martedì 30 aprile 2013

i film - Diamante Lobo / L'uomo di Santa Cruz



Ultimo capitolo della nostra rassegna dedicata ai western di produzione americana girati in Spagna. Siamo arrivati al 1973, in cui vennero messi in cantiere tre titoli. Sorvoliamo su Valdez, il mezzosangue (Chino), ultimo film del vecchio John Sturges, racconto intimista e vagamente crepuscolare tutto americano.


Patty Shepard in "Lo Chiamavano Mezzogiorno"

Abbiamo già scritto dell'intrigante Lo chiamavano Mezzogiorno (The man called Noon) di Peter Collinson. Tratto da un romanzo Louis L'Amour e afflitto dal solito demenziale titolo italiano tipico del periodo, può essere probabilmente considerato l'ultima convinta produzione di un western euro-americano, in cui ancora cercavano di convivere un certo gusto per i caratteri e l'azione della tradizione americana con certe influenze degli spaghetti western.



Charley One-Eye di Don Chaffey, inedito in Italia, è un introvabile e probabilmente parecchio interessante western picaresco, legato al versante più politico e autoriale della blaxploitation, presentato addirittura al festival del cinema di Berlino e vicino ad un certo cinema terzomondista molto in voga all'epoca. Storia molto allegorica dell'amicizia tra un disertore nero (Richard Roundtree, la star black per eccellenza del periodo dopo il successo di "Shaft"), uno strampalato meticcio e un pollo guercio. Ne riparleremo, quando si spera capiterà l'occasione di vederlo.   

* * *

Nel 1975 si ricompone l'accoppiata di El Condor formata da Jim Brown e Lee van Cleef, più altre due star della blaxploitation, nel divertente La parola di un fuorilegge è legge. Film prodotto dalla Fox, ma diretto dal nostro Antonio Margheriti, quindi considerabile come un tradizionale western all'italiana. Per altro il film non venne girato in Spagna, ma nelle Isole Canarie.

Un set ancora più inconsueto hanno gli ultimi due film presi in considerazione dalla nostra rassegna, due film "gemelli" girati nel 1976 addirittura nel deserto israeliano. Dopo che per anni le produzioni americane avevano significato budget ricchissimi o comunque molto al di sopra degli standard europei, alla fine si tornava alle pellicole di scarto girate con due soldi come nei primi anni 60. Il primo è un tardissimo "spaghetti" diretto da Gianfranco Parolini che gode della tremenda fama di essere uno dei peggiori western di tutti i tempi. Fama assurda, visto che il film è senz'altro mediocre e raffazzonato, ma anche solo ai tempi d'oro dei western all'italiana si era visto infinitamente di peggio.

1976 Diamante Lobo (God's Gun)

di Gianfranco Parolini, con Lee Van Cleef, Jack Palance, Richard Boone, Sybil Danning, Leif Garrett, Rafi Ben Ami, Heinz Bernard, Ricardo David

di Mauro Mihich
 
Primo western dei produttori israeliani Menahem Golam e Yoran Globus (si faranno un nome negli anni ottanta con la loro casa di produzione Cannon, specializzata in b-movies d’azione e guerrafondai, quelli di Chuck Norris e della serie "American Ninja" per intenderci), ultimo per il nostro Frank Kramer al secolo Gianfranco Parolini e penultimo per il grande Lee Van Cleef, che dopo il “gemello” L’uomo di Santa Cruz abbandonerà definitivamente il genere che gli aveva dato notorietà internazionale e un posto indelebile nel cuore degli appassionati.

E’ proprio lui uno dei pochi motivi per vedere un film che anche se non si merita appieno la pessima fama di cui è oggetto è stato diretto con la mano sinistra da un Parolini abbandonato insieme a tutta la sua troupe nel deserto del Negev in Israele, dove il film è stato girato in condizioni proibitive, nonostante il pessimo servizio fattogli dalla sceneggiatura, che gli ritaglia il doppio ruolo di un prete (!), che viene fatto fuori dopo neanche mezzora di film, e del fratello gemello, il protagonista del titolo, che accorre per vendicarlo e che per farlo ne indossa l’abito talare (a un certo punto, in flashback, i due sono pure in scena assieme) e si fa passare per lui, in un finale dai toni quasi horror. Il film vanterebbe anche una discreta dose di sesso e violenza, aggiornata agli anni settanta in cui è stato girato, con buchi in fronte e teste spappolate, ma purtroppo sconta troppo il ritmo piatto e televisivo, i lunghi dialoghi e le pessime comparse israeliane, che indispongono anche lo spettatore più accomodante verso il genere.



Un peccato perché, a parte l’insopportabile Leif Garrett, all’epoca famoso cantante pop adolescente, che per fortuna a metà film perde la voce, il film conterebbe anche su un buon cast, a iniziare dal sempre ottimo Jack Palance che interpreta da par suo il cattivone vestito di nero e col sorriso perennemente stampato sul viso, per proseguire con la vecchia star dei western americani Richard Boone, fino a una sfavillante Sybil Danning, attrice di un certo culto tra gli amanti della serie B.
Nonostante i tempi dei vari Sartana, Sabata e Indio Black siano ormai inesorabilmente lontani e manchi quasi del tutto delle sue celebri “parolinate”, la regia del cineasta romano dimostra comunque ancora un certo mestiere, con preziosismi come quello di racchiudere l’inizio e la fine del film dentro il riquadro di un teatrino delle marionette, oppure con il finale leoniano al cimitero indiano, coreografato molto bene. Molto bella, come sempre nei western di Parolini, la colonna sonora, opera di Sante Romitelli.

1977 L'uomo di Santa Cruz (Kid Vengeance)

di Joe Manduke con Lee Van Cleef, Jim Brown, Leif Garrett, Timothy Scott, Glynnis O’Connor,, John Marley, David Loden, Dalia Penn, Matt Clark

Pur avendo tutta l'aria di essere il gemello povero del film di Parolini, quindi girato con gli scarti di una pellicola già abbastanza misera di suo, è però decisamente più riuscito. Entrambi al loro ultimo ruolo western, Lee Van Cleef e Jim Brown tornano ancora volta insieme in un minuscolo film quasi no-budget. Praticamente tutto ambientato in un deserto, vede in scena per tutta la sua durata al massimo una trentina di attori, contando anche le comparse. A sommare tutte le scene in cui recita Brown non starà sullo schermo più di un quarto d'ora, mentre Lee Van Cleef fa il cattivo. La star che nelle probabili intenzioni dei produttori (sempre Golam e Globus) doveva attirare il pubblico è il ragazzino protagonista Leif Garrett, melensa stellina pop dell'epoca, in seguito famoso più che per altro per i suoi abusi di stupefacenti e per i soliti eccessi da ex-bambino prodigio. 



La storia è quella di un ragazzino che si vede uccidere i genitori e rapire la sorella da un branco di scatenati fuorilegge. Dopo averli inseguiti e averne uccisi un bel po' da solo e con i metodi più fantasiosi, con l'aiuto di un minatore di colore tenterà di salvare la sorella affrontando il resto della banda nel suo covo.

Il bello di tutta l'operazione è che il film era chiaramente indirizzato ai giovanissimi fans di Leif Garrett. E in quell'epoca decisamente pre-politicamente corretto c'era evidentemente chi era convinto che si potesse prendere un classico canovaccio da rape & revenge e tirarne fuori appunto un film per ragazzi. Oltre agli omicidi e le violenze di rito di un qualsiasi western per adulti, un giovane spettatore di allora che assisteva a questo film poteva dunque deliziarsi con sequenze tipo quella del protagonista che assiste allo stupro e all'uccisione di sua madre, o tutte quelle in cui si vede il piccolo eroe che uccide nelle maniere più efferate i suoi nemici: uno lo fa fuori a badilate in testa, un altro lo impicca con un lazo, un paio li uccide usando scorpioni e serpenti, un altro ancora lo lapida. E così via. In tutto questo trova per contrasto una sua paradossale funzionalità l'aria efebica e angelica di Garrett, vestito pure tutto elegantino. 

Naturalmente la contraddittorietà dell'operazione oggi gioca a favore del film, rendendolo un'operina insolita e insospettabilmente ben fatta, pur con tutti i mostruosi e visibili limiti di budget. Il protagonista sembra una versione grandguignolesca del Jim Hawkins de "L'isola del tesoro", un ragazzino precipitato in un mondo di canaglie da cui difendersi con tutti i mezzi possibili. Parallelo forse non del tutto campato in aria tenendo conto del look decisamente piratesco sfoggiato da Lee Van Cleef con vistoso orecchino e bandana. Il suo personaggio non è però un Long John Silver del West, ma una carogna depravata che non suscita alcuna simpatia, anche se poi si rivela non del tutto privo di risvolti umani, come dimostra nell'ambiguo rapporto con la sorella del protagonista. In effetti il film può contare su delle inaspettate sfumature psicologiche, almeno relativamente alla sua rozza natura di revenge movie. Soprattutto nella spiazzante parte finale, dove vediamo gli assassini che tornano al loro paesino dove ad attenderli trovano famiglie e figli. Di conseguenza quando arriva il massacro conclusivo tutto risulta molto meno catartico e molto più amaro del previsto.



Al di là dei problemi legati al povertà della produzione, il film sconta anche delle ingenuità. Il protagonista in alcuni momenti sembra quasi invisibile nel suo riuscire ad avvicinarsi e poi a sfuggire ai suoi nemici, che a loro volta sembrano a tratti un po' troppo inebetiti. Inoltre non torna molto la logica degli spostamenti nel deserto, con personaggi appiedati che raggiungono con troppa facilità gente che viaggia a cavallo.
Altro punto a favore è invece la presenza come terzi incomodi di una coppia di balordi (uno dei quali è il grande caratterista Matt Clark), tipiche figure del cinema anni 70, in costante bilico tra comicità e violenza pronta ad esplodere. A differenza che nel film gemello vengono inoltre egregiamente sfruttate le particolarità del territorio israeliano, con le strane e belle formazioni rocciose del deserto del Negev che donano alla storia un'atmosfera insolita e lunare.  

* * *

Nel 1978 l'eccentrico Amore piombo e furore (China 9, Liberty 37) di Monte Hellman segna definitivamente la fine dei tentativi di mescolare il western americano con il del resto ormai morto e sepolto western europeo, la cui influenza in quel caso si limita infatti quasi solo alla presenza di Fabio Testi come protagonista. In seguito verrà girato qualche altro western americano in Spagna, ma senza che la location abbia alcuna influenza sullo stile e l'estetica dei film.

sabato 27 aprile 2013

i film - I tre del mazzo selvaggio (Pancho Villa)



Il 1972 per il western italiano è un anno di delirio autodistruttivo, con decine di ignobili western "fagioli" che vanno a intasare le sale. Ben presto, nauseato, il grande pubblico girerà per sempre le spalle al genere. Oltreoceano per il western crepuscolare americano è invece ancora tempo di capolavori e grandi film, ma che raramente ottengono significativi riscontri commerciali. In questo scenario di decadenza imminente per tutto il genere, iniziano a venir meno l'interesse per le coproduzioni hollywoodiane in Spagna: solo due.



La prima è un gioiello di cui abbiamo già scritto: Hannie Caulder di Burt Kennedy, in Italia scelleratamente intitolato La texana e i fratelli Penitenza (giusto per dire l'aria che tirava). Partendo da uno spunto di puro sensazionalismo exploitation, è un rape & revenge incredibilmente poetico e rarefatto, unico nel suo genere, in riuscito equilibrio tra la stilizzazione "pop" dei western spaghetti e la concretezza dei western americani. Amalgama riuscito così bene solo al sottovalutato Kennedy.

1972 I tre del mazzo selvaggio (Pancho Villa)

di Gene Martìn. Con Telly Savalas, Clint Walker, Chuck Connors, Anne Francis, José María Prada

Dopo che dei trafficanti d'armi americani hanno tentato di fregarlo, Pancho Villa decide di invadere a suo modo gli Stati Uniti. Sarà "The only man to invade the U.S.A", come recitava la frase di lancio del poster americano.

Un altro triste segno della volgarità dei tempi il titolo italiano, ebete e insensato (i "tre" non sono un "mazzo" né altro, visto che Chuck Connors fa un personaggio secondario che non compare neanche mai in scena con gli altri due), per un film che chiude la stagione dei western di ambientazione rivoluzionaria girati in Spagna dagli americani, iniziata quattro anni prima sempre con un film su Villa, Viva! Viva Villa!. Attori principali, sceneggiatura originale e buona parte dei soldi sono ancora americani, ma per il resto il film è spagnolo, a cominciare dal regista Eugenio "Gene" Martìn, che si era fatto le ossa come aiuto regista proprio nelle grosse produzioni americane girate in Spagna nei primi anni 60. Martìn sei anni prima aveva diretto un bellissimo western spaghetti tradizionale come The Bounty Killer, poi nel '71 il pessimo E continuavano a fregarsi il milione di dollari, infine questo rivoluzionario picaresco. Tre film totalmente diversi, che non sembrano minimamente girati dalla stessa mano. 



Più simpatico e spigliato della versione con Brynner, è un film piacevole, ma la storia gira completamente a vuoto. Non è nulla più di un lungo aneddoto picaresco, dove non c'è alcun reale sviluppo narrativo, quasi fosse l'episodio di un telefilm di cui già si conoscono i personaggi e si sa che torneranno in un episodio successivo. Il film vive delle mattane del personaggio di Villa, interpretato da un prevedibilmente straripante Savalas, che si mangia tutto il film gigioneggiando senza freni. Dosi abbondanti di humour nero nelle scene in cui, con il suo consueto sorriso serafico, accoppa a sangue freddo qualcuno personalmente o lo fa fucilare. In una scena getta una sua amante nuda dalla finestra, in un'altra fa la sceneggiata fingendosi moribondo per scoprire dei traditori e alla fine guida personalmente un treno per andare a schiantarsi contro un altro treno. Il film tira avanti così, tra scene madri e scenette più o meno riuscite. Pur partendo da fatti reali, fortunatamente il film non ha nessuna pretesa storica, proponendosi come una allegra cialtronata dalla prima all'ultima scena.

Tutto sommato la parte più interessante del film è la prima, non non a caso la più seria, quella più puntata sulle scene d'azione (molto buone tutte le sparatorie del film, girate con uno stile particolare, brusco ed energico) e dove il vero protagonista è il braccio destro americano di Pancho Villa, uno statuario ed ancora efficace Clint Walker, che deve andare in America a recuperare le armi, ma i venditori che hanno già intascato i soldi tentano di ucciderlo. È un personaggio un po' alla Corto Maltese, un avventuriero con berretto e giubba da marinaio nel Messico rivoluzionario.



Per la prima ed ultima volta, per quanto riguarda questo filone di film, è invertito il classico rapporto tra Stati Uniti e Messico. Qui è il territorio americano il territorio ostile che deve essere invaso ed espugnato dai protagonisti, anche se il tutto è giocato sui toni della commedia e della satira. Satira che non va per il sottile, soprattutto nel descrivere l'esercito americano come una banda di perfetti idioti. Ma anche apprezzandone i toni caustici, c'è da dire che non funzionano per niente le (per fortuna) poche scene con Chuck Connors nella parte di un generale americano imbecille, visto che le gag di cui è protagonista sono ai livelli di un film con Ciccio e Ingrassia. 

giovedì 25 aprile 2013

i film - Catlow



1971 Catlow

di Sam Wanamaker con Yul Brynner, Richard Crenna, Leonard Nimoy, Daliah Lavi, Jo Ann Pflug, Jeff Corey, Michael Delano, Julián Mateos, David Ladd, Robert Logan, Víctor Israel, Tito García

Il ladro di bestiame Catlow e la sua banda sono inseguiti da uno sceriffo suo ex-compagno d'armi e da un killer professionista assoldato da un suo nemico. Tra attentati reciproci e fughe varie finiscono tutti in Messico, dove Catlow e la sua banda portano a termine un grosso colpo ai danni dell'esercito messicano, recuperando un tesoro sudista. Durante la fuga nel deserto però dovranno vedersela sia con gli apache che con dei bandoleros messicani. 

Tratto da un romanzo di Louis L'Amour, è stato un classico dei palinsesti delle reti private minori degli anni 80. È un western scanzonato, forse un po' troppo frivolo. Ci sono infatti parecchi morti e la violenza non manca, ma c'è anche una diffusa voglia di buttarla se non proprio sul ridere almeno sul sorridente. Il che è sicuramente appropriato nei momenti da commedia, ma rischia di risultare stucchevole nei momenti potenzialmente drammatici. A buon conto le scene migliori del film sono quelle serie e violente, cioè quasi tutte quelle che vedono in scena la presenza di silenziosi e letali apache e il lugubre personaggio del cacciatore di taglie interpretato da Leonard "Mr. Spock" Nimoy, parecchio efficace in una parte alla Lee Van Cleef, anche se alla fine non granché sfruttata dalla sceneggiatura. C'è di tutto e anche di troppo: rurales, bandolers, sceriffi, apache, ladri di bestiame, cacciatori di taglie. Il tutto è frullato con una certa scioltezza e verve, soprattutto grazie ad un montaggio creativo e fantasioso, che esalta le scene d'azione e ravviva qualche momento un po' scontato, tipo una rapina ad un convoglio militare che diventa una specie di balletto.



Yul Brynner con il suo Catlow gioca ad impersonare un personaggio opposto ai suoi soliti, sia a livello caratteriale che estetico. Quindi invece del solito aspetto da ombroso con i vestiti scuri, qui sfoggia un cappello da cowboy di paglia e vestiti di  jeans chiaro, ma soprattutto continua a sorridere e a fare il simpaticone. Il che fa sinceramente a pugni con il suo faccione da beccamorto e il suo ghigno storto. La parte di allegra carogna avrebbe funzionato di più con un Kirk Douglas o un Paul Newman. Molto meglio lo sceriffo dell'ottimo Richard "Colonnello Trautman" Crenna, volto ricorrente di questi tardi western euro-americani, che in quegli anni per un breve periodo fu protagonista di una mezza dozzina di film prima di tornare a fare il caratterista. Le sequenze che lo vedono protagonista in solitaria sono le migliori del film. Un po' posticcia la parentesi romantica tra il suo personaggio e un'aristocratica messicana, ruolo per cui viene sfruttata la breve notorietà che l'attrice Jo Ann Pflug godeva dopo essere stata una delle allegre infermierine di "M.A.S.H.". Più incisivo il personaggio di una bandolera interpretata da una fin troppo scatenata e pasionara Daliah Lavi.

Mistero sul perché, avendo a disposizione due bonone come la Lavi e la Pflug, gli autori non abbiano trovato niente di meglio da mostrare al pubblico che un paio di discutibili nudi maschili: uno nientemeno che di Leonard Nimoy, l'altro del grande caratterista strabico visto in decine e decine di western spaghetti Víctor Israel.



Pur girato con i soldi della Metro-Goldwyn-Mayer è una pellicola più inglese che hollywoodiana, anche perché c'è da considerare che il solido (e non molto personale) regista Wanamaker era americano, ma da anni viveva e lavorava in Inghilterra dopo essere stato in patria vittima del maccartismo. Benché pieno di caratteristi e comparse dei western spaghetti, ancora una volta i modelli italiani non sono quasi tenuti in considerazione. La formula è la solita da buddy movie avventuroso ambientato tra Stati Uniti e Messico. Ma privato dei risvolti amari di modelli di riferminto come El Verdugo e El Condor il gioco rischia di girare a vuoto. Come ad esempio nel finale, dove una bella e tesa sequenza d'assedio, con i protagonisti che sembrano non avere più scampo, si risolve con un troppo provvidenziale arrivano i Nostri. Una soluzione che lascia una sensazione di incompleto.

Pur con questi limiti resta comunque una pellicola divertente, dal ritmo svelto, ben girata e con il giusto numero di efficaci scene d'azione. Soprattutto perché poteva ancora contare sull'abituale budget americano di tutto rispetto. Ma col senno di poi si nota che, come per i western italiani era iniziata la decadenza comicarola, anche per queste operazioni anglo-americane, indecise tra ironia e violenza (si veda anche il coevo Capitan Apache, uscito negli stessi giorni), iniziava a mancare la giusta convinzione. Infatti nel giro di un paio d'anni anche la stagione delle produzioni americane girate in Almeria sarebbe repentinamente tramontata.

mercoledì 24 aprile 2013

i film - Capitan Apache




1971 Capitan Apache (The Guns of April Morning / Deathwork)

di Alexander Singer con Lee Van Cleef, Carroll Baker, Stuart Whitman, Percy Herbert, Elisa Montés, Tony Vogel, Charles Stalmaker, Charly Bravo, Faith Clift, Rupert Crabb, Chris Huerta, Ricardo Palacios

Capitan Apache è un ufficiale indiano della riserva che indaga su una catena di delitti che ruotano attorno alla misteriosa frase "mattino d'aprile". Dopo essere sfuggito a vari attentati sventerà una congiura politica ad altissimo livello.

Unico e sgangheratissimo tentativo americano (chissà quanto consapevole) di fare un western "pop" alla Sartana. Inizia in maniera piuttosto pacchiana e delirante con una canzone country cantata dallo stesso Lee Van Cleef(!) che, quasi fosse il riassunto di puntate precedenti, presenta il protagonista e spiega un po' la situazione, mentre scorrono alcune scene che poi si rivedranno nel corso del film, come spesso si usava nei prologhi dei telefilm di una volta. E in effetti più che un film sembra di vedere l'episodio pilota di un serie televisiva mai realizzata, solo con molta più violenza e parolacce di quelle consentite ai tempi sul piccolo schermo. Girato con lo stile spiccio dei polizieschi e gialli di quegli anni, con una trama intrica al limite del comprensibile, ma portata avanti con un ritmo spedito e dei dialoghi allusivi. Non migliorano la chiarezza, ma sono interessanti, alcune ellissi narrative insolite e azzardate, soprattutto per un western. Dopo un susseguirsi, degno dei più classici hard boiled, di cattivi che si fanno fuori a vicenda, delitti, attentati, il finale su un treno è da thriller e da film di spionaggio. Non mancano neanche diverse stramberie, tra cui una strega che sembra piombata lì da chissà quale altro film, una coppia di killer gay (con annesse battute diciamo non esattamente all'insegna del politicamente corretto) e una sequenza, tra il grottesco involontario e il simpaticamente goffo, in cui Lee Van Cleef si fa un trip psichedelico che sembra presa da un horror di Corman.



Probabilmente fu un film che vide un grosso coinvolgimento da parte di Lee Van Cleef . Il personaggio di Capitan Apache da l'impressione di essere un personale (e tardivo) tentativo dell'attore di crearsi un nuovo personaggio alla Sabata, spendibile però anche sul suolo americano. Da lì forse la rinuncia ai gadget alla 007 e il guardare più allo stile dei detective privati che andavano di moda all'epoca, anche per un certo tipo d'ironia disincanta e un certo tono antieroico. Alla fine di tutto, in quanto indiano, Capitan Apache resta persino fregato dai politici a cui ha appena salvato la vita. Questo crea però qualche squilibrio nella caratterizzazione del personaggio, dato che in alcune scene sembra il tipico superuomo ammazzatutti degli "spaghetti", mentre in altre sembra in balia degli eventi e le prende da tutti come un Marlowe qualsiasi.

Nonostante un parrucchino e una giacca di pelle deliranti, Lee Van Cleef come indiano sarebbe anche abbastanza attendibile e continua ad avere un grande carisma nelle sequenze serie e violente. Convince invece molto meno quando tenta un registro più leggero e ironico. Non era tanto questione di doti interpretative, che non gli mancavano, semplicemente non aveva il physique du rôle per fare lo spiritoso. Buon per lui e per gli spettatori maschi che grazie agli inserti da commedia almeno finisce a letto con una burrosa Carroll Baker. Altra notevolissima presenza femminile nel cast è Elisa Montés, nei panni di una consolabilissima e caliente vedovella.



In definitiva una pellicola non molto sensata e probabilmente trascurabile, ma in fin dei conti piuttosto divertente. Comunque molto superiore all'infima media dei western comicaroli italiani che in quel periodo andavano per la maggiore e che avrebbero ammazzato il genere nel giro di un paio d'anni. 

martedì 23 aprile 2013

prossimamente - The Lone Ranger (2013)




Due nuovi trailer (in italiano) per il Lone Ranger di Gore Verbinski con Johnny Depp, in uscita il 3 luglio.





Decisamente più accattivanti del primo.
Finalmente spunta fuori l'ironia, più che dovuta dovendo raccontare nel 2013 le avventure di un tizio con addosso una ridicola mascherina. E finalmente si capisce qualcosa della trama, che potrebbe non essere male (per quanto possa contare la trama in film del genere), con Lone Ranger e Tonto che lottano contro la costruzione di una ferrovia. Cose che invece lasciano perplesso: a parte i paesaggi, di realmente western sembra non esserci nulla e le scene d'azione sembrano il solito ipertrofico guazzabuglio di interminabili rodomontate e immancabili sequenze al rallentatore.
Però dopo Django Unchained è la cosa più vicina ad un western che probabilmente vedremo in una sala cinematografica italiana nel 2013, dato che se mai arriveranno in Italia, film come Dead in Tombstone sono destinati al massimo al noleggio dvd.

i film - Una città chiamata Bastarda



Nel 1971 furono ben otto i western diretti da registi statunitensi in Europa. Tutti abbastanza interessanti. Tramite coproduzioni che coinvolgevano vari paesi, girare in Spagna doveva essere all'epoca talmente conveniente che il cinema americano attraversava l'oceano per filmare titoli che poi di fatto non avevano nulla di europeo, come nel caso di pellicole quali Chato, Doc, Il giorno dei lunghi fucili e Io sono Valdez. Western assolutamente americani, che non rientrano, se non alla lontana, nella tipologia di film che stiamo cercando di mappare.


La sporca marmaglia di "La spina dorsale del Diavolo"

Rientrano invece perfettamente nella tipologia le altre quattro pellicole. La prima delle quali è una singolare produzione italo-americana, girata nell'allora Jugoslavia e non per una volta in Spagna, il notevole La spina dorsale del Diavolo (The Deserter) di Burt Kennedy, di cui abbiamo già scritto. In questo contesto ci limitiamo ad annotare come il film di Kennedy riproponesse quasi tutti gli elementi tipici del filone: la discendenza ancora più marcata del solito da "Quella sporca dozzina", con il pugno di uomini impegnato in una missione sucida, un nemico asserragliato in un luogo teoricamente imprendibile e lo sconfinamento in un territorio messicano dove le "normali" regole morali sembrano abolite. Del tutto eccentrico nel filone (e non solo) invece il film successivo...

1971 Una città chiamata Bastarda (A Town Called Hell)

di Robert Parrish (e Irving Lerner ) con Robert Shaw, Martin Landau, Stella Stevens, Telly Savalas, Fernando Rey, Al Lettieri, Michael Craig, Dudley Sutton, Paloma Cela, Maribel Hidalgo, Aldo Sambrell, Luis Rivera, Tito Garcia, Cris Huerta

Durante la rivoluzione, nella cittadina di Bastarda (si chiama così anche in originale, per una volta non è una trovata campata in aria dei distributori nostrani) piombano i rivoltosi che sterminano prete e borghesi del villaggio. Dieci anni dopo il paese è tiranneggiato dai rivoluzionari di un tempo capitanati da un sadico (Savalas) e il nuovo prete è uno dei due capi rivoltosi di dieci anni prima (Shaw). A bordo di un carro funebre giunge in città una bella vedova americana (Stevens) in cerca di vendetta per il marito, ucciso dal rivoluzionario Aguila, misterioso personaggio avvolto nel mito e di cui nessuno conosce l'identità. A capo di truppe regolari torna in paese anche l'altro capo dei rivoltosi di dieci anni prima (Landau), anche lui alla ricerca di Aguila. In un clima sempre più esasperato a base di uccisioni ed esecuzioni scoppierà una nuova rivolta. 

Penultimo film diretto da Parrish, un veterano di Hollywood oggi piuttosto dimenticato, ma ai tempi di grande culto soprattutto tra i critici francesi. Era al suo quarto e ultimo western, dopo che negli anni 50 aveva diretto il bellissimo Il meraviglioso paese con Robert Mitchum, in cui aveva già messo in scena un Messico violento e turbolento (per quanto un posto ameno e di tutto riposo se messo in confronto al Messico lugubre e funereo di "Una città chiamata Bastarda"). Negli anni 60 si era specializzato in coproduzioni europee poco considerate e di altalenante riuscita, tra le quali spiccano però almeno due titoli che andrebbero decisamente riscoperti: la colorata fantascienza pop di Doppia immagine nello spazio e il film qui presente. Che è uno di quei film in cui gli autori sembrano avercela messa tutta per creare un prodotto che piacesse a meno gente possibile. Troppo malato e artistoide per soddisfare il grande pubblico, troppo fuori dagli schemi per gli appassionati del genere, troppo strampalato e sensazionalistico per compiacere la critica più severa. Ed è anche il classico caso film "maledetto", quindi mal distribuito, circolante in versioni variamente tagliate e compromesso dagli interventi della produzione. Insomma un titolo perfetto per incontrare i favori di questo blog.



Tutto ambientato all'interno o negli immediati dintorni delle mura di un paesino messicano è un affascinante e onirico western rivoluzionario, che colpisce per gli insoliti squarci visionari, per i momenti di sogghignante crudeltà e soprattutto per l'atmosfera morbosa e irreale che si respira dall'inizio alla fine. La storia potrebbe essere letta come una specie di "Aspettando Godot" con i morti ammazzati durante l'attesa. La vicenda è punteggiata da sogni indecifrabili e flashback che non spiegano nulla, ma anzi spesso complicano ancora di più la trama. Ermetica e senza spiegazione soprattutto la presenza di due personaggi muti e misteriosi: l'inquietante e cadaverico killer che accompagna la vedova sul carro funebre, esplicitamente definito uno spettro nei credits del film, e la bellissima donna che vive nella stanza del prete, che forse rappresenta il diavolo, forse la morte o chissà che altro.

Il clima surreale del film si tiene lontano dalle tentazioni psichedeliche e sperimentali di altre pellicole dell'epoca (facile citare Matalo!), ma si rifà piuttosto allo stile freddo e distaccato dalle pellicole di Buñuel, dove anche le cose più improbabili e assurde venivano raccontate con un tono impassibile e straniante. Di marca surrealista è sicuramente l'impietoso distacco e il sottofondo di acre sarcasmo con cui vengono mostrate le numerose scene di violenza, un bel campionario di omicidi a sangue freddo, fucilazioni e impiccagioni. Non mancano neppure i simboli religiosi mostrati in chiave incongrua e blasfema, come l'angioletto di pietra che il personaggio di Robert Shaw restaura e accudisce per tutto il film o il cadavere di Telly Savalas esposto in una posa che ricorda il martirio di San Sebastiano. Alcune sequenze richiamano inoltre alcuni episodi della Guerra Civile spagnola. L'inizio nella chiesa, con i rivoluzionari che uccidono i notabili del paese e poi fucilano simbolicamente l'altare, rimanda ad azioni realmente compiute dai partigiani anarchici.

La trama, complicata e oscura, rispetta poche regole del classico racconto avventuroso. Quello che dovrebbe essere il protagonista resta in disparte e inerte per gran parte del film, personaggi che sembrano centrali vengono uccisi in maniera spiazzante e inaspettata, mentre alcune sequenze chiave non vengono neanche mostrate (ma questo lo scriviamo con il beneficio del dubbio, dato che come dicevamo del film circolano versioni variamente sforbiciate).



I difetti del film sono intuibilmente figli delle sue ambizioni. Per quanto inventive, regia e sceneggiatura non possiedono abbastanza lucidità e compostezza per controllare tutti i loro simbolismi. Alcune allegorie finiscono quindi per essere un po' facili, come il retorico metaforone finale in cui si scopre che il leggendario condottiero che tutti stanno cercando non sarebbe una persona concerta, ma una personalità che di volta in volta si incarna e rinasce nel paladino rivoluzionario di turno. Altrove si rischia di esagerare in bizzarrie fine a se stesse, come nel delirante flashback in cui della gente balla in un saloon americano al ritmo di un'anacronistica hit rockabilly del 1959, The Battle Of New Orleans di Johnny Horton, sequenza non a caso sforbiciata in diverse versioni.  

Da lustrarsi gli occhi il cast. Robert Shaw è fin troppo serioso e pecca in qualche uscita eccessivamente teatrale, ma è affascinante e torvo al punto giusto.
Anche se veniva da una lunga fila di apparizioni in decine di telefilm western, il sempre ottimo Martin Landau non sembra avere una faccia troppo adatta per il genere, ma in un film tanto inconsueto ci può stare tranquillamente un villain con un'aria diversa dal solito come la sua.
Chi sembrava invece nato per fare film di questo tipo è Telly Savalas, al solito poderoso nel miscelare ironia sorniona e sadismo. Da antologia la sequenza in cui, serafico, fa impiccare una coppia di coniugi assassini e per buon conto fa ammazzare anche la madre di lei che si lamenta. Dopo che il suo personaggio esce di scena il film perde qualcosa.
Presenza quasi fissa in questi western euro-americani, Fernando Rey contribuisce ad accentuare l'aria buñueliana del film, dato che era uno degli attori feticcio del grande regista spagnolo. Stavolta fa un cieco, paradossale testimone in grado di svelare il segreto che tutti vogliono scoprire.
Stella Stevens, nota per la parte della vitale prostituta in La ballata di Cable Hogue di Peckinpah, stavolta non si spoglia, fa la dama in nero con tendenze necrofile, ma riesce ad essere comunque molto sexi.
Infine il cast secondario è tutto un fiorire di faccioni dei caratteristi più tipici degli spaghetti western, come Aldo Sambrell, Luis Rivera, Tito Garcia, Cris Huerta. Unica invece nel genere la presenza di Al Lettieri, qui al primo dei suoi due soli western per il cinema. Il secondo sarà tutto americano, anche se inizialmente doveva essere un'altra coproduzione girata in Almeria, La rossa ombra di Riata.  

Grande merito nella creazione dell'atmosfera tesa e allucinata che attraversa tutto il film va alla splendida colonna sonora, creativa e suggestiva, del compositore argentino Waldo de los Rios.

sabato 20 aprile 2013

i film - Sledge



1970 Sledge (A Man Called Sledge)

di Vic Morrow con James Garner, Dennis Weaver, Claude Akins, John Marley, Laura Antonelli, Wayde Preston, Ken Clark, Riccardo Garrone, Luciano Rossi

Sledge è un famoso bandito che vuole fare il colpo grosso per poi ritirarsi con la sua donna. Consigliato da un vecchio galeotto, mette su una banda per rapinare un favoloso carico d'oro custodito in un carcere. Si fa arrestare e rinchiudere per scatenare una rivolta dei detenuti e approfittare del caos per rubare l'oro. Il colpo riesce, ma al momento della spartizione con il resto della banda non tutto filerà liscio. Finirà malissimo per tutti.

Gioiellino misconosciuto, che almeno in Italia incassò come un qualsiasi sotto-Django di terza categoria, quando invece è uno dei titoli più preziosi tra quelli girati in Almeria dagli americani. Oggi lo si definirebbe un gran film pulp, diretto benissimo, con una confezione ricca e impeccabile e con tutte le facce giuste al posto giusto. Il fulcro della vicenda è il solito luogo virtualmente inaccessibile che i protagonisti devono espugnare, ma stavolta inserito in un intreccio da film da rapina, filone da cui è ripreso anche il tono spiccio della narrazione. A fare la differenza rispetto ai film fin qui trattati contribuisce non poco anche l'efficace colonna sonora dell'italiano Gianni Ferrio, più accattivante e moderna dei soliti epici motivi hollywoodiani. C'è un certo realismo nella descrizione degli ambienti e una singolare sobrietà per un western europeo nella caratterizzazione dei personaggi, ma non mancano anche esasperazioni iperrealiste, tipo l'esagerata super-scorta che protegge il carico d'oro o l'idea decisamente improbabile che un tale tesoro possa essere custodito in un carcere pieno di criminali. Il tutto è amalgamato con sapienza e sono parecchie le sequenze che alla fine lasciano il segno: un suggestivo inizio innevato con una rapina ad una diligenza, Sledge con addosso solo dei mutandoni rossi che uccide due tizi in un saloon, il caotico e violento macello che si scatena nel carcere durante la rivolta, una delirante partita a poker nel deserto. Ma il pezzo forte è la memorabile resa dei conti in un paesino messicano dove si sta celebrando il Día de los Muertos messicano, con la sua colorata e sinistra iconografia a fare da contrappunto alla spietata lotta tra i  personaggi. Ci sono anche piccoli tocchi blasfemi, come Sledge che per continuare a sparare si stecca un braccio ferito con un crocifisso e un massacro tra le rovine di una chiesa.



C'è un'amoralità di fondo che a livello mainstream probabilmente solo il cinema di quell'epoca ha potuto permettersi. Pur in un'ottica di spettacolo di puro intrattenimento, è infatti un western criminale nerissimo, che descrive un'umanità dedita alla prevaricazione reciproca a tutti i livelli, con gli uomini di legge che si dimostrano non meno sadici e ottusi dei fuorilegge. A cominciare dal protagonista non c'è personaggio che susciti vera simpatia o che non venga descritto come una carogna pronto a fregare, uccidere e umiliare chiunque per il proprio tornaconto. Colpisce in particolare la rappresentazione di una fauna criminale balorda e autolesionista, degna dei fratelli Coen di "Fargo". Memorabile la sequenza in cui, freschi reduci dell'efferata rapina, i componenti della banda non resistono alla tentazione di giocarsi a carte la ricchezza appena ottenuta, perdendo tutto in favore dei più furbi. La mezz'ora finale diventa una specie di variante sanguinaria e criminale de "Il tesoro della Sierra Madre", un tutti contro tutti in cui a fare la fine peggiore è l'unico personaggio relativamente innocente del film, la donna di Sledge. La conclusione è discretamente nichilista, con il protagonista che si sottrae alla logica dell'avidità, ma solo per abbracciare quella della vendetta, scelta che non prevede nessun tipo di riscatto morale.



Vic Morrow appartiene alla non breve lista di registi (spesso attori) che hanno dimostrato del talento pur avendo diretto una sola pellicola in tutta la loro carriera. Morrow era un noto caratterista, con all'attivo quasi un centinaio di ruoli tra il piccolo e il grande schermo, occasionalmente anche regista di qualche episodio di alcune serie televisive. Oltre a "Sledge", appunto la sua unica regia per il cinema, di cui ha scritto anche la sceneggiatura, ha diretto e scritto anche un piccolo dramma carcerario per la televisione, "Deathwatch". Purtroppo oggi il nome di Morrow è legato soprattutto alle terribili circostanze della sua morte. A causa di un incidente morì insieme a due bambini mentre recitava sul set dell'episodio del film "Ai confini della realtà" diretto da John Landis, fatto a pezzi dalle pale di un elicottero.

Attore televisivo di prima grandezza, soprattutto grazie a telefilm storici come "Maverick" e "Agenzia Rockford", dotato di una voce profonda e caratteristica (in Italia ovviamente lo si è sempre visto e sentito solo doppiato), James Garner al cinema non ha mai funzionato altrettanto bene o forse non ha avuto altrettanta fortuna, ma qui sfoggia un gran carisma, per altro in un ruolo per lui insolitamente sgradevole. Azzeccato e eterogeneo anche il resto del cast. Sul versante americano spiccano Dennis Weaver, che sarà il malcapitato automobilista del "Duel" di Spielberg, Claude Atkins, futuro sceriffo carognone ma simpaticone del telefilm "Lobo", e il rugoso John Marley, che fa uno dei "vecchietti del West" più abietti e maligni mai visti. Le facce italiane del cast sono quasi tutte curiosamente concentrate nella parte carceraria. Riccardo Garrone è il direttore, mentre tra i carcerati si nota l'onnipresente Luciano Rossi che fa, manco a dirlo, il pazzo lunatico. Bionda e quindi quasi irriconoscibile, una giovane e bellissima Laura Antonelli fa la donna di Sledge, personaggio un po' lamentoso a cui però l'attrice dona una malinconica intensità. 

giovedì 18 aprile 2013

i film - Impiccalo più in alto



1968 IMPICCALO PIU' IN ALTO (Hang 'Em High)
di Ted Post, con Clint Eastwood, Inger Stevens, Ed Begley, Pat Hingle, Ben Johnson, Charles McGraw, Ruth White, Bruce Dern, Dennis Hopper

Jed Cooper, un ex-sceriffo accusato per errore del furto di una mandria da una banda di vigilantes, viene linciato sul posto e lasciato per morto. Sopravvissuto all’impiccagione e assunto come marshall agli ordini del sanguinario giudice Fenton inizia, in maniera legale, una spietata caccia ai suoi carnefici, in contraddittorio equilibrio tra giustizia e vendetta.

Anche se il clamoroso successo dei film della “Trilogia del Dollaro” (che stabilirono i maggiori incassi della storia del cinema italiano, polverizzando ogni record precedente) lo trasformò in un attore di culto in Italia, Clint Eastwood, a differenza di altri suoi colleghi americani (pensiamo, ad esempio, a Lee Van Cleef), non sembrò mai veramente interessato a una carriera cinematografica nel nostro paese.
Eccettuati i tre film di Sergio Leone non prese in considerazione nessun’altra proposta di lavoro nel western-spaghetti (forse anche perché il suo cachet, lievitato dai 15.000 dollari di Per un pugno di dollari ai 250.000 di Il buono, il brutto, il cattivo, non lo rendeva esattamente alla portata delle tasche delle nostre produzioni) e, se si esclude l’episodio Una sera come le altre del film collettivo Le streghe, diretto da Vittorio de Sica e interpretato a fianco di Silvana Mangano, fino al 1966 continuò a recitare nella serie televisiva americana Rawhide (quella della famosa sigla Rollin’ Rollin’ Rollin’ parodiata dai Blues Brothers, brevemente apparsa anche da noi con il titolo Gli uomini della prateria), da lui interpretata fin dal 1959 a fianco di Eric Fleming.



Con la distribuzione anche in territorio americano, nel 1967, delle tre pellicole leoniane il nome di Eastwood cominciò però a circolare anche presso gli Studios di Hollywood, pur se ancora con un certo sospetto, dato che i sadici western italiani di serie B che si permettevano irrispettosamente di giocare sullo stesso terreno del genere americano per eccellenza avevano ancora per l’establishment cinematografico a stelle e strisce lo stesso effetto di un’invasione aliena.
Eastwood, però, come sempre aveva le idee ben chiare in testa e dopo aver - piuttosto sorprendentemente - detto di no a un'offerta milionaria di Leone per la parte del protagonista di C’era una volta il West cominciò a pianificare con la sua abituale oculatezza il suo esordio presso il pubblico degli Stati Uniti.
La strategia dell’attore si mosse lungo due direttrici: apparizioni in grosse produzioni (Dove osano le aquile, La ballata della città senza nome, I guerrieri…) con cui consolidare il suo nome da star e progetti più autonomi e personali da gestire e realizzare in prima persona.
Come suo primo film americano da protagonista (precedentemente aveva sempre fatto la comparsa o al massimo il caratterista) contro ogni aspettativa rifiutò il ruolo andato poi a Gregory Peck in L’oro di Mackenna e scelse appunto uno di questi progetti: una sceneggiatura di Leonard Freeman e Mel Goldberg che trattava di giustizia e pena di morte, vagamente ispirata ad Alba fatale di William Wellman, da coprodurre a basso budget con la sua neonata compagnia di produzione, la Malpaso.

Come regista del suo esordio sugli schermi statunitensi Eastwood scelse personalmente e contro il volere della United Artists (che avrebbe preferito i nomi di John Sturges o Robert Aldrich) il newyorchese Ted Post, che conosceva e stimava come autore di molti episodi di Rawhide, e che aveva lavorato anche in molte altre serie western.
Post, nato a Brooklyn nel 1918, era un anonimo mestierante soprattutto televisivo e probabilmente uno di quei registi su cui Eastwood tendeva ad imporre la sua autorità di produttore, tanto che dopo una seconda pellicola insieme (Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan, 1973), il loro sodalizio si interruppe proprio per la poca libertà di manovra concessa al regista dal protagonista/produttore.



Eastwood scelse intelligentemente di presentarsi presso il nuovo pubblico con una pellicola che mantenesse, almeno in certa misura, le innovazioni stilistiche dei western italiani, ma calate in un contesto tranquillizzante e convenzionale tale da non scioccare il pubblico americano, ancora abituato ad un tipo di western molto più canonico.

Impiccalo più in alto risulta quindi una sorta di ibrido tra il western classico americano, con le sue convenzioni stilistiche e i suoi insegnamenti morali, e le nuove istanze estetiche di quello italiano, con i suoi cacciatori di taglie, le sue cacce all’uomo, le sue giustizie sommarie e la sua rappresentazione della violenza molto più esplicita.
E’ già anche un film in cui Eastwood, come in tutti i suoi western successivi , gioca con gli archetipi del genere: nella straordinaria sequenza d’apertura egli è un mandriano che sta conducendo una mandria di vacche (in pratica ancora in tutto e per tutto il Rowdy Yates della serie televisiva Rawhide) che, con un colpo di scena di grande effetto, viene preso e impiccato da una posse di giustizieri che lo accusa del furto della mandria (e già la violentissima scena della sua impiccagione – risolta in primo piano con ampio risalto al suo volto tumefatto – mette subito in chiaro lo scarto rispetto ai western americani precedenti); dopodiché sul suo corpo penzolante partono i titoli di testa virati in rosso come quelli di Django, o di un horror di Roger Corman, dopo i quali il nostro di fatto resuscita (viene salvato ancora vivo da Ben Johnson, grande attore fordiano che in questo caso rappresenta una specie di Caronte che traghetta il protagonista tra due diversi tipi di western) e rinasce come l’incarnazione dell’Uomo senza nome, che vestito di nero e con un cigarillo agli angoli della bocca comincia la spietata caccia a coloro che lo hanno impiccato. L’approccio al genere di Eastwood, come si vede, è già consapevole, personale e poco ortodosso.



Anche il protagonista del film, Jed Cooper, è una figura tormentata e dubbiosa più simile a quelle interpretate dall’attore nei western da lui diretti in seguito che non alla ieratica icona leoniana. Intanto ha un nome e un cognome ed è un servitore della legge anziché un cacciatore di taglie, e rispetto ai western di Leone sono già novità non da poco. Inoltre rispetto ai film della Trilogia del dollaro Eastwood cerca già di affrontare temi più complessi e profondi: l'attore Pat Hingle interpreta un personaggio ispirato al vero giudice Isaac Parker, soprannominato "Hanging Judge" a causa del gran numero di uomini da lui fatti giustiziare durante il suo servizio come giudice distrettuale a Fort Smith nell'Arkansas, e il film analizza la differenza tra giustizia e legge e come quest’ultima venga spesso esercitata in maniera personale e fallibile, tanto da causare nel protagonista dilemmi morali e tormenti interiori. Il film pone anche uno sguardo molto critico sulla pena di morte, descritta ne più ne meno come omicidio legalizzato, cosa che dovrebbe quantomeno far riflettere coloro che per molti anni hanno dipinto acriticamente Eastwood come l’incarnazione della destra americana più deteriore.

Il film contiene infatti almeno un’altra sequenza straordinaria, quella dell’impiccagione pubblica, raffigurata in forte e volontario contrasto tra grottesca atmosfera circense e cupa disperazione, e che è così simile come tensione alle analoghe scene di esecuzione presenti in Fino a prova contraria e Changeling che è impossibile non pensare che l’attore non vi sia intervenuto in prima persona.
Assolutamente notevole è anche il finale, risolto con un climax da tregenda da film horror.



I limiti della pellicola sono un andamento troppo televisivo, retaggio probabilmente della provenienza del regista, e una trama eccessivamente complessa e dialogata, che soffre anche di una lunghezza eccessiva (ma i western di Eastwood non sono mai brevi).
L’immagine del Far West è inoltre troppo ordinata e pulita, appunto da serial televisivo anni sessanta, e una delle principali innovazioni stilistiche del western italiano, quella della raffigurazione di una frontiera sporca, sordida e polverosa, è assolutamente tralasciata.

Le riprese iniziarono nel giugno del 1967 nella zona di Las Cruces nel New Mexico, mentre la scena del linciaggio di apertura è stata girata sulle rive del Rio Grande, e il film uscì nelle sale nel mese di luglio 1968.
Nonostante le prevedibili recensioni negative da parte della critica (il Time lo definì “il film più raccapricciante dell’anno” e Varietya poor American-made imitation of a poor Italian-made imitation of an American-made western”) il film fu un grande successo e incassò quasi 7 milioni dollari nei soli Stati Uniti. La carriera americana di Clint Eastwood era ufficialmente cominciata.

mercoledì 17 aprile 2013

i film - Quattro per Cordoba



1970 Quattro per Cordoba (Cannon for Cordoba)

di Paul Wendkos con George Peppard, Giovanna Ralli, Pete Duel, Raf Vallone Don Gordon, Nico Minardos, Gabriele Tinti

Le milizie rivoluzionarie del generale Cordoba creano subbuglio sul confine. Un ufficiale americano si infiltra nelle sue fila, ma non riesce a impedire una strage di commilitoni e il furto di un treno che trasportava una batteria di cannoni. Insieme ad altri tre viene quindi spedito in Messico, con la missione di catturare il generale, distruggerne il covo e i cannoni. Il commando troverà due alleati in un onesto ufficiale messicano e in una donna che vuole vendicarsi.

Parecchio divertente e riuscito. Un'altra grossa produzione hollywoodiana girata in Spagna, piena di esplosioni, violenza e con la consueta fortezza da espugnare. La confezione è di lusso, con grandi mezzi e grandi scenografie, il tutto a disposizione del regista che l'anno prima aveva diretto Le pistole dei magnifici sette, basato su un canovaccio molto simile, ma con personaggi e situazioni molto meno intriganti. Stavolta, per fare il moderno, Wendkos (regista dal chilometrico curriculum televisivo) ci da dentro di inquadrature sghembe e movimenti di macchina eccentrici, ma senza perdere il controllo della situazione e portando a casa delle gran belle scene d'azione e di massa. Tra queste da segnalare per efficacia spettacolare l'attacco di Cordoba al paese, una sparatoria tra le rovine di una chiesa e il finale bombarolo. Da una mano alla riuscita generale la fotografia colorata e suggestiva. Invece a tratti un po' troppo vecchia maniera la colonna del veterano Elmer Bernstein.



Il modello è ancora una volta "Quella sporca dozzina", ma senza i dubbi etici e i paradossi morali di Aldrich ne esce praticamente un perfetto precursore di un certo action moderno. Anche dal punto di vista politico, dato che l'assunto di base del film è senz'altro all'insegna di un interventismo abbastanza reazionario. Quasi un perfetto contraltare dei tortilla western italiani. Benché nei dialoghi si facciano distinzioni tra la rivoluzione messicana e un personaggio come Cordoba, descritto come un'aberrazione della stessa, le immagini parlano da sole e il gusto di vedere dei rivoluzionari che saltano in aria è palese.
Inoltre fin dalle prime sequenze è evidente la simpatia degli autori per la figura del militare professionista a suo agio nel caos della battaglia e quasi divertito dalla guerra, uno che fa il suo sporco mestiere come deve essere fatto, cioè senza troppi scrupoli. Sembrerebbe la ricetta perfetta per ottenere un film assolutamente odioso, invece il tutto è corretto da un'abbondante dose di cinismo ghignante, che allegerisce la materia e ammanta il tutto di una furba amoralità. Il senso dell'azione e il gusto per l'avventura salvano storia e personaggi dagli schematismi e l'esibita carognaggine del protagonista evita di trasformarlo in un santino guerrafondaio. Non mancano del resto le annotazioni amare, come nei momenti in cui i componenti del commando ci rimettono la pelle appena si lasciano frenare da un minimo sentimento di pietà o amicizia.



A capo di un quartetto, sorriso sornione e sigaro in bocca, un perfetto e affascinante George Peppard fa le prove generali per il personaggio dell'A-Team che farà la fortuna dell'ultima parte della sua carriera. Ancora una volta il modello principale è James Bond, Peppard infatti è qui una specie di agente 007 all'ennesima potenza, ancora più cinico e glaciale, capace tra le tante di assistere senza battere ciglio alla tortura di un amico. Di ascendenze bondiane anche il gelido e mellifluo cattivo interpretato da un grande Raf Vallone e le due notevolissime presenze femminili. La bellissima francese Francine York appare in due scene, in una seminuda a fare la danza del ventre, nell'altra nuda a letto insieme a Peppard. Molto più vestita, ma altrettanto ammaliante Giovanna Ralli, che fa l'ambigua triplogiochista che deve sedurre l'uomo che gli ha sterminato la famiglia e l'ha violentata.

È un western dal gusto e dallo stile essenzialmente americani, ma si avverte l'influenza degli spaghetti western soprattutto per certi anacronismi nella caratterizzazione di un paio dei componenti del commando. Capelli lunghi e basettoni, ha tutta l'aria di un giovane hippie il personaggio interpretato dal povero Pete Duel, uno dei protagonisti del telefilm Due onesti fuorilegge, qui al suo ultimo film, visto che morirà suicida un anno dopo. Occhialini alla John Lennon, il soldato interpretato dall'attore greco Nico Minardos ricorda invece i tanti studenti greci che all'epoca emigravano in tutto il mondo per sfuggire alla Dittatura dei Colonnelli.

martedì 16 aprile 2013

i film - El Condor



Vedendo o rivedendo i film per mettere insieme questa rassegna salta agli occhi una cosa abbastanza sorprendente rispetto al luogo comune più ricorrente su questi titoli: agli americani non interessava per nulla replicare i western all'italiana. Eppure ancora oggi un po' ovunque questi film vengono considerati dei tentativi di imitazione hollywoodiana dei modelli italiani. E come tali in genere vengono mal giudicati. Ad esempio un film come El Condor è sempre stato bollato (anche da chi scrive) come un poco lucido tentativo di spaghetti western americano, ma rivedendolo con la testa sgombra dal luogo comune ci si accorge che è semplicemente un paragone che non ha motivo di essere fatto. Pur subendo l'ovvia influenza degli scapestrati "cugini" italiani, erano western autonomi nello stile, nei temi e nei personaggi proposti, le cui vere influenze vanno ricercate piuttosto in film di guerra come "Quella sporca dozzina" e i film di James Bond.
 
1970 El Condor

di John Guillermin con Jim Brown, Lee Van Cleef, Patrick O'Neal, Marianna Hill, Iron Eyes Cody, Imogen Hassall, Elisha Cook Jr. 

Un evaso e un balordo si mettono in società con una tribù di apache per assaltare la leggendaria fortezza di El Condor, nascosta nel deserto a protezione di un incredibile tesoro. A presidiarla c'è un esercito guidato da un ufficiale sadico che darà loro filo da torcere. Alla fine sarà un massacro e l'oro darà alla testa a qualcuno.

Truffaldino l'adattamento italiano, che cambia il nome della fortezza in El Diablo e pretende che l'El Condor del titolo sia il personaggio di Lee Van Cleef, che in realtà si chiama Jaroo Lee ed è tutto un altro tipo di personaggio. Lee Van Cleef fu la prima ed unica icona degli "spaghetti" che venne integrata come protagonista nei western americani girati in Almeria. Il film segnò una svolta nella carriera dell'attore, dato che negli anni 70 si era messo in testa - chissà perché - di interpretare personaggi più ironici e sopra le righe di quelli lugubri che avevano fatto la sua fortuna nel decennio precedente. Qui infatti interpreta curiosamente un personaggio "alla Tuco". Anzi, si può proprio dire che rifà Tuco tale e quale, dato che le movenze, il carattere e gli indumenti  straccioni sono esattamente gli stessi del personaggio reso celebre dal faccione di Eli Wallach. Con il suo aspetto arcigno Lee Van Cleef più che un simpatico cialtrone sembra una specie di faina disperata e non funziona certo allo stesso modo di Wallach, ma dimostra almeno di essere un vero attore, anche se poi ovviamente esce meglio nei momenti drammatici, come nel bel finale. Preferibile comunque con la sua voce originale, dato che il doppiaggio italiano gli appioppa il tono grave e da duro della voce di Renato Turi, fuori luogo per un personaggio picaresco di quel tipo.



Interessante il personaggio dell'evaso, mosso da un misto di avidità e di rivalsa sociale, interpretato da un imponente Jim Brown. Il divo del film è lui e infatti il futuro regista di horror Larry Cohen (che aveva già scritto Il ritorno dei magnifici sette) scrive una specie di replica meno brillante, ma altrettanto divertente, di El Verdugo. La situazione di base è quasi la stessa, con la stessa miscela tra buddy movie e film d'azione, la stessa violenza caotica, un finale altrettanto amaro e un trio di protagonisti molto simile. Come personaggio femminile al posto di Rachel Welch c'è la meno esplosiva, ma comunque più che apprezzabile Mariana Hill. E se in "El Verdugo" c'era la prima scena di sesso tra un nero e una bianca, qui abbiamo probabilmente il primo nudo integrale in un western hollywoodiano di serie A, con la Hill che fa lo spogliarello davanti ad una finestra per distrarre le sentinelle. Notevole la miscela tra erotismo e violenza anche nella sequenza in cui i protagonisti fanno strage dei militari che si sono appartati con le donne di un villaggio (con tanto di scenetta al limite dell'omofobia: Lee Van Cleef sorprende due militari a letto insieme e li ammazza con un ghigno compiaciuto).

Specializzato in prodotti ad alto budget e a bassa personalità, John Guillermin ("L’inferno di cristallo" il film più degno di nota della sua carriera) non vale il Tom Gries di "El Verdugo". Governa bene le scene di battaglia, ma ha la mano pesante su quelle ironiche. Non gli riesce quindi un altrettanto efficace mix tra realismo violento e leggerezza avventurosa, spostano il tutto verso una spettacolarità più esagerata e inverosimile.



Il film è comunque parecchio divertente e particolarmente ricco, pieno com'è di esplosioni e di generose acrobazie degli stuntman, come nella spettacolare strage conclusiva. Pur privo del sadismo degli spaghetti western è una pellicola piuttosto violenta e dal body count elevato. 
Se l'influenza degli spaghetti western tutto sommato si ferma al personaggio di Lee Van Cleef, si nota quella molto più decisiva dei film di James Bond, da cui provengono trovate come l'iperbolico e surreale deposito dell'oro, a cui si accede da un passaggio segreto, o scene come quella degli apache che scalano le mura del forte, servendosi di improbabili aggeggi e rampini. Ma l'ombra dei film di 007 si avverte su un po' tutte le scene all'interno del forte, anche per l'importanza data alla scenografia. E infatti la bellissima e gigantesca fortezza costruita appositamente per il film è centrale nella pellicola, tanto da meritarsi di essere celebrata fin dal titolo (doppiaggio italiano permettendo). Poi sfruttata per molti altri film, fino ad arrivare al fantasy di "Conan il barbaro" di Milius, El Condor sembra una specie di fortezza bizantina trapiantata nel deserto messicano, il cui aspetto esotico da un tocco originale a tutta la vicenda. Da italiani l'impressione è quasi che Jim Brown, Lee Van Cleef e gli apache mettano a ferro e fuoco la Fortezza Bastiani de "Il deserto dei Tartari".  

sabato 13 aprile 2013

i film - Bruciatelo vivo! / Le pistole dei magnifici 7



Nell'anno in cui il filone dei western americani girati Almeria produceva uno dei suoi risultati più fortunati (El Verdugo), uscivano anche i due titoli meno interessanti presi in considerazione da questa nostra rassegna. Anzi, il primo merita tranquillamente di vedersi appioppata l'etichetta western brutti...

1969 Bruciatelo vivo! (Land Raiders / Al infierno gringo)

di Nathan Juran con Telly Savalas, George Maharis, Arlene Dahl, Janet Landgard

Lotta fratricida tra un fratello buono contro un fratello cattivissimo, padrone di una città e foraggiatore dei cacciatori di scalpi che massacrano gli indiani dei dintorni. Saranno questi ultimi a risolvere la situazione in modo definitivo. 

Regista e produttori sono americani, ma l'aria scalcagnata è da sottoprodotto italiano. Terribili in particolare le sequenze d'azione e di massa riprese palesemente da altri film, e i costumi da carnevale del quartierino, con quegli indiani finti la cui presenza era nove volte su dieci garanzia di serie Z per i western europei. Infatti. C'è parecchia violenza, anche se ogni volta che si vede scalpare qualcuno (il che capita spesso) la regia deve staccare, non avendo evidente i mezzi per un mostrare un qualsiasi effetto sanguinolento. Non si salva quasi nulla, dalla regia inerte alla trama cervellotica, stupida e noiosa. Il film è curiosamente incentrato sull'orgoglio messicano. Savalas è un messicano (sic!) che ha tradito la sua razza americanizzandosi il cognome e sposando una "gringa", mentre il fratello buono è un hombre molto macho e un po' scemo, orgoglioso delle sue origini e del suo ciuffo latino (“Al diavolo i gringos!” dice al fratello). Se aggiungiamo l'abbondanza di toni melodrammatici, soprattutto nei patetici flashback, vien da pensare ad un film maldestramente indirizzato al mercato latino.



Unica elemento degno di interessante è la presenza di Telly Savalas. Come Klaus Kinski era uno di quegli attori dalla presenza magnetica che riuscivano a non sfigurare anche nei contesti più miserabili e raffazzonati. E infatti la scena della sua morte, con lui serafico che aspetta nel suo ufficio di essere massacrato dagli indiani, è l'unico cosa da ricordare di un film per il resto tranquillamente dimenticabile.

1969 Le pistole dei magnifici 7 (Guns of the Magnificent Seven)

di Paul Wendkos con George Kennedy, James Whitmore, Monte Markham, Reni Santoni, Bernie Casey, Fernando Rey

Ancora una volta il pistolero Chris corre in aiuto della popolazione messicana in compagnia di altri sei compari. Stavolta devono assalire una prigione militare per liberare un capo rivoluzionario (l'onnipresente Fernando Rey).

Non sgradevole, ma noioso, terzo capitolo della serie. Non c'è più neanche Yul Brynner, sostituito da George Kennedy, attore enorme in tutti i sensi, ma che non ha mai avuto il fisico adatto per fare il protagonista. Anche le altre facce del film sono quelle di caratteristi televisivi tipici del periodo, il che da una parte da al tutto un'aria ordinaria da telefilm, ma dall'altra svecchia un po' l'immagine della serie. La confeziona è di lusso, ma gli autori sembrano fortunatamente prendersi poco sul serio, girando un semplice film d'azione popolato da personaggi colorati e fumettosi, caratterizzati in modo vistoso anche dal punto di vista visivo. Stavolta non va di scena il Messico arcaico dei due capitoli precedenti, ma quello pieno di militari, fucilazioni e impiccagioni canonizzato da El Verdugo. Anche la consueta retorica sul popolo che resta e vince, mentre i guerrieri passano e perdono, è aggiornata in chiave post-sessantottina con, al posto dei contadini inermi afflitti dai desperados, dei rivoluzionari straccioni che combattono contro i rurales. C'è anche il tentativo di diversificare il solito canovaccio, assecondando la moda di allora dei film sulle missioni suicide, con i soliti sette che per una volta devono attaccare e non difendere una posizione.



Alla fine tutto affoga però nel déjà vu. Il canovaccio è sempre quello ormai usurato del primo film. Tutto sembra pensato e scritto con lo stampino, con sempre gli stessi dialoghi, le stesse situazioni, le stesse dinamiche tra gli stessi personaggi. Alla fine muoiono i soliti che si devono redimere e, oltre al protagonista, sopravvivono quello simpatico e l'insopportabile pivello messicano. Anche il celeberrimo commento musicale di Elmer Bernstein finisce quasi per risultare fastidioso nella sua continua e vuota riproposizione. A parte una discreta dose di violenza (il comandante dei rurales è un sadico dedito alla tortura di massa), si batte insomma una strada davvero troppo battuta per essere ancora divertente. Alla fine il capitolo con più elementi "spaghetti" della serie sarà il quarto e ultimo con Lee Van Cleef, I magnifici sette cavalcano ancora del 1972, film però totalmente americano. 

venerdì 12 aprile 2013

i film - El Verdugo



1969 El Verdugo (100 Rifles)

di Tom Gries. Con Jim Brown, Raquel Welch, Burt Reynolds, Fernando Lamas, Dan O'Herlihy, Eric Braeden, Michael Forest

Uno sceriffo americano (Brown) insegue nel Messico rivoluzionario un mezzosangue che ha rapinato una banca (Reynolds). I soldi del bottino servono per finanziare l'acquisto dei cento fucili del titolo originale, utili agli Yaqui per ribellarsi ai rurales. I due finiscono nelle grinfie di questi ultimi, ma vengono salvati da una bella guerrigliera (Welch). Tutti insieme si mettono a capo dei rivoltosi e li guidano alla vittoria, che sarà pagata però a caro prezzo.

Regista trascurato e interessante Tom Gries, forse anche perché prematuramente scomparso nel 1977 a cinquantacinque anni. Prima di questa pellicola, l'anno precedente, aveva già avuto l'onore, un po' per caso, di varare la nobile stagione dei western crepuscolari con il bellissimo Costretto ad uccidere. Con questo film invece canonizza le caratteristiche del meno aristocratico filone del western americano girato in Almeria. Riprende l'ambientazione rivoluzionaria del precedente Viva! Viva Villa!, ma pur restando fedele a buona parte dei luoghi comuni hollywoodiani sul Messico li aggiorna ad una spettacolarità più disinvolta, agile e moderna, alleggerendo la materia dal colore turistico più facile e da qualsiasi scomodo riferimento storico, raccontando di una generica rivoluzione di indios straccioni contro rurales cattivi, il tutto in un Messico visto come una terra spietata e senza regole. Ad esempio la battaglia finale, con gli indios che assaltano a bordo di un treno un paese presidiato dai rurales, è imponente e complessa, ricca di carrellate che mostrano centinaia di comparse in azione contemporaneamente, ma Gries riesce a infondere alle scene un'impressione di confusione e violenza che evita la tronfiaggine da kolossal.



Pur non particolarmente influenzato dall'estetica dei western all'italiana, il film evita comunque la tradizione americana del genere, dove il racconto doveva sviluppare un più o meno evidente percorso morale dei personaggi. La presa di coscienza dello sceriffo su dove stiano i torti e le ragioni è questione di pochi minuti cinematografici, il resto è solo azione, evasioni, fughe, agguati, battaglie. Ne viene fuori un film divertente e spettacolare, affine ad un certo cinema d'azione che mescola il buddy movie con l'azione violenta e si risolve quasi sempre nel mostrare personaggi simpatici che devono uscire da situazioni pericolose. Film che funzionano se funzionano i personaggi, che è il caso di questa pellicola. Al posto di divi ormai datati come Mitchum e Brynner, vanno di scena i giovani ed emergenti Jim Brown, probabilmente il primo attore di colore protagonista assoluto di un western (almeno ad alto budget), un Burt Reynolds fresco di Navajo Joe ad un passo dalla fama mondiale e una Raquel Welch all'epoca all'apice della fama come bomba sexi. Tutti e tre sono ben valorizzati e risultano simpatici, anche se - o proprio perché - alle prese con caratterizzazioni decisamente improbabili: uno sceriffo americano di colore storicamente per nulla attendibile e una bellissima guerrigliera indios miracolo della genetica, se si considera che tutti gli altri indios che si vedono nel film sono piccoli brutti e scuri.



Come ben esemplificato da molte locandine, la Welch e la sua prorompente sensualità sono uno dei punti forti del film. Quel che non era riuscito di fare agli autori di Shalako con la Bardot, riesce alla grande con l'attrice americana. Funziona la maliziosa contraddizione tra il glamour del suo personaggio e il contesto sporco e violento in cui si muove. Merito anche della regia di Gries, che non aveva una gran personalità e adattava il suo stile di volta in volta alle sceneggiature, ma era un regista non banale, particolarmente abile nel creare atmosfere sature di tensione e violenza. Notevoli quindi sequenze come quella della Welch che si fa una doccia sotto una cisterna per fermare un convoglio ferroviario militare, dove lo spirito porcellone della scena si mescola ad un'improvvisa esplosione di violenza. Ma da antologia soprattutto la scena d'amore tra lei e Jim Brown, da molti indicata come la prima esplicita sequenza erotica tra un nero e una bianca in un film hollywoodiano, che Gries immerge in un clima di orgia anarchica, con gli indios attorno che devastano una villa. Tocco degno di nota anche il finale amaro.



Il titolo originale "100 Rifles" è stato fedelmente tradotto in quasi tutto il mondo, solo in Italia è saltato fuori il cretinissimo titolo "El Verdugo". Il personaggio del titolo sarebbe il cattivo della storia, il Generale Verdugo interpretato da Fernando Lamas, personaggio antipatico al punto giusto, ma assolutamente marginale e privo di reale interesse.