lunedì 1 aprile 2013

le monografie 9 - Il Grinta

Il grinta
La vera grinta di Mattie Ross

Per vendicare la morte del padre, ucciso a tradimento dal balordo Tom Chaney, la quattordicenne Mattie Ross ingaggia lo sceriffo Rooster Cogburn, un vecchio sceriffo alcolizzato, ma ancora considerato un infallibile cacciatore di uomini. A loro si unirà l'ottuso ma integerrimo ranger texano LaBoeuf. Dopo una serie di incontri, scontri e litigi reciproci i tre rintracceranno Chaney, il quale però nel frattempo si è unito a una spietata banda di fuorilegge.



Pubblicato a puntate nel 1968 sul Saturday Evening Post, True Grit (in italia "Un vero uomo per Mattie Ross"), il secondo romanzo di Charles Portis, divenne quasi immediatamente un classico della letteratura americana, adottato persino nei programmi scolastici. Scritto con uno stile fulminante e conciso, è narrato in prima persona da una ruvida zitella che racconta di un'avventura vissuta quando era quattordicenne. Il tono caustico e arguto della donna matura si mescola con l'antico stupore dell'adolescente, che pur già provvista di un carattere di ferro scopre un mondo sorprendente e bizzarro che la segnerà nell'animo e crudelmente anche nel fisico.

Un originale romanzo di formazione giovanile, da subito accostato ai romanzi di Mark Twain per via dell'umorismo stringato e molto americano, ma che in fondo è anche una sorta di "Alice nel paese delle meraviglie" ambientato nel West, popolato da figure tipiche del folclore del sudovest statunitense almeno quanto il romanzo di Carroll erano pieni di riferimenti ai personaggi della tradizione inglese, dove la "meraviglia" non nasce però dal fantastico e il surreale, ma dalla descrizione di una realtà le cui logiche sono sovvertite dalla violenza e dal durezza dell'ambiente. O può anche essere letto come un piccolo "Cuore di tenebra" dentro all'irrequietezza della società americana, eternamente divisa tra fede nella libera scelta che ognuno ha di determinare il proprio destino e l'idea di un peccato originale che tutti in un modo o nell'altro devono scontare.

Oggi ottantenne (classe 1933), Charles Portis è fedele allo stile eremitico e ostile agli eccessi di notorietà di alcuni scrittori americani. In tutta la carriera ha pubblicato solo cinque romanzi, l'ultimo nel 1991.


1969 Il Grinta (True Grit)
di Henry Hathaway con John Wayne, Glen Campbell, Kim Darby, Robert Duvall, Dennis Hopper, Strother Martin, Jeff Corey

La prima e fortunatissima trasposizione del romanzo di Portis, pubblicato solo un anno prima. Non è raro in America vederla citata tra i massimi classici del genere. In realtà si tratta solo di un buon film. Un buon film di John Wayne (senza dubbio uno dei migliori della fine della sua carriera), ma non una gran trasposizione del romanzo.

Attraversato da un' ironia piuttosto macabra, è un film simpaticamente amorale, con sceriffi e banditi non tanto diversi tra loro e tutti ugualmente attaccati al denaro. Nel passaggio sullo schermo continua a risultare originale il personaggio della ragazzina, anche se più che la determinazione e il coraggio il film rischia di sottolinearne solo gli aspetti più superficiali, come la tirchieria, il gretto affarismo, il perbenismo e la stupidità infantile. Senza il retrogusto aspro e l'ironia del romanzo Mattie Ross in questo film rischia di passare solo per una petulante testarda. D'altra parte non è lei la vera protagonista del film.



La pellicola è infatti costruita su misura per John Wayne, che non a caso inizialmente aveva pensato anche di dirigerlo. L'attore ha gioco facile nel giganteggiare in un ruolo di vecchia e simpatica canaglia dal cuore d'oro, lo sceriffo ubriacone che vive con un gatto e un cinese. Fin troppo facile, visto che la presenza debordante dell'attore finisce per mangiarsi il film, gli altri attori e personaggi. Soprattutto, pur abbastanza fedele alle vicende del romanzo, il tono della storia viene in molti punti radicalmente modificato, per andare incontro alle esigenza di un film che più "con" John Wayne finisce per essere un film "di" John Wayne. In particolare il finale (che pure mostra un'ecatombe anche peggiore che nel romanzo) è tutto incentrato sull'eroico salvataggio della ragazzina e su Cogburn che deve dare la dimostrazione definitiva e rassicurante di essere il classico burbero dall'animo nobile. L'amarezza crepuscolare della storia è definitivamente annacquata nell'epilogo, con la ragazzina che non perde il braccio e John Wayne che ci tiene a far sapere di essere ancora in gamba saltando steccati.

Come è noto, grazie a questo film John Wayne vinse il suo primo ed unico oscar. Un riconoscimento che sembra avere però l’involontaria crudeltà che hanno spesso i premi riparatori. Se il fascino di Wayne e dei suoi personaggi stava in quella sua aria statuaria e imperturbabile, in quella sua specie di sua soldatesca nobiltà, in un'inespressività che valeva più di mille espressioni, l'oscar gli fu invece assegnato per una parte in cui gigioneggiava, faceva un sacco di smorfie e strabuzzava gli occhi (anzi l’occhio). Praticamente fu premiato perché per una volta non recitava alla John Wayne.

Grazie soprattutto alla gran parata di caratteristi che sfila nel film, il carattere sostanzialmente corale e pittoresco della storia è spesso salvo, ma gli altri due attori protagonisti sono seppelliti dal confronto con l'icona Wayne. In uno dei suoi tre soli ruoli da protagonista al cinema il cantante country-pop Glen Campbell è un belloccio senza carisma, mentre la non abbastanza giovane Kim Darby (22 anni) ha un'aria troppo televisiva (e infatti avrà una lunga e fortunata carriera in tv). Entrambi l'anno dopo verranno arruolati per la trasposizione di un altro romanzo di Charles Portis, Norwood.



La regia fin troppo classica e composta del settantunenne Hathaway non sfrutta in pieno né il colore dei personaggi né il tono ambiguo di molte situazioni, ma è almeno efficace in paio di scene violente, che rispettano il lato duro del romanzo. Memorabile lo scontro a fuoco finale a cavallo, con John Wayne che spara contemporaneamente col fucile e la pistola tenendo le redini tra i denti, poi infatti citato in molte inquadrature dai fratelli Coen. Bella anche la morte di un esagitato Dennis Hopper, a cui prima amputano le dita e poi finisce con un coltello da cucina in pancia. Quello stesso anno Hopper sbancò i botteghini con il suo "Easy Rider", film profondamente detestato da Wayne, il che non impedì al giovane ribelle di Hollywood di essere comunque orgoglioso di recitare a fianco di un mito della sua gioventù.


1975 Torna "El Grinta" (Rooster Cogburn)
di Stuart Millar con John Wayne, Katharine Hepburn, Anthony Zerbe, Richard Jordan, John McIntire

Tardo sequel, arrivato a genere ormai agonizzante. E certo film del genere non aiutavano a rivitalizzarlo. Il regista aveva esordito tre anni prima con quello che è considerato un significativo esempio di western crepuscolare, Quando le leggende muoiono, ma purtroppo questa sua seconda prova più che crepuscolare è senile. Il romanzo di Portis non c'entra più nulla, l'unico collegamento è John Wayne che rifà Cogburn. Lo schema è lo stesso della storia originale, con una caccia all'uomo portata avanti da un trio litigioso e mal assortito. Stavolta Cogburn si tira dietro infatti una vecchia zitella e un ragazzino indiano. La Hepburn ribalta le caratteristiche anagrafiche della ragazzina del film precedente, ma ne riprende le caratteristiche caratteriali: petulante, bigotta, moralista, incapace di stare zitta.

Sparite totalmente la blanda crudezza e la vaga ambiguità del film del 1969, è un western come tanti degli ultimi anni di Wayne. Forse persino più noioso. Non fosse per il cinemascope e i meravigliosi paesaggi sembrerebbe il puntatone di un telefilm per pensionati, lento, goffo, verboso, popolato da personaggi grossolani. L'unica novità è che mezzo film è ambientato su una zattera che discende un fiume, tanto che sembra di assistere ad una fiacca parafrasi western de "La Regina d'Africa" di John Huston, sempre con la Hepburn.



È il classico film di cui in genere si loda almeno la prova delle due vecchie glorie in scena. In realtà Wayne, ancora molto vispo pur essendo al suo penultimo film, si limita a riproporre le smorfie del film precedente, riducendo il suo Cogburn ad una macchietta, mentre la Hepburn è alle prese con un personaggio vacuo e irritante. Gli innumerevoli e interminabili scambi di battute tra i due vorrebbero essere brillanti, ma sono sceneggiati come un'accozzaglia di irritanti luoghi comuni e in fin dei conti si finisce per vedere solo due vecchie cariatidi che bisticciano. Ad appesantire il tutto c'è anche l'inevitabile sottofondo romantico tra i due, che toglie ulteriormente sapore e cattiveria al racconto. Il personaggio del ragazzino è poco più che una mascotte, mentre gli avversari si vedono poco e risultano funzionali solo come motore dell'azione.


1978 True Grit: A Further Adventure 
di Richard T. Heffron con Warren Oates, Lisa Pelikan, Lee Meriwether, James Stephens, Jeff Osterhage

Misconosciuto e invisibile film televisivo del 1978. Talmente poco visto che non solo non si riesce a recuperare una recensione seria che lo riguarda, ma neppure una sinossi della trama o un poster. A giudicare dai primi quindici minuti del film che circolano in rete, sembrerebbe trattarsi di un'operina di interesse quasi nullo, dalla trama e dai dialoghi banali, afflitta dalla peggior piattezza televisiva e che rispetto ai due film con Wayne banalizza ulteriormente la materia narrativa originale di Portis. Sequel che si ricollega direttamente al film del 1969, con Cogburn che va ancora in giro per il West con appresso la sempre petulante Mattie Ross (anche qui interpretata da un'attrice troppo adulta, la ventiquattrenne Lisa Pelikan). Tira aria da pilot televisivo di serie C, con i personaggi svuotati dalle loro motivazioni e cristallizzati nei loro stereotipi. Unico probabile e prevedibile motivo di interesse è la presenza di Warren Oates nei panni di Rooster Cogburn, il quale, con la sua barba e grigia e un'aria decisamente più ispida di quella di Wayne, sembra anticipare sotto molti aspetti l'interpretazione del personaggio di Jeff Bridges di 32 anni dopo.


2010 Il grinta (True Grit)
di Ethan e Joel Coen. Con Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Matt Damon, Josh Brolin, Barry Pepper, Domhnall Gleeson, Leon Russom, Paul Rae, Elizabeth Marvel, Ed Corbin, Bruce Green

di Mauro Mihich e Tommaso Sega

Due sono le cose che possono spiazzare lo spettatore, almeno chi ha visto la prima versione e conosce la filmografia dei Coen: l’estrema aderenza alla pellicola originale e la classicità e la linearità della narrazione. Questa nuova trasposizione, infatti, segue quasi passo per passo il film del 1969 con Wayne, ma mentre Henry Hathaway con il suo anonimo mestiere licenziava una fiacca e ingessata favoletta fuori tempo massimo, i Coen con lo stile, la grazia e la poesia che li contraddistinguono ne ricavano uno dei loro capolavori.

Dopo le ultime pellicole in cui deludevano (e deridevano) clamorosamente tutte le aspettative del pubblico era peraltro lecito aspettarsi qualche loro tiro mancino anche alle prese con un genere strutturato e pieno di storia come il western, e invece "Il Grinta" si dimostra il loro film più lineare, misurato e compatto, insieme a Crocevia della morte sicuramente quello che merita maggiormente l’appellativo di “classico”.



I Coen non si attengono alle fantomatiche regole del genere e si approcciano al western senza sbrodolarsi in omaggi cinefili e strizzatine d’occhio o "smitizzazioni" fuori tempo massimo e continuano coerentemente a fare il loro cinema. "Il Grinta" è innanzitutto un film dei Coen, ed è intimamente e magnificamente coeniano dalla prima all’ultima inquadratura, e solo incidentalmente è anche un western: e uno splendido, convincente western.
Se si devono per forza cercare dei modelli più che il western classico o quello crepuscolare i riferimenti vanno proprio cercati piuttosto in certo romanzo di formazione ottocentesco, quello alla Mark Twain per intenderci (l’introvabile Chaney è altrettanto sfuggente e inafferrabile dell’Indiano Joe di Tom Sawyer), che nonostante la levità dei toni nascondeva sempre una morale, spesso molto agra, da scoprire.

Oppure anche ne L’isola del tesoro di Stevenson. Visto che anche qui ci troviamo di fronte ad una storia di formazione al contrario, dove il Male è un maestro di vita quanto il Bene. E ha un bel po’ più di fascino. Qui come là c’è un adolescente precipitato in un mondo di adulti crudeli e canaglieschi, dove il mito dell’avventura deve fare i conti con la crudezza della realtà. Una realtà grigia e buffamente spietata che agli occhi della piccola protagonista si accenderà dei colori della leggenda solo nel delirio del veleno, nobilitando quella che nel 1969 era una delle scene più fiacche del film di Hathaway, con scene di grande poesia e suggestione, come l’abbattimento del cavallo, la bellezza "velenosa" della natura, la lanterna che si accende nella notte.



Se Cogburn è tranquillamente sovrapponibile ad un Long John Silver come figura paterna quantomeno irregolare, Mattie Ross è però molto diversa dagli ingenui sognatori Jim Hawkins e Tom Sawyer. Se nel film del 1969 la ragazzina risultava un personaggio monotono e in fin dei conti antipatico, in questa versione i Coen, a sorpresa, sembrano guardare con ammirazione al carattere stoico con cui la loro giovanissima eroina accetta e si adegua a tutto senza troppi problemi. Irremovibile, petulante, calcolatrice, la ragazzina rappresenta l’America impregnata di cultura puritana, quella convinta che in ogni uomo alberghi il peccato (il cadavere pieno di serpenti) e che tutti prima o poi , in un modo o nell’altro, debbano pagare il prezzo di essere vivi. Quando Mattie sceglie di ingaggiare Cogburn lo fa perché gli viene descritto come una specie di spietato angelo sterminatore e lo preferisce ad un altro sceriffo federale che gli viene descritto come garantista e indulgente. Quasi una scelta religiosa: la ragazzina decide di seguire la filosofia vendicativa dell’Antico Testamento, invece di quella misericordiosa dei Vangeli.



A sorpresa un personaggio tanto duro e conservatore entra nel ristrettissimo elenco dei personaggi dei film dei Coen a cui gli autori guardano con simpatia. Paradossalmente, tramite la sua rigidità morale e il suo integralismo religioso, la ragazzina (poi donna) ha lo stesso sguardo lucido e disincantato dei rarissimi personaggi "positivi" del loro cinema: il cinico Tom Reagan di Crocevia della morte e il saggio e balordo Jeffrey Lebowski de Il grande Lebowski. Ethan Coen in un'intervista del dicembre 2010: "[Mattie Ross] è una rompiscatole, ma c'è qualcosa di profondamente ammirevole in lei nel libro, da cui eravamo attratti [...] compresa l'etica protestante e presbiteriana di cui è così fortemente intrisa una ragazza di 14 anni".

Ma lo sguardo dei Coen è indulgente e persino incredibilmente affettuoso anche verso gli altri protagonisti della storia. E se non è difficile immaginare i motivi per cui gli autori de Il grande Lebowski possono aver provato simpatia per un cialtrone come Cogburn, più strano notare come anche il ranger LeBouef, pur descritto come il classico idiota dei loro film, alla fine non ne esce per nulla male. In un certo modo era molto più "irriverente" verso il romanzo la trasposizione del 1969, in quanto molto più spostata verso i toni della commedia.



Per una volta i Coen non sembrano interessati a dar sfogo al loro spirito iconoclasta, quanto piuttosto intenzionati a mettersi al servizio della storia, accostandosi al romanzo di Portis con il rispetto dovuto ad un testo esemplare. La regia è quindi misurata e composta, per i gusti odierni una scelta stilistica forse ancor più esotica e lontana delle disorientanti ellissi dei loro film precedenti. La personalità dei Coen esce solo nelle scene nel bosco, con la compravendita del cadavere dell’impiccato e l’incontro surreale con il curatore. Forse non a caso sequenze non contenute nel film con Wayne. In generale più che rivisitare il western (quello che più o meno ha avuto la presunzione di fare chiunque negli ultimi trent’anni si sia accostato al genere), sembrano aver voluto girare la versione cinematogarfica che rendesse finalmente giustiza ad un grande romanzo.

Dei personaggi creati dallo scrittore i due fratelli sembrano ammirare il fatto che nessuno si fa troppe illusioni sulla vita o vuole essere diverso da quello che è, nonostante le rispettive fanfaronate. Vengono quindi a mancare le classiche situazioni di scacco esistenziale del loro cinema. Esemplare in questo senso il tristissimo e laconico finale, con quel definitivo "Il tempo fugge" con cui si conclude il film e la canzone che parla di un riposo e una pace che arriveranno solo giacendo in una fossa (da sottolineare la bellezza della soffusa colonna sonora, che rielabora con gusto e raffinatezza melodie dell'epoca). In un cinema non certo facile alla partecipazione come quello dei Coen, il monologo conclusivo, pur filtrato dalla brusca concisione del personaggio, è uno dei momenti più sentiti del recente cinema americano.



Qualcuno ha anche criticato il film per la presunta mancanza dell'ironia cinica dei due fratelli. Ma il loro pessimismo è solo (lievemente) dissimulato dalla simpatia verso i personaggi, perché a ben vedere mettono pur sempre in scena un mondo dominato dal caso e dove nulla ha un senso.

Malgrado l’insolita l’abbondanza di scene solari, infatti, i Coen sembrano trasmetterci l’immagine di un Far West freddo e spettrale, un luogo popolato ormai di ombre - il racconto si apre con una bara di legno caricata su un treno, quella del padre di Mattie, e si chiude nello stesso identico modo, con la cassa di Rooster Cogburn - dove si incontrano impiccati appesi agli alberi e presenze surreali e fantasmatiche (l’indiano che vende cadaveri, l’uomo orso) e dove la violenza è tanto improvvisa quanto spietata e realistica: una frontiera selvaggia e avventurosa che fa da sfondo a un viaggio iniziatico che si conclude con l’epilogo più ineluttabile e toccante visto al cinema negli ultimi anni.

L’attenzione e la serietà con cui i due registi si sono rivolti al genere li si ritrovano nelle scenografie, nei costumi, negli ambienti, nella perfetta ricostruzione storica, nella magnifica fotografia che ritrae i panorami del Texas e del New Mexico come in una vecchia cartolina d’epoca e con i fiocchi di neve che nel finale li fanno trascendere come in una fiaba.



Impeccabile anche la scelta degli interpreti: la giovanissima e straordinaria Hailee Steinfield, indubbiamente la vera e propria protagonista del film, che polverizza la dimenticata Kim Darby e finalmente dona al personaggio il volto e l'età giusta, l'ottimo Matt Damon, in un ruolo più sfumato di quello che può apparire, e John Brolin, torvo e perfetto come cattivo, vengono attorniati da una galleria di caratteristi lombrosiani che sono la facce più stralunate, sghembe e strampalate mai apparse su un film dei Coen.

Discorso a parte per Jeff Bridges, che conferma di essere il più grande attore della sua generazione, incenerendo addirittura John Wayne. La natura "riparatrice" verso lo spirito del romanzo della versione dei Coen si riflette anche nel confronto tra le due prove attoriali, con Bridges che interpreta un Cogburn per certi versi più personaggio alla John Wayne di quello interpretato da John Wayne stesso. Il Cogburn del 2010 è sì il solito cialtrone, alcolizzato e barcollante, ma non diventa mai un’ innocua e simpatica macchietta, mantenendo fino alla fine un sottofondo minaccioso e persino inquietante.



Insipido il doppiaggio italiano, che soprattutto annulla il grande lavoro sul linguaggio fatto dai Coen, che in originale hanno dato vita ad un West dove si parla uno strambo linguaggio aulico, pieno di detti, figure retoriche e citazioni bibliche, reso solo in minima parte dalla mediocre traduzione italiana, che per contro si inventa persino parecchie battute e ne travisa altrettante.

3 commenti:

  1. Il libro è molto bello e i Cohen sono più fedeli e il loro film è forse più bello di quello di Hathaway ma resto comunque più affezionato all'originale.

    Andrea

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  2. Bellissima scheda e ottima analisi in particolare del film dei Coen.
    Devo dire di non avere un buon ricordo del film di Hathaway, una commedia senile senza particolari guizzi che neanche l'interpretazione in verità parecchio sopra le righe di Wayne riesce a nobilitare (ben diversa la prova che l'attore offrirà qualche anno dopo sul set de il Pistolero, questa si effetivamente meritevole di Oscar)
    Per quanto riguarda invece film dei Coen, a mio parere si tratta di un capolavoro e con buona pace di Tarantino e del suo Django forse il miglior western dai tempi di Unforgiven.

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  3. Complimentissimi per le analisi, tutte molto accurate!
    Confesso di non aver mai visto il "vero" Grinta, ma quello dei Cohen è uno dei film migliori del 2010, un vero capolavoro anche per chi non bazzica il genere western come me.

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