mercoledì 29 maggio 2013

El juez de la soga / The hanging judge



1973 EL JUEZ DE LA SOGA / THE HANGING JUDGE
di Alberto Mariscal, con Hugo Stiglitz, Milton Rodriguez, Narciso Busquets, Cristina Moreno, Bruno Rey, Rafael Baledon, Norma Lazareno

Proseguiamo la nostra rassegna sul western messicano, o chili-western, con quest’altra pellicola del prolifico Alberto Mariscal, uno dei registi più rappresentativi del filone (tra gli altri specialisti ricordiamo René Cardona e Raul De Anda Jr), almeno per quanto riguarda gli anni sessanta e settanta, quando da genere sentimentale e melodrammatico si trasformò in qualcosa di surreale, nero e violento, ispirato parte agli spaghetti western nostrani, per le figure archetipiche di giustizieri taciturni e nerovestiti, e parte a Sam Peckinpah, per l’estetica sanguinaria e soluzioni di regia come i ralenti e il montaggio non lineare.

Il film a cui si ispira più direttamente questo El juez de la soga (letteralmente "il giudice della corda") è però L’uomo dai sette capestri di John Huston, dell’anno precedente, uscito nei paesi ispanici con il titolo El juez de la horca (cioè "il giudice della forca"), che narrava in chiave brillante e romanzata le gesta del giudice Roy Bean, passato (sembra erroneamente) alla storia come “la legge a ovest del Pecos” per le sue esecuzioni spicce e sommarie.
La versione di Mariscal è però decisamente più cupa e malata di quella di Huston, e il protagonista della pellicola non è giudice ma un pistolero solitario con un look da becchino autoproclamatosi giustiziere che punisce le malefatte compiute nel Far West impiccando senza processo i responsabili.



Il West di Mariscal è, al solito, una frontiera apocalittica e ultraviolenta e la scena con cui si apre il film ne è esemplificativa: tre fuorilegge assaltano una fattoria isolata, uccidono l'anziano capofamiglia, violentano la figlia e crivellano a colpi di pistola un bambino di cinque anni. Un pugno allo stomaco dello spettatore che chiarisce fin dall’inizio il tono del film.
A questo punto, consci di averla combinata grossa, i tre assassini si separano e se ne vanno ognuno in una direzione diversa: uno va a far festa in un bordello, l'altro diventa non si sa come sceriffo e l'ultimo diviene padrone di un grosso ranch dopo averne ammazzato il legittimo proprietario. Inutile dire che uno dopo l’altro i tre verranno però raggiunti e giustiziati senza pietà dall’implacabile “giudice della corda”.
Come si vede il soggetto del film è del tutto minimale. Quello che interessa al regista sono soprattutto le modalità di esecuzione delle condanne: particolarmente fantasiosa la seconda, con il malcapitato sepolto vivo fino alla testa e lasciato alla mercé di scorpioni velenosi.
Come negli altri western di Mariscal non manca nemmeno il sottotesto matriarcale, tramite dei continui flashback in cui il protagonista viene perseguitato della madre, che lo ammonisce sulle terribili conseguenze del farsi giustizia da sé.



Mariscal dimostra comunque anche in questa pellicola, forse meno eccessiva e delirante di altre, di possedere un suo quid personale e l’ultima immagine del film, che ovviamente non riveliamo, mette in discussione tutto quanto visto in precedenza ed eleva dalla banalità un soggetto forse eccessivamente esile.

Tra le cose migliori del film va annoverata senza dubbio la magnifica interpretazione del grande attore messicano Hugo Stiglitz, che ha lavorato anche negli Stati Uniti (ad esempio in Sotto il vulcano) e in Italia (soprattutto in film di genere come Tintorera e Incubo sulla città contaminata): se il suo nome vi ricorda qualcosa è perché Quentin Tarantino ha chiamato così uno dei personaggi del suo film Bastardi senza gloria in omaggio all’attore messicano.

venerdì 17 maggio 2013

Io sono Valdez


1971 IO SONO VALDEZ (VALDEZ IS COMING)
di Edwin Sherin, con Burt Lancaster, Susan Clark, Richard Jordan, Jon Cypher, Hector Elizondo, Frank Silvera

Bob Valdez, un vice-sceriffo messicano bonaccione e un po’ ottuso, si mette in testa di risarcire la vedova indiana di un ex-soldato di colore da lui ucciso per legittima difesa dietro errata segnalazione del Signor Tanner, un ricco trafficante della zona, che lo aveva indicato come assassino e disertore. Viene prima preso in giro, poi minacciato e infine crocifisso a una croce di legno e abbandonato nel deserto. Salvatosi per miracolo imbraccia le armi e ritorna da Tanner per chiedere i soldi, e per convincerlo a pagare rapisce la sua donna. Ha inizio quindi la caccia a un Valdez che nessuno conosceva, con un passato di scout e cacciatore di apaches tra i più pericolosi e sanguinari...

Elmore Leonard è uno scrittore che, a seconda delle opinioni, viene considerato alternativamente uno dei più grandi autori americani contemporanei oppure solo un mestierante abile nel dare al pubblico emozioni forti a buon mercato. Senza volerci addentrare nella questione ci limitiamo a constatare come buona parte dei suoi più di cinquanta romanzi sia stata adattata per il cinema, rendendolo di fatto uno dei romanzieri più saccheggiati di sempre dalla settima arte (in questa classifica Stephen King resta probabilmente inavvicinabile).
Il momento di maggior gloria cinematografica Leonard lo ha probabilmente vissuto all’inizio degli anni novanta, quando dopo la trasposizione da parte del (solito) Quentin Tarantino del suo romanzo Rum Punch nel film Jackie Brown c’è stato un rinnovato interesse per la sua narrativa da parte della nuova corrente cinematografica pulp-noir, che portò alla realizzazione di film come Out of Sight, Get Shorty e Be Cool. I thriller dell'autore erano comunque stati oggetto di riduzione cinematografica già fin dagli anni settanta (con titoli come Io sono perversa, I contrabbandieri degli anni ruggenti, A muso duro, Scherzare col fuoco, 52 gioca o muori, Oltre ogni rischio...).

Quello che non tutti sanno è che anche se è divenuto famoso come scrittore di crime novels Elmore Leonard nasce come autore western, genere a cui si è dedicato ininterrottamente dal suo primo romanzo degli anni cinquanta fino agli anni settanta, prima che il genere cominciasse a declinare anche nella narrativa. E anche in questa sua meno conosciuta veste gli adattamenti per il grande schermo si sprecano, e non certo in film di poco conto: I tre banditi, Quel treno per Yuma, Hombre, Joe Kidd...
Esemplificativo del successo di Leonard come narratore western e di quanto i suoi lavori venissero tenuti in considerazione dall’industria cinematografica è il romanzo Arriva Valdez del 1970 (pubblicato in Italia nella benemerita collana dei tascabili western della Longanesi), tratto da un suo precedente racconto (pubblicato da Einaudi nella raccolta Tutti i racconti western), che venne trasposto in pellicola già l’anno immediatamente successivo alla sua pubblicazione.



Calato in piena estetica crepuscolare il film Io sono Valdez (il titolo italiano perde tutto il significato minaccioso dell’originale) è uno dei numerosi western americani girati in Spagna negli anni settanta e segue molto fedelmente, replicandone scene e dialoghi spesso parola per parola, il racconto d’origine, permettendosi solo qualche minima variazione, come quella di eliminare la love story tra il protagonista e la donna da lui rapita – non a caso la parte più debole del romanzo – e modificando parzialmente il finale, che nella pellicola si chiude, con un anticlimax tipico del periodo, in un fermo-immagine che nega allo spettatore il duello conclusivo, commentato solo dalla voce-off del protagonista (da verificare però in lingua originale, perché negli anni settanta i finali di vari western vennero arbitrariamente modificati perché poco ortodossi, vedi Costretto ad uccidere o Lo straniero senza nome).



Si tratta di un western robusto e brutalmente efficace – del resto con un soggetto talmente convincente e strutturato era difficile realizzare un brutto film – anche se la regia del debuttante Edwin Sherin, pur diligente e onesta, non brilla per inventiva e il film non riesce ad elevarsi dallo status di dirty western di serie B, seguendo una traiettoria piuttosto semplice di causa-effetto basata sulla caccia all’uomo (cosa comune a molti altri western dei seventies) e sulla ribellione della persona mite e in apparenza inoffensiva (tematica allora in auge grazie a film come Cane di paglia), nonostante le velleità di partenza fossero probabilmente ben altre, visto che il regista inizialmente incaricato del progetto era addirittura Sidney Pollack.
Nel ruolo di Valdez, inoltre, era inizialmente previsto Marlon Brando mentre Burt Lancaster doveva limitarsi ad interpretare l’antagonista. Dopo il rinvio del film a causa delle riprese di Airport Lancaster, che era anche il coproduttore della pellicola, decise di riservare per sé il ruolo del protagonista e di chiamare, del tutto a sorpresa, come regista Sherin, un autore teatrale di Broadway famoso al tempo per aver portato al successo la pièce di Per salire più in basso (la cui versione cinematografica venne curiosamente diretta in Almeria nello stesso periodo da Martin Ritt) e che al cinema non farà poi più nulla.



Oltre che per la storia e i dialoghi asciutti ed efficaci Burt Lancaster in una delle ultime interpretazioni di una straordinaria carriera western è un’altra delle ragioni per vedere il film: con lo stesso look con i baffi di Nessuna pietà per Ulzana dell’anno successivo dà vita a un’interpretazione memorabile e, nonostante la statura e gli occhi azzurri lo rendano poco credibile come messicano, è convincente sia nell’iniziale incarnazione bonaria e remissiva di Valdez che in quella spietata e sanguinaria successiva, dimostrando di essere un magnifico attore western anche nei ruoli laconici ed essenziali della maturità come nelle sue esuberanti interpretazioni giovanili (basti ricordarlo in Vera Cruz).

Anche il resto del cast, pur non contando su grandi nomi, è decisamente all'altezza: i bravi caratteristi Jon Cypher e Richard Jordan, al loro primo film, Frank Silvera nella sua invece ultima interpretazione e la bella Susan Clark nel ruolo della donna rapita, che consente al regista di spingere un po’ sui tasti del lato exploitation del film, come sottolineato dalla stampa dell’epoca.

mercoledì 15 maggio 2013

i film - Lo voglio morto

1967 LO VOGLIO MORTO 
di Paolo Bianchini. Con Craig Hill, Lea Massari, José Manuel Martin, Andrea Bosic, Licia Calderón, Rick Boyd, Frank Braña.


Sud degli Stati Uniti: Clayton (C. Hill) è un cow-boy come tanti, deciso dopo parecchi anni di duro lavoro a comprarsi un terreno e una casa da condividere con la giovane sorella (C. Businari). Tutto sembrerebbe andare per il verso giusto, ma giunto in città scopre che a causa della guerra civile i dollari sudisti hanno subito una portentosa svalutazione; come non bastasse, durante una sua breve assenza, la sorella viene violentata e uccisa da una coppia di banditi. Senza piú nulla da perdere, Clayton si mette sulle tracce degli assassini - uno dei quali ha imprevidentemente dimenticato nella stanza un sacchetto di tabacco personalizzato -, in realtà membri di una grossa banda al servizio di un potente commerciante d'armi (A. Bosic) interessato a protrarre quanto piú possibile il conflitto in vista di ingenti guadagni personali. La faccenda si complica, ma dopo innumerevoli sofferenze e molto sangue sparso Clayton troverà anche il vero amore.

Paolo Bianchini (1931), tuttora molto attivo nell'ambito della fiction televisiva, è stato per anni uno dei registi pubblicitari piú prolifici d'Italia. Come molti suoi colleghi dell'epoca, si era fatto le ossa come assistente di gente importante come Monicelli, Comencini, Vittorio De Sica, Leone ed aveva poi esordito come autore in proprio a metà degli anni '60, nel campo del cinema di genere. Inevitabile quindi il suo incontro con il western: ne dirigerà quattro nel giro di tre anni, alcuni dei quali considerati dei veri e propri cult-movies grazie alle ormai proverbiali pronunciazioni dell'imprevedibile Tarantino. Lo voglio morto, nello specifico, è reputato una «gemma del genere» da noti esperti del settore come Tom Betts e Alex Cox. È, in effetti, un piccolo film girato con uno stile personale e consapevole. Forse proprio per la sua citata esperienza nel campo della pubblicità, Bianchini si diverte ad inserirci un'abbondanza di primi e primissimi piani, dettagli ingranditi, stacchi ad effetto; emblematica la sequenza inizale - pare fortemente voluta dai produttori, che lamentavano un numero di morti troppo esiguo -, tutta costruita tramite un montaggio frammentato e velocissimo, in cui vediamo Craig Hill sventare un agguato ai suoi danni grazie al riflesso di un'arma colto nella tazza del caffé.

L'intera pellicola, a dirla tutta, regge soltanto per il lavoro di Bianchini e del direttore della fotografia Ricardo Andreu. Oltre alla ricercatezza stilistica si coglie l'insistenza che il regista, all'epoca militante comunista, mette nel condannare la violenza perpetrata dai fuorilegge sulle donne - con le bellissime Lea Massari e Licia Calderón costrette a subire ogni tipo di sopraffazione -, cosí come il furore di alcune impennate pacifiste - la sequenza della fucilazione del soldato nordista - e anticapitaliste - l'ironia moralista del finale. Per il resto la sceneggiatura è un'accozzaglia di incongruenze e forzature e il cast, nonostante la presenza di ghigne note come José Martin e Frank Braña, è debole e poco carismatico. La faccia rigida di Craig Hill, perfetta per personaggi freddi e amorali come il Lanky Fellow di Per il gusto di uccidere, risulta invece inadeguata per un ruolo che dovrebbe teoricamente includere una certa dose di partecipazione e emotività; molto meglio Lea Massari, cui spetta la parte in qualche modo piú complessa e sfaccettata del copione. Curiosa infine la comparsata-lampo - giusto il tempo di morire - della neo-miss Italia dell'epoca Cristina Businari, peraltro clamorosamente inespressiva.

In definitiva, un piccolo western stilisticamente curato e originale, affossato da un plot insufficiente e da interpretazioni quasi mai all'altezza. Interessante, non indispensabile.


Paolo A. D'Andrea

martedì 14 maggio 2013

TV - Lonesome Dove



1989 LONESOME DOVE (miniserie in 4 episodi)
di Simon Wincer con Robert Duvall, Tommy Lee Jones, Danny Glover, Diane Lane, Robert Urich, Frederic Forrest, D.B. Sweeney, Ricky Schroder, Anjelica Huston, Chris Cooper, Timothy Scott, Glenne Headly, Barry Corbin, William Sanderson, Barry Tubb, Gavan O'Herlihy, Steve Buscem

Due ex ranger in pensione vivono alla giornata nella piccola paese di Lonesome Dove, in Texas. Allettatati dalle chiacchiere di un loro amico e collega decidono di tentare la fortuna andando a fare gli allevatori in Montana. Dopo aver rubato una mandria di cavalli in Messico partono per il lungo viaggio, attorniati da un folto gruppo di personaggi. Ne incontreranno altri ancora sul loro cammino. Si scontreranno con gli indiani, con un sadico mezzosangue, con la natura e il territorio, vedranno un amico diventare un fuorilegge e uno di loro tornerà a Lonesome Dove solo in una bara.

Fluviale miniserie TV in quattro episodi da un'ora e mezza l'uno trasmessi in America dal 5 al 8 febbraio del 1989, ottennendo un enorme successo sia a livello di audience che di critica, tanto che ancora oggi è al centro di un esteso e acceso culto. Un successo che ha dato il via ad una lunghissima serie di adattamenti televisivi delle opere del romanziere Larry McMurtry, che vedono il passaggio da una storia all'altra di alcuni personaggi ricorrenti. In Italia è relativamente noto solo il telefilm degli anni 90, arrivato da noi con il titolo "Colomba solitaria" (assurda traduzione letterale, trattandosi del nome di un paese), che racconta vicende successive a quelle di questa miniserie. Ma in generale è tutto l'universo delle miniserie western della TV americana ad essere un fenomeno quasi totalmente sconosciuto da noi. Eppure è grazie a queste se negli ultimi trent'anni il genere ha significato ancora qualcosa nel suo paese d'origine. Certo molto più che per merito del cinema.



Fama meritatissima quella di "Lonesome Dove" opera appassionante e di enorme fascino. A tutti gli effetti si tratta di un film di 6 ore, una monumentale ballata dove si compie il destino sempre malinconico, spesso tragico, di tutta una serie di personaggi i cui percorsi si incrociano e intrecciano in un West smisurato e spietato. Il suo fascino maggiore sta nell'essere allo stesso tempo una celebrazione dello spirito del pioniere americano e la negazione della retorica con cui convenzionalmente lo si celebra. Tutti i personaggi del film affrontano con stoico coraggio tutto ciò che il destino sembra riservargli e vanno dritti per la loro strada, giusta o sbagliata che sia, accettando di pagare qualsiasi prezzo per le loro scelte. Ma questa ammirata visione dello spirito americano sembra valere solo a livello individuale, perché tutto appare troppo governato dal caso o da un destino indecifrabile per poter diventare retorica storica. Significativo che a dare il titolo a tutta la vicenda sia un desolato villaggio destinato ad essere abbandonato e dimenticato. Quando nel finale il personaggio di Tommy Lee Jones vi fa ritorno, e si rende conto di aver assistito alla fine del suo mondo, ad un giornalista che tenta di intervistarlo cercando di attribuirgli una grande visione legata al progresso sociale risponde tristemente "Yes, a hell of vision", ripensando a tutti i morti e agli amici perduti.

Le vicende si intrecciano e divergono apparentemente senza seguire una vera trama. La casualità degli avvenimenti a livello spettacolare si traduce in un'efficace imprevedibilità narrativa, che nega qualsiasi catarsi e non fa mai montare gli eventi in modo convenzionale. Personaggi che sembrano dover avere un ruolo importante negli sviluppi della trama muoiono in maniera improvvisa e crudele. Il destino di altri resta in sospeso. Per quanto più annunciate, anche le morti dei protagonisti riescono a sembrare accidentali e "ingiuste". Se alla fine si stabilisce l'esistenza di una sorta di armonia, questa è ottenuta attraverso l'azzeramento della morte, che colpisce innocenti e malvagi con la medesima indifferenza.



Difficile rendere giustizia della folla di personaggi che popola e rende viva la saga senza diventare didascalici compilando un lungo e sterile elenco, dato che ci sono personaggi memorabili anche tra i caratteri minori. Come un cuoco saggio e ecologista che rifiuta di cavalcare per rispetto degli animali, un trapper ritardato innamorato senza speranze, una coppia di assassini più scalognati che letali, il padrone di un saloon suicida per amore, una vispa contadinotta che vuole scappare dal marito cariatide. E così via, in una parata all'insegna per lo più dei desideri incompiuti e dei destini spezzati.
  
Limitandoci ai protagonisti, non si può che cominciare citando un gigantesco Robert Duvall, che è Gus McCrae, un cowboy filosfo il cui fatalismo sorridente è un misto inestricabile di sensibilità e cinismo. È il vero protagonista e a lui vanno le parti più coinvolgenti e avventurose della storia. Indimenticabili i suoi duetti con l'amico caratterialmente suo esatto contrario, l'inflessibile e introverso Capitano Woodrow Call di Tommy Lee Jones, le cui decisioni sono il motore di tutta la vicenda, ma di cui in fondo resterà quasi più un testimone. A lui va però l'ultima mezz'ora della storia quando dovrà rispettare fino in fondo la più malinconica delle promesse.

Loro principali compagni di viaggio sono Danny "Arma letale" Glover nei panni di un sensibile e pacifico scout nero, Robert Urich che interpreta l'amico debosciato che trasformatosi in fuorilegge finirà impiccato proprio per mano dei suoi amici, Ricky Schroder, l'ex bambino della sitcom "Il mio amico Ricky", fa un cowboy che è il figlio non riconosciuto di Tommy Lee Jones (il personaggio interpretato da Scott Bairstow sarà poi il protagonista del telefilm del 1994), Chris Cooper nella sommessa parte di un povero sceriffo sulle tracce della moglie che lo ha abbandonato. Tra i personaggi negativi spicca l'inquietante mezzosangue Blue Duck, interpretato da Frederic Forrest, autentica forza della natura dedita solo al male altrui.

Straordinariamente complesso e ricco per un western anche il reparto femminile. Diane Lane, nel miglior ruolo della sua carriera, è una bellissima e dolce prostituta di cui praticamente tutti sono innamorati (e davvero non potrebbe essere altrimenti). Anjelica Huston è una ex fiamma di  Robert Duvall che accudisce il marito morente, materno angelo del focolare il cui ranch pare essere l'unico luogo dove i personaggi posso trovare un po' di serenità. Infine Glenne Headly è la moglie in fuga dello sceriffo, anti-eroina dell'amour fou alla ricerca dell'amante che l'ha abbandonata e pronta a sacrificare tutto per lui, anche un figlio neonato e la sua stessa vita.



Se i quattro episodi formano un'unica storia, i singoli capitoli hanno comunque una certa autonomia stilistica e tematica. Il primo Leaving (Partenza) descrive la vita indolente a Lonesome Dove prima della partenza. Il distacco dal paese assume toni quasi biblici, con tanto di eventi enigmatici, come fulmini che elettrificano la mandria e grovigli di serpenti che uccidono un cowboy nel fiume. È la parte che più ricorda i due capolavori degli anni 60 tratti da due opere di Larry McMurtry, Hud il selvaggio di Martin Ritt e L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich. Il secondo On the Trail (Sulla pista) è il capitolo più violento e drammatico, che si conclude con un autentico pugno nello stomaco per lo spettatore. Il terzo The Plains (Le pianure) è il capitolo più psicologico, dove sono più in evidenza i personaggi femminili e dove la maggior parte dei nodi narrativi giungono al pettine, sempre con conseguenze piuttosto amare. Il quarto Return (Ritorno) è il lungo epilogo crepuscolare per tutti i personaggi ancora in scena, con i momenti più toccanti e memorabili della saga. Impossibile non commuoversi a più riprese, anche se ogni tanto gli autori perdono un po' la misura e la ricerca della commozione è fin troppo smaccata.

Una sostanza tanto americana è diretta da un australiano, Simon Wincer, che in seguito tornerà più volte al western, con risultati quasi sempre interessanti. Qui amministra con mano solida una pregevole confezione televisiva, con nulla da invidiare al cinema, a parte qualche effetto speciale un po' alla buona. Molto bella anche la colonna sonora del grande Basil Poledouris.

sabato 11 maggio 2013

i film - Vecchia volpe



1982 VECCHIA VOLPE (The Grey Fox)
di Phillip Borsos con Richard Farnsworth, Jackie Burroughs, Ken Pogue, Wayne Robson, Timothy Webber, Gary Reineke, David Petersen, Don MacKay, Samantha Langevin, Tom Heaton

Tratto da una storia vera. Bill Miner, rapinatore di diligenze noto come "Il bandito gentiluomo", viene rilasciato ormai anziano nel 1901 dopo 33 anni di carcere. Cerca di rifarsi una vita con la famiglia della sorella, ma senza riuscire ad adattarsi ad una realtà troppo cambiata. Trasferitosi in Canada torna a fare l'unica cosa che sa fare bene: il rapinatore. Anche se non più di diligenze, ma di treni.

Titolo canadese, crepuscolare all'ennesima potenza, uscito e disperso nel periodo più buio per il western, quando l'ancora fresco disastro de I cancelli del cielo aveva reso il genere il nemico pubblico numero uno di tutti i produttori e distributori. E se questo era vero per ogni tipo di western lo era ancora di più per una pellicola come questa, la cui radicalità nel rifiutare qualsiasi concessione al mito ricorda proprio quella del film di Cimino. Intendiamoci, sono due film totalmente diversi, tanto furioso, stordente e romanticamente disperato è I cancelli del cielo, tanto dimesso, laconico e sottotono è questo. Si assomigliano molto però a livello estetico, con la messa in scena "eretica" di un West iperrealistico, irriconoscibile a livello iconografico. I personaggi non indossano i tradizionali cappelli Stetson, giacche di pelle e bandane, ma dei più attendibili borsalini, giacche di fustagno e colletti inamidati. Dettagli stranianti per quanto paradossalmente realistici sono anche il continuo mostrare oggetti meccanici di uso comune, vedere il protagonista che lavora in una fabbrica o che ascolta un'aria d'opera con un grammofono.



Il film è ambientato ai primi del 900, in un Canada uggioso e autunnale, quando l'epopea del West era finita da un pezzo, ma l'aria che si respira nel film lascia intendere che quell'epopea non è neanche mai esistita o che comunque era stata qualcosa di molto diverso da quanto poi idealizzato. In una delle prime sequenze il protagonista va a vedere al cinema La grande rapina al treno di Edwin S. Porter, il film del 1903 che convenzionalmente viene considerato il primo film western della storia. Beffardamente proprio da quella visione prenderà spunto per riprendere la sua carriera criminale, ma la goffa e crudele realtà delle rapine di cui sarà protagonista cozzerà con la pur ingenua spettacolarità del film.

Le rare sequenze di violenza sono quanto di più anti-spettacolare e disadorno si possa immaginare. Tutto appare casuale e viene raccontato con uno stile freddo e compassato. Ad esempio, in un'improvvisa divagazione della trama il protagonista accompagna un suo amico sceriffo nella caccia di un uomo che in un momento di follia ha sterminato la sua famiglia: lo ritroveranno banalmente morto congelato su un filo spinato. Questa mancanza di ogni potenziale catarsi, sommata alla rinuncia di ogni giudizio morale sui personaggi, crea una sorta di tensione sotterranea che attraversa l'intero film e trasmette la sensazione di una violenza che, anche se non esplode mai, è comunque sempre presente e permea i rapporti tra tutti i personaggi.



Motore e anima del film è l'interpretazione di Richard Farnsworth, nei panni di un personaggio ambiguo e indefinibile. Grandissimo caratterista Farnsworth è stato protagonista assoluto solo in due occasioni, in questa e nel suo ultimo film "Una storia vera", lo struggente capolavoro di Lynch del 1999. In questo caso mette la sua faccia da volpe saggia al servizio di un personaggio simpaticamente amorale, criminale più per carattere e mancanza di voglia di lavorare che per avidità, non però privo di lati oscuri, visto che comunque le sue azioni provocano delle vittime e quando serve sa essere duro verso i suoi complici. Bello il suo rapporto con una sgraziata ma vispa zitella, interpretata da un'altra caratterista dalla filmografia chilometrica, Jackie Burroughs.

Sono questi due magnifici attori e tutto l'azzeccato cast di contorno a dare il giusto tocco di calore e umanità ad un film che avrebbe rischiato di restare vittima del suo stesso rigore antispettacolare e cronachistico.

giovedì 9 maggio 2013

i film - Correva nel vento (Windwalker)



1981 CORREVA NEL VENTO (WINDWALKER)
di Kieth Merrill con Trevor Howard, Billy Drago, Nick Ramus, Serene Hedin, Dusty McCrea, Silvana Gallardo, Emerson John, Jason Stevens, Roberta Deherrera, Ivan Naranjo

Prima di lasciare questo mondo, anzi dopo averlo lasciato e essere ritornato, l'anziano guerriero cheyenne Windwalker (Trevor Howard, uguale a Cavallo Zoppo, lo stregone indiano mentore di Magico Vento) deve difendere la propria famiglia da una banda di predoni crow. Il destino o il Grande Spirito hanno in serbo per lui un altro strano scherzo, visto che uno degli avversari è il figlio che gli era stato rapito quando era giovane (ed era interpretato dal quasi irriconoscibile "guerriero della notte" James Remar).

Tratto da un romanzo di Blaine Yorgason è il caso raro di un film con gli indiani senza ombra di uomo bianco (parliamo di personaggi, visto che gli attori sono i soliti bianchi truccati). Nella seconda metà degli anni 70 c'era stato qualche tentativo di riavvicinare il pubblico più giovane al declinante western recuperando gli scenari più selvaggi del genere, raccontando magari di trapper e indiani liberi piuttosto che di cowboy e indiani scappati dalle riserve. Questo film si inseriva un po' in quel filone, ma a modo suo.

È infatti probabilmente l'unico serio tentativo di agganciare il western ad un certo tipo di immaginario fantastico che allora spopolava. A parte qualche visione misticheggiante e l'idea del protagonista che torna in vita (senza nessuna spiegazione), non ci sono veri elementi fantastici nella trama, ma il film è sostanzialmente girato come fosse un fantasy, con gli indiani che potrebbero essere gli abitanti di un qualche pianeta selvaggio dell'universo di "Guerre stellari". La straordinaria fotografia si rifà palesemente alla illustrazioni fantasy, tanto che visivamente il film a cui è più facile accostarlo è "Excalibur" di Boorman. A tratti la voglia di creare belle immagini prende la mano agli autori che finiscono nel patinato, ma il fascino gelido dei paesaggi innevati e la dura lotta per la sopravvivenza che viene messa in scena donano all'insieme un tono di sana crudeltà.



Non è di sicuro un film che spettacolarizza o vuole fare della facile epica sulla vita degli indiani, nonostante il tocchi fiabeschi del racconto. La storia è scarna e sottotono, il ritmo è lento, l'atmosfera malinconica, i personaggi vengono tutti mostrati come fragili e umani, le scene di lotta e gli scontri trasmettono più che altro un senso di confusione e disperazione. Inoltre, anni prima di Balla coi lupi, ci sono molte scene recitate in lingua indiana con i sottotitoli. Tutte caratteristiche che la rendono una pellicola affascinante e particolare, ma un po' troppo aspra se l'intenzione era quella di intercettare il pubblico che in quel periodo affollava le sale per vedere "L'impero colpisce ancora".

Sembra una fiaba girata con occhio antropologico. Non a caso il regista Kieth Merrill è un apprezzato documentarista, non nuovo per altro alle tematiche riguardanti il vecchio West, visto che nel 1973 aveva vinto un oscar con un documentario sul rodeo "The Great American Cowboy". Il suo primo film di finzione nel 1977 fu Three Warriors, un film per ragazzi a sfondo educativo con diversi punti di contatto con "Windwalker", che vede come protagonista un ragazzo nativo americano alla scoperta delle sue origini grazie al rapporto con suo nonno e un cavallo. Contemporaneamente all'uscita di "Windwalker", nel novembre del 1981 in tv venne trasmesso un suo adattamento di un romanzo di Louis L'Amour, The Cherokee Trail un altro western atipico, raccontato dal punto di vista di una ragazzina.



All'epoca il film non ottenne alcun successo, anche perché ebbe la micidiale sfortuna di essere il primo western (o pseudo tale) uscito dopo I cancelli del Cielo di Cimino, il cui colossale disastro commerciale decretò praticamente la messa al bando per quasi un decennio di tutto il genere. Distribuito in America all'inizio del 1981 venne quasi subito ritirato dalla circolazione per poi venir distribuito con poca convinzione nel resto del mondo negli anni successivi.

Almeno in Italia qualche sporadico passaggio televisivo, in qualche pomeriggio degli anni 80, gli ha donato quell'alone vagamente misterioso e "segreto" che hanno i film visti da pochi e ricordati in modo vago e frammentario anche da quei pochi. Comunque restando al cinema di quegli anni più da accostare a film come "Dark Crystal" o "Il drago del lago di fuoco" che non ai classici western.

martedì 7 maggio 2013

i film - Testa o croce



1969 TESTA O CROCE
di Piero Pierotti, con John Ericson, Sheyla Rosin, Daniela Surina, Edwige Fenech, Franco Lantieri, Isarco Ravaioli, Silvana Bacci, Antoinetta Fiorita, Dada Gallotti, Loris Gizzi, Ugo Pagliai

La prostituta Shanda Lee, ingiustamente accusata di omicidio, viene scortata per il processo in una vicina città dagli uomini dello sceriffo, che però durante il tragitto la violentano e la abbandonano nel deserto. Viene salvata dal pistolero vagabondo Black Talisman che, innamoratosi di lei, decide di vendicarne lo stupro e scoprire il vero colpevole del delitto di cui è accusata.

Nel Dizionario dei Western all’italiana di Marco Giusti viene definito un “piccolo western tutto sesso e violenza”. Insomma… di sesso non ce n’è molto e di violenza ancora meno. In compenso il film è davvero “piccolo”, dato che è girato con una terribile povertà di mezzi nella pineta intorno a Tirrenia, in Toscana. Però si tratta di un film a suo modo davvero curioso e interessante, poiché del tutto anomalo all’interno del genere, visto che sposa un inedito punto di vista femminile, è interamente percorso da una insistita vena erotico-morbosa e ha un’atmosfera tragica e priva di speranza, che lo fa assomigliare più a certe pellicole della fine del filone come Una donna chiamata apache che non agli spaghetti western suoi coevi.



Il regista Piero Pierotti (1912-1970), specializzato in film avventurosi a basso costo e al suo unico western (genere che aveva in precedenza affrontato marginalmente con un film di Zorro e con il folle Sansone e il tesoro degli Incas, un peplum traformato in western in corso di lavorazione per sfruttare il successo di Per un pugno di dollari), autore anche del soggetto e della sceneggiatura, dimostra inoltre di avere alcune buone idee e, nonostante certi dialoghi siano alquanto deliranti e talune scene piuttosto rozze, tutto sommato il suo film ha una sua forza narrativa, con un ammirevole tentativo di approfondimento psicologico dei personaggi, che sono tutti variamente pervertiti, tranne il protagonista, mentre le donne vengono indistintamente picchiate, brutalizzate, stuprate e finanche arse vive.

E’ piuttosto efficace anche l’attore protagonista, l’americano John Ericson (che pare sia intervenuto di persona per completare il budget necessario a terminare la lavorazione del film), nel ruolo del fuorilegge dall’assurdo nome di Black Talisman ed è notevole anche il finale in cui si lascia volutamente uccidere dagli uomini dello sceriffo per fare intascare alla donna di cui si è innamorato la taglia che pende sulla sua testa.



Il film è di un certo “culto” tra gli appassionati anche per la presenza di una giovanissima e spettacolare Edwige Fenech, in uno dei suoi primissimi ruoli, che interpreta una prostituta messicana che viene denudata e fustigata nella pubblica piazza prima di essere ricoperta di pece e piume, in una scena che probabilmente farà la gioia degli amanti del sadomaso.



Ma tutto il folto comparto femminile del film è degno di nota, da Sheyla Rosin nel ruolo della protagonista Shanda Lee a Daniela Surina in quello della perversa e masochista dark lady, da Dada Gallotti come ballerina di saloon a Silvana Bacci come improbabile indiana.
Non male nemmeno la colonna sonora di Carlo Savina.

Da riscoprire.

lunedì 6 maggio 2013

i film - Quanto costa morire



1968 QUANTO COSTA MORIRE
di Sergio Merolle con Andrea Giordana, John Ireland, Bruno Corazzari, Raymond Pellegrin, Sergio Scarchilli, Claudio Scarchilli, Giovanni Petrucci, Fulvio Pellegrino, Mireille Granelli, Ruggero Cressa, Betsy Bell, Giuseppe Altamura 

Bloccati dalla neve, degli spietati ladri di bestiame cercano rifugio in un piccolo villaggio, dove non tardano a rivelare la loro natura. Lasciato praticamente da solo dai suoi compaesani lo sceriffo ci rimette la pelle nel tentativo di affrontarli. Diventati i dominatori del paese i fuorilegge sottomettono e angariano la popolazione. Solo il giovane protetto dello sceriffo ha il coraggio di darsi alla macchia per combatterli, trovando l'aiuto di uno dei banditi, che in realtà è suo padre.

Come si può intuire dalla trama è un minuscolo e convenzionale prodotto di serie B, ma allo stesso tempo è anche qualcosa di completamente diverso e probabilmente unico all'interno nel genere. Si tratta infatti di uno spaghetti-western influenzato dal cinema neorealista, perlomeno quello praticato da autori come Pietro Germi e Giuseppe De Santis, che tentavano una fusione tra una spettacolarità più popolare e le tematiche sociali tipiche del movimento. In questo caso è evidente l'intenzione di servirsi del western come metafora per trattare della Resistenza partigiana e dei limiti entro cui è giusto ricorrere alla violenza. Ne esce uno spaghetti-western che va in senso completamente opposto alla tipica amoralità del genere, se si considera che nel film sostanzialmente si condanna la violenza individualista e si giustifica solo quella fatta per il bene della collettività.



Praticamente privo di influenze leoniane, si distingue anche per essere uno dei rari western italiani girati in un formato d'immagine simile a come quello dei classici americani degli anni 30 e 40 e non nella consueta orizzontalità del Techniscope nostrano, variante economica del Cinemascope hollywoodiano. Anche lo stile è da film drammatico più che da film d'azione, con persino delle evidenti influenze del cinema sovietico, da cui sono ripresi le lente carrellate laterali, la composizione quasi geometrica di alcune inquadrature e la cura negli stacchi di montaggio.

Decisamente atipico anche l'uso delle montagne abruzzesi come set. Gli autori non fanno nulla per nascondere l'italianità dei paesaggi e delle case di pietra. Anche le scene in interni, pur arricchite con elementi scenografici più western, hanno più da rustico italiano che da selvaggio West. Grazie alla bella fotografia una così smaccata esibizione della falsità della messinscena diventa a suo modo una scelta di stile coerente e affascinante. Un po' per questa straniante aria italiana, un po' per la compostezza della regia, un po' per la presenza di Andrea Giordana, il film ha un'aria che ricorda l'atmosfera ovattata e austera degli sceneggiati Rai di quegli anni.

Di stampo neorealista anche l'uso degli attori. A parte i quattro protagonisti, gli attori secondari sono tutti visibilmente non professionisti, e come tali usati più come facce che come caratteri. Particolare anche l'uso del grande caratterista francese Raymond Pellegrin, non a caso qui nell'unico titolo western di tutta la sua lunghissima carriera, nella parte di uno sceriffo molto umano e molto poco convenzionalmente eroico.
Al suo terzo e purtroppo ultimo spaghetti-western, Giordana ha la parte non troppo interessante di un giovane alle prime armi, ma dimostrava ancora di avere un fisico e una faccia perfette per il genere, anche se la sua aria tenebrosa funzionava meglio in ruoli più ambigui e tormentati, come nel bellissimo El Desperado.
Uniche facce ricorrenti nel genere sono dunque quella di uno statuario John Ireland, nella parte del bandito redento, e quella dell'attivissimo caratterista Bruno Corazzari, nero vestito e nazistoide nella parte del capo dei cattivi.



Primo e ultimo film come regista di Sergio Merolle. Era stato un direttore di produzione, anche per autori di alto blasone quali Visconti, Maselli, Questi e Pontecorvo. Come regista se n'è uscito con un miscuglio di rigidità didascalica, genuinità popolare, raffinatezze visive, semplicità naïf chissà quanto volontaria e scene d'azione di buona efficacia. I presupposti con cui si avvicina al western ricordano molto quelli di un altro misconosciuto regista-meteora del genere, il Gian Rocco di Giarrettiera Colt, ma i risultati non potrebbero essere più diversi. Se infatti il film di Gian Rocco è un delirante e coloratissimo teatrino pop, "Quanto costa morire" è un drammatico e lineare racconto di sacrificio e presa di coscienza sociale, la cui serietà è sottolineata dalle sue atmosfere cupamente invernali.

E il grande limite del film è appunto la sua impostazione fin troppo severa. Stonano con la seriosità di fondo alcune ingenuità da cinema di puro intrattenimento e soprattutto manca totalmente l'ironia sotterranea degli spaghetti-western, che praticamente emerge solo in una gag isolata: i banditi abusano delle donne del paese, tranne uno finito in casa di una racchia. I dialoghi sono sentenziosi e altisonanti, con i personaggi fin troppo consapevoli dei loro ruoli sociali, tanto che non smettono di chiosare i loro punti di vista anche in punto di morte. Esagerato anche il parallelo tra banditi e nazisti, con il biondo capo della banda esplicitamente descritto come un teorico dell'omicidio visto come risoluzione "tecnica" dei problemi, e i paesani schiavizzati stile campo di concentramento non si comprende bene a quali scopi.

Eppure il film non merita l'invisibilità e la considerazione quasi nulla di cui è da sempre soggetto. Riesce almeno ad essere un'operina curiosa e a suo modo affascinante, l'ennesima dimostrazione dell'impressionante varietà di stili, umori e tematiche che ribollivano nel gran calderone del western nostrano.

Titoli internazionali: Les colts brillent au soleil / Le prix de la mort (Francia), Taste of Death / Cost of Dying (U.S.A.), Cuanto Cuesta Morir (Spagna)

venerdì 3 maggio 2013

prossimamente - The Salvation



Tempo fa avevamo accennato a una sempre maggiore “globalizzazione” del genere Western e di come questo venga ultimamente affrontato da cinematografie che non hanno mai avuto una tradizione in merito: a riprova di questa tendenza arriva ora The Salvation, un western di produzione danese attualmente in lavorazione in Sudafrica.

Il film, ambientato nell’America del 1870, racconta un’epica storia di vendetta ispirata ai classici del filone ma anche alla mitologia nordica e vichinga.
Il protagonista della pellicola è Mads Mikkelsen, il grande attore danese feticcio del regista Nicolas Winding Refn (per cui ha recitato nella trilogia Pusher e in Valhalla Rising), vincitore del premio per la migliore interpretazione maschile lo scorso anno al Festival di Cannes per Il Sospetto di Thomas Vinterberg e attualmente protagonista nei panni del Dottor Lecter nella serie televisiva Hannibal.
The Salvation è scritto, insieme al premio Oscar Anders Thomas Jensen, e diretto dal regista Kristian Levring, uno dei firmatari del movimento Dogma 95.
Il cast del film, che uscirà nell’ottobre 2014, è particolarmente sontuoso e oltre a Mikkelsen vede anche Eva Green, Jonathan Pryce, Jeffrey Dean Morgan, Mikael Persbrandt, Michael Raymond-James e l’ex-stella del Manchester United Eric Cantona.

giovedì 2 maggio 2013

i film - Bandidos



1967 BANDIDOS (Crepa tu... che vivo io!)
di Massimo Dallamano, con Enrico Maria Salerno, Terry Jenkins, Venantino Venantini, Chris Huerta, Maria Martin, Marco Guglielmi

Un anziano pistolero si ritrova con le mani spappolate dopo uno scontro con un suo ex-allievo divenuto fuorilegge. Anni dopo, mentre gira il West con un carrozzone esibendo pistoleri da baraccone, incontra un giovane molto svelto con la pistola. Lo istruisce per farne il tramite della sua vendetta, ma il finale sarà amaro per tutti.

Il cinema di genere italiano degli anni sessanta e settanta è stato un’incredibile fucina di talenti, forse unica per qualità e quantità in tutta la storia del cinema, che accanto a riconosciuti e celebrati Maestri della Settima Arte (Leone, Bava, Argento…) e grandi autori che hanno rivoluzionato i generi nei quali si sono cimentati (Corbucci, Di Leo, Castellari, Fulci…) ha espresso decine e decine di altri professionisti meno noti al grande pubblico ma in possesso di un invidiabile bagaglio di competenze tecniche e qualità espressive.
Massimo Dallamano, nato a Milano nel 1917 e scomparso prematuramente a Roma nel 1976, è stato tra questi ultimi. Praticamente sconosciuto presso il pubblico dei non aficionados, è stato un direttore della fotografia e un regista dallo stile raffinato e geniale.
Anche i suoi film più ortodossi, come i poliziotteschi degli anni settanta, sono ricchi di finezze di regia, invenzioni visive e movimenti di macchina fluidi e eleganti.



Il suo contributo al western all’italiana, nonostante abbia realizzato un solo titolo come regista (poi preferirà dedicarsi a thriller e drammi spesso molto morbosi ed erotici, tra i quali ricordiamo almeno Che cosa avete fatto a Solange?), non è stato per niente secondario: Dallamano è stato infatti uno degli uomini che hanno contribuito al lancio e al conseguente boom commerciale dello spaghetti-western, firmando – con lo pseudonimo di Jack Dalmas – la fotografia dei primi due western di Sergio Leone, Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più (oltre a quella degli altrettanto anticipatori Duello nel Texas e Le pistole non discutono).

Per il suo esordio come regista – dove si firmerà stavolta Max Dillman – Dallamano non poteva quindi che rivolgersi proprio al western, e lo fa con questo gran bel film del periodo d’oro del genere interpretato da Enrico Maria Salerno, la mitica “voce” di Clint Eastwood nei film di Leone: un altro di coloro che hanno avuto un ruolo fondamentale nello stabilire le coordinate del filone.



Nonostante gli ammazzamenti in puro stile “spaghetti” (assolutamente notevole la strage iniziale nel treno, forse il pezzo più bello del film) per compattezza e disegno dei personaggi la pellicola sembra più vicina a un western americano di stampo classico che non a quelli leoniani, da cui Dallamano sembra quasi volere prendere le distanze (forse per ripicca verso Leone, che gli preferì Tonino Delli Colli per il terzo capitolo della Trilogia del dollaro, tanto che Alex Cox nel suo saggio 10.000 ways to die parla esplicitamente di film anti-leoniano).
Né il regista né molti degli attori protagonisti torneranno più al genere, cosa che dona all’opera una certa aria di unicità e singolarità, come anche le scene in esterni, che anziché nel familiare deserto di Tabernas in Almeria sono girate nella verdeggiante Spagna del Nord.

Da grande direttore della fotografia Dallamano esordisce “col botto”, con una regia talentuosa, ricercata e piena di trovate visive, non risparmiandosi in raffinatezze e pezzi di bravura e realizzando un’opera visivamente quasi pittorica, curata in tutte le tonalità delle luci e nei minimi cromatismi delle scene, come viene sottolineato esplicitamente nella famosa scena al saloon che cita il dipinto La morte di Sardanapaolo di Eugene Delacroix.



Grande anche la costruzione visiva di tutte le sequenze di sparatorie, con almeno un paio (quella al saloon e quella dello straordinario finale) assolutamente memorabili.
Ottimo il cast, con Enrico Maria Salerno ovviamente a svettare su tutti, ma anche Venantino Venantini, nel ruolo del cattivo imbattibile con la pistola, e Chris Huerta, in quello del messicano alla Mario Brega, sono bravissimi.
Grande score di Egisto Macchi, indovinata variazione dei famosi temi morriconiani.
Decisamente convincente anche il lavoro degli sceneggiatori nel tratteggiare dei personaggi di grande complessità psicologica e nel proporre l’ennesima riuscitissima variante sul tema della vendetta, soggetto privilegiato dell’italico western.