilda (Kerry Washington), dalle mani di Calvin Candie (Leonardo DiCaprio), un latifondista sadico che si diverte ad organizzare combattimenti all’ultimo sangue tra schiavi neri.

Ancora una volta Tarantino dona ai suoi attori dei personaggi memorabili e riesce a cavare dalle loro interpretazioni il meglio. A cominciare da Christoph Waltz, semplicemente epico nei panni di una specie di Lee Van Cleef più umano, ma altrettanto titanico, munito di una forbita e straniante parlantina (ovviamente un po' penalizzata dal doppiaggio italiano), un carretto da dentista con un folle dente gigante sul tetto e protagonista di un'indimenticabile uscita di scena.
Ci voleva Tarantino perché un personaggio interpretato da Di Caprio bucasse finalmente e definitivamente lo schermo, nei panni del più tipico dei sadici tarantiniani, tanto più inquietanti quanto più fondamentalmente stupidi. Anche per lui un pezzo da brividi: la sfuriata razzista durante la cena.
Mostruosa e fregoliana anche la prova di Samuel L. Jackson che, in linea con l'aria shakespeariana che si respira nella lunga parte del film ambientata nella villa, interpreta un vero e proprio Iago nero. Anche per lui almeno una sequenza memorabile, quando appartandosi con il suo padrone bianco inizia a parlare come se il vero padrone fosse lui. Alla faccia di Tarantino regista privo di sfumature...
E infine Jamie Foxx, secondo molti messo in ombra dalle prove magistrali dei tre colleghi. Invece interprete di un personaggio più sfumato e sottotono degli altri (a parte le sequenze finali), la cui complessità è definita da un'infinità di piccoli dettagli che ad una prima visione quasi non si notano. Basti citare la sequenza apparentemente trascurabile in cui Waltz gli serve un bicchiere di birra e lui pare incerto sul da farsi, probabilmente perché da schiavo non l'aveva mai nemmeno assaggiata e sicuramente nessuno gliela aveva mai offerta. Comunque Foxx si aggiudica la sequenza più toccante e magistralmente "western" del film, il laconico e malinconico saluto al cadavere dell'amico buttato in un angolo.
 



La pellicola inizia con un lungo prologo “di formazione” abbastanza rispettoso delle convenzioni del genere (siamo ovviamente più dalle parti di Sergio Leone che di John Ford, autore che Tarantino ha pubblicamente affermato di odiare), dove l’anziano bounty killer insegna al giovane allievo i rudimenti del mestiere, rallenta quindi in una parte centrale molto dilatata dove il regista si può sbizzarrire nella sua specialità di dialoghista e accelera poi con un trascinante crescendo emotivo in un'epica parte finale incentrata sulla vendetta, forse la più intimamente contigua ai western italiani di Corbucci, per chiudersi infine con l’esplosione della fortezza bianca di Candyland e la strage di tutti i suoi occupanti, che è anche uno dei più scoperti atti politici del cinema americano degli ultimi anni.
Mentre si può infatti discutere circa l’attendibilità storica di molti particolari del film, nel suo nucleo centrale riguardante lo schiavismo la pellicola è probabilmente più vera di quanto in molti vorrebbero ammettere e Tarantino, in un film soprattutto d’intrattenimento e apparentemente “leggero”, con una lucida operazione intellettuale scoperchia il lato oscuro dell’America e i vergognosi scheletri che vi sono nascosti (“Il tuo amico è rimasto impressionato e tu no” dice a un certo punto Di Caprio/Candie a Foxx/Django dopo aver fatto sbranare uno dei suoi mandingo dai cani: “Io conosco gli americani meglio di lui” è l’eloquente risposta).

Tarantino, come in tutto il suo cinema, prende un modello, lo plasma a suo piacimento e poi lo utilizza per parlare di tutt’altro, e noi non possiamo che guardare ammirati.

M. Mihich & T. Sega