venerdì 19 dicembre 2014

Thousand Pieces of Gold / The Ballad of Little Jo

Continuando sul sentiero di Meek's Cutoff segnaliamo altre due interessanti pellicole dei primi anni 90 caratterizzate da uno sguardo femminile dietro la cinepresa.



1991 THOUSAND PIECES OF GOLD
di Nancy Kelly con Rosalind Chao, Chris Cooper, Michael Paul Chan, Dennis Dun, Beth Broderick

Figlia di una poverissima famiglia di contadini cinesi la bella Lalu viene data in moglie ad un connazionale immigrato in California. Ma giunta in America la poveretta scopre di essere stata invece venduta come prostituta da saloon in un paesino di minatori. Dovrà lottare per riscattare la propria libertà e mantenere la propria dignità. Alla fine un commerciante e scapolone bianco si innamorerà di lui e la sposerà. 
Ispirato a un omonimo romanzo di Ruthanne Lum McCunn e bastato sulla vera (e pare molto più prosaica) vita di Polly Bemis, oggi considerata una sorta di eroina del femminismo americano delle origini.

A dispetto di quel che si potrebbe immaginare dalla trama è un sobrio e persino raffinato film-tv, che evita sia le trappole del più facile melodramma romantico che quelle del parabola platealmente edificante. La storia è quella di un'affermazione di dignità e di una duplice crescita umana. Molto americana la parabola della protagonista, che partendo dalla condizione più sventurata conquista un'indipendenza e una dignità che le sarebbero state probabilmente negate nella terra natia. Più sfumata quella del protagonista maschile, che deve superare parecchi tabù sociali e personali, prima di accettare di essersi innamorato di una cinese.
Gran merito della riuscita del tutto va alla classe dei due attori protagonisti, due ottimi caratteristi raramente messi così in primo piano. Ad una prevedibilmente molto coinvolta Rosalind Chao fa da spalla il solitamente "cattivo" Chris Cooper, il cui aspetto massiccio e vagamente minaccioso è probabilmente uno dei motivi per cui la storia non scivola mai nel melenso.



I limiti sono quelli dell'autocensura televisiva che, se non edulcora troppo lo squallido scenario in cui la protagonista si trova a vivere, non può e non vuole spingersi troppo in là nella descrizione di quella che comunque resta una storia di prostituzione e schiavismo. Appare un po' troppo facile ad esempio il modo in cui la protagonista evita di "esercitare il mestiere": difficile credere che i minatori di un paesino dell'800 fossero in larga parte tutti così comprensivi e di buon cuore. Comunque il lieto fine personale viene adeguatamente inquinato da un finale molto amaro a livello sociale, con i protagonisti costretti a fuggire dal paese dove si è scatenato un folle linciaggio dei cinesi.

Nonostante tempi e luoghi siano quelli canonici, c'è davvero poca aria western. La distanza dal genere la si misura subito con il prologo ambientato addirittura in Cina, mentre il resto del film mette in scena un'ambientazione mineraria più alla London che da classico western.



1993 THE BALLAD OF LITTLE JO
di Maggie Greenwald con Suzy Amis, Bo Hopkins, Ian McKellen, David Chung, Heather Graham, René Auberjonois, Carrie Snodgress, Melissa Leo

Si racconta la storia incredibilmente vera di "Jo" Monaghan, un rispettato piccolo ranchero dell'Oregon che solo dopo la morte, avvenuta per cause naturali nel 1904, si scoprì essere una donna (Josephine). Nella realtà le motivazioni pare fossero principlamente economiche, quella di una donna in cerca di lavoro per sfuggire alla miseria che l'aveva costretta a far internare il suo unico figlio in un manicomio, nel film decide invece di vestirsi da uomo perché traumatizzata da un tentativo di stupro.



Storia interessante, confezione curata e rigorosa, ma a differenza del film precedente "The Ballad of Little Jo" soffre di un eccesso di realismo che finisce quasi per soffocare la narrazione. Quella raccontata è forse una storia troppo particolare per rappresentare qualcosa di diverso dal caso in sé o comunque gli autori non riescono ad andare oltre alla mera esposizione dei fatti.

In netto contrasto con la maggioranzai dei film che mettono al centro della storia delle cowgirl, in genere maschiacci che sanno farsi valere in un mondo di uomini, qui per tutto il tempo non vediamo altro che una poveretta infagottata nel suo travestimento, traumatizzata e autolesionista (si sfregia da sola), costretta per tutta la vita a negare la propria femminilità in un universo maschile in cui tutti gli uomini che la avvicinano, indipendentemente dalle intenzioni e amici o nemici che siano, finiscono per rivelare un'indole aggressiva e invasiva. L'unica nota di sollievo e unica concessione a un minimo di romanticismo è la pudica e segreta storia d'amore che la protagonista vive con un servo cinese, non a caso l'unico maschio del film non aggressivo (anzi decisamente passivo), mostrato a livello visivo con caratteristiche per l'epoca femminili, come i capelli lunghissimi e un forte senso dell'igiene.

Anche qui il western lo si prende piuttosto alla lontana, nonostante i costumi e ambientazione siano più canonici. L'unica sparatoria (e unica volta in cui la protagonista reagisce) è spoglia e totalmente priva di qualsiasi catarsi, a conferma del rigore anti-spettacolare persino eccessivo con cui la storia è raccontata.
Un tocco di classe il crudele e morboso finale: la protagonista viene trovata morta e la società misogina che la assediava può entrare nella sua intimità, svelare il suo segreto e disporre del suo corpo.

Lo stringente realismo della narrazione rende a tratti stridente la scelta come attrice protagonista di Suzy Amis, troppo bella per essere credibile nella parte di una donna che tutti credono un uomo, ma comunque abbastanza brava e intensa per far digerire il più delle volte la forzatura. Ottimo anche il resto del cast.

mercoledì 17 dicembre 2014

Meek's Cutoff



2010 MEEK’S CUTOFF
di Kelly Reichardt, con Michelle Williams, Rod Rondeaux, Bruce Greenwood, Will Patton, Shirley Henderson, Paul Dano, Zoe Kazan, Neal Huff, Tommy Nelson

Il film è ambientato lunga la famosa Oregon Trail e Meek's Cutoff è il nome della scorciatoia attraverso la quale nel 1845 la guida Stephen Meek condusse duecento carri e circa mille persone a perdersi nel bel mezzo del deserto dell’Oregon, da cui non tutti riuscirono ad uscire, episodio storico che ha ispirato il film della Reichardt, con la differenza che nel suo film i carri sono solamente tre e gli attori in scena sono nove contati.

Presentato anche al Festival di Venezia del 2010, è un piccolo western davvero atipico e fuori dagli schemi, diretto verosimilmente con un budget ridotto all’osso e in controtendenza sia rispetto al genere che a tutto il cinema contemporaneo: lentissimo e con pochissimi dialoghi, senza un morto e una singola scena di violenza. Un western esistenzialista e quasi herzoghiano, fatto soprattutto di silenzi e spazi vuoti, senza “paesaggismi” e tramonti alla Malick, ma con la raffigurazione di una natura arida, selvaggia e insensibile. Nonostante non succeda praticamente niente il film riesce a non annoiare e con il suo tono scarno, essenziale e minimalista trasmette un’idea del west più concreata e reale di molte altre viste al cinema. Il finale aperto contiene tutta una metafora sull’esistenza, vista come un lungo sentiero in cui si procede a casaccio senza punti di riferimento sperando di arrivare a qualcosa ma che verosimilmente non conduce verso nulla.
(Mauro Mihich)



Affrontando per la prima volta un film in costume e di genere, per quanto preso molto alla lontana, la regista Kelly Reichardt non tradisce il suo cinema ultra-indipendente e minimalista. È anzi ad oggi il suo film più riuscito, almeno insieme al bellissimo e toccante (e sempre delittuosamente inedito in Italia) Wendy e Lucy del 2008, che vede come protagonista ancora Michelle Williams. Attrice che diventata famosa per la serie "Dawson's Creek" è poi riuscita a costruirsi un'intelligente e ragionata carriera cinematografia, come raramente riescono a fare gli attori diventati noti grazie alla televisione. Per gli standard del cinema indipendente è un film quasi all star, considerato che presenta altre facce molto conosciute, se non proprio famose, come Paul Dano, Bruce Greenwood e Will Patton.

Ruba la scena a tutti però lo sconosciuto Rod Rondeaux, nella parte di un enigmatico indiano che i pionieri catturano e obbligano a fare da guida. Faccia davvero poco convenzionale, recitazione straniante (del resto Rondeaux è prima di tutto uno stuntman) il suo è uno degli indiani più autenticamente "alieni" mai visti sullo schermo. A differenza dello stereotipo è un gran chiaccherone, ma né i personaggi né gli spettatori possono o riescono a cogliere il senso di quello che dice. Raramente è stata visualizzata con tanta potenza lo sgomento e l'incomunicabilità che i veri pionieri dovevano provare quando incontravano un indiano.



Il fulcro del film è la contrapposizione tra una donna e un universo maschile, con il personaggio di Michelle Williams che porta nel film un punto di vista femminile positivo, la cui apertura e disponibilità entrano in conflitto con lo sguardo contaminato dalla diffidenza e dal desiderio di possesso degli uomini. Il tutto senza però facili generalizzazioni. Se il polo opposto della protagonista è il cialtrone e violento Meek (e in questo senso ogni tanto il personaggio rischia di trasformarsi in caricatura: l'unico vero limite del film), gli altri uomini della caravona si rivelano molto più ragionevoli e sensibili, a cominciare dal saggio e anziano marito della Williams, mentre chi più alimenta la paranoia e la tensione è proprio una delle altre donne, la più spaventata e fragile. La stessa figura dell'indiano, per quanto positiva, non è quella del banale Buon Selvaggio, ma conserva una dose di inquietante ambiguità.

Intelligente e in controtendenza anche l'idea di trovare il realismo più attraverso il tono  prosciugato della narrazione e delle immagini che non con una certosina ricostruzione storica, anzi costumi e carri sembrano e probabilmente sono semplici costumi e oggetti da parata e sagra di paese. Il che da vita ad un West spogliato da ogni traccia di colore e mito, ma comunque di grande e rarefatto fascino.



Minuscolo e prezioso gioiellino cinematografico, forse uno dei più interessanti titoli del decennio in corso anche al di fuori del genere, probabilmente ad oggi il miglior dei per altro rarissimi western diretti da una regista donna. Non a caso, nonostante la distribuzione limitata, sembra essere diventato un piccolo cult movie citato da più parti.

mercoledì 10 dicembre 2014

La banda di Jesse James



1972 LA BANDA DI JESSE JAMES (The Great Northfield Minnesota Raid)
di Philip Kaufman con Cliff Robertson, Robert Duvall, Luke Askew, R.G. Armstrong, Dana Elcar, Donald Moffat, John Pearce, Matt Clark, Wayne Sutherlin, Robert H. Harris, Elisha Cook Jr.

E chi se lo ricorda più Philip Kaufman? Del resto è solo una delle tante personalità dimenticate - appunto - del cinema americano pre-anni 80. Svantaggiato in particolare dal non aver mai legato, da regista, il suo nome ad un film realmente famoso, ma tutt'al più a qualche cult movie piuttosto di nicchia. C'è il rischio che il suo film più noto sia oggi uno dei suoi peggiori, "Sol levante", mentre è quasi una certezza che l'ormai brevissima memoria degli appassionati di cinema odierni leghi il suo nome più al primo film di Indiana Jones, di cui fu sceneggiatore, che alla sua carriera di regista. Che pure per vent'anni fu interessante e notevole. C'è da dire che anche lui ci ha messo del suo per farsi dimenticare, dirigendo titoli indifendibili come "Henry e June", il già citato "Sol levante" (che a dire il vero ha una prima parte molto interessante, prima di svaccare indecorosamente) o, quasi peggio, pellicole assolutamente anonime come "La tela dell'assassino".

Ma le prime due decadi di carriera furono ben altra storia. Dai due film indipendenti degli anni 60 influenzati dalle sperimentazioni della nouvelle vague Goldstein e Fearless Frank (esordio al cinema di Jon Voigt), alle cinque pellicole decisamente "New Hollywood" dirette tra il  '72 e '83: La banda di Jesse James oggetto di questo post, lo sfortunato apologo polare e satirico The White Dawn, il sottovalutato remake (che in realtà racconta tutta un'altra storia) de "L'invasione degli ultracorpi" Terrore dallo spazio profondo, il sovreccitato action teppistico The Wanderers e la bellissima elegia dei collaudatori di aerei Uomini veri.

Nel 1978 doveva dirigere anche Il texano dagli occhi di ghiaccio con Clint Eastwood, ma venne licenziato e sostituito dopo due settimane dall'ingombrante attore/regista. Se l'idea di Kaufman era di girare qualcosa di simile al suo western precedente, non viene difficile immaginare i motivi dello scontro tra i due autori.



Tra i tanti e forse troppi film dedicati al discutibile mito di Jesse James e della sua banda, La banda di Jesse James / The Great Northfield Minnesota Raid ne propone indiscutibilmente la versione più eccentrica. A cominciare dalla scelta di mettere al centro del film non i due fratelli James, ridotti praticamente a comprimari, ma piuttosto i loro complici, in particolare il Cole Younger interpretato da un intenso Cliff Robertson. Originale anche l'idea di concentrare la narrazione solo sulla disastrosa rapina alla banca di Northfield, che mise fine alle attività criminali della banda. Seguiamo quindi lo svagato viaggio della banda verso la cittadina, la loro permanenza e infiltrazione tra la popolazione, le allucinate sequenze della rapina e della fuga.

Kaufman sceglie un taglio grottesco e impressionista, ancora debitore del cinema francese, destrutturando il racconto con uno stile divagante e libero, che narrativamente preferisce i tempi morti e sembra procedere per libere associazioni, variando continuamente tono e atmosfere. Si passa ad esempio dai titoli di testa, che raccontano l'epopea dei James con la tecnica e la retorica roboante dei film classici, alla prima vera sequenza del film, in cui i due James discutono mentre cagano in una latrina, pulendosi il culo con i giornali che parlano di loro. Ma il film non procede per accostamenti sempre così didascalici, è anzi pieno di visioni e simboli misteriosi (Younger che continua a sognare degli enigmatici visi femminili), schegge improvvise di poesia (una prostituta che canta in un bordello una triste nenia slava), atmosfere surreali (il clima onirico nel bordello o in casa di una vecchietta in cui trova rifugio la banda) e trovate stranianti in un contesto western (come una rissosa partita di baseball agli albori). Sì passa dal comico al tragico anche all'interno della stessa sequenza, come quando dopo la rapina dei probi cittadini in cerca di giustizia impiccano quattro poveracci a caso sorpresi in un bordello.



Di grande effetto le esplosioni di violenza, debitrici tanto della secca durezza di un Arthur Penn quanto della caoticità di un Peckinpah (da notare che ben quattro attori del cast - Luke Askew, Matt Clark, Elisha Cook Jr., R. G. Armstrong - li si ritroverà l'anno dopo in Pat Garrett e Billy The Kid). Il pezzo di maggior effetto è ovviamente quello caotico, buffo e sanguinoso della rapina, ma lasciano il segno anche la strage iniziale davanti ad un bordello e la fulminea sequenza della cattura dei protagonisti.

Notevole l'intuizione di visualizzare la cittadina di Northfield come un simbolo di quel sviluppo meccanico e borghese che preannunciava la modernità e il grigiore del 900, in netto contrasto con il sud arcaico e contadino da cui proviene la banda dei James, dove ancora si aggirano streghe e gli uomini danno retta alle superstizioni: non a caso il Jesse James interpretato da un invasato Robert Duvall ha molto dei predicatori visionari (e cialtroni). Genialoide in particolare l'uso di un organetto a vapore, che casualmente durante la rapina diventa un precursore degli allarmi elettronici moderni. Il film destabilizza infatti anche da un punto di vista sonoro con una colonna sonora che mette insieme tradizione americana e europea, suggestioni psichedeliche e sonorità a tratti più da poliziesco moderno che da western.

Anche la recitazione è sovraccarica e sempre al limite, ma affidata ad un cast stratosferico, tanto per quanto riguarda gli attori di primo piano (ma è davero esistito un tempo in cui attori come Robertson e Duvall erano considerati di richiamo?) che le facce secondarie, una valanga di faccioni appartenenti ai migliori caratteristi di quegli anni.



Descritta l'originalità dell'approccio di Kaufman alla materia narrativa, va comunque sottolineato che l'atmosfera del film vuole e riesce a restare comunque all'interno del genere. Pur concedendo molto poco alle aspettative del pubblico è lo stesso un film che costruisce una sua stramba spettacolarità. Quella di un'opera che usa la ricerca di una messa in scena realistica per trovare la deformazione satirica, riuscendo a evocare  quelle atmosfere sature, vivide e allusive, che solo certo cinema americano degli anni 70 sembra aver avuto il potere di mettere su pellicola con tanta intensità.

domenica 7 dicembre 2014

The Tracker [1988]



1988 RICERCATO VIVO O MORTO (The Tracker / Dead or Alive)
di John Guillermin con Kris Kristofferson, Scott Wilson, Mark Moses, David Huddleston, John Quade, Don Swayze, Geoffrey Blake, Leon Rippy, Ernie Lively, Karen Kopins, Celia Xavier, Jennifer Snyder

Cupo e violento tv movie decisamente da recuperare.

Quattro balordi, tra cui uno squilibrato con manie religiose (Wilson), lasciano dietro di sé una lunga scia di sangue. Quando rapiscono una ragazza e una bambina, un anziano sceriffo chiede aiuto ad un ex-cercatore di tracce (Kristofferson). Nella caccia all'uomo li seguirà anche il figlio di quest'ultimo un avvocato appena tornato dall'est. Sarà un'ecatombe.  

La storia d'inseguimento e i personaggi sono tipici di molti western prodotti dalla tv americana negli ultimi trent'anni, in genere incentrati sul recupero di attori in là con gli anni e vecchie glorie sul viale del tramonto. Molto meno tipica la  cupezza del tono. A parte qualche dettaglio sanguinario (la banda di assassini lascia messaggi sui muri scritti con il sangue stile famiglia Manson), le scene di violenza sono risolte in modo asciutto e fuori campo, come nei film degli anni cinquanta, ma comunque la dose di nefandezze lasciate alla fantasia del pubblico è decisamente atipica per la tv dell'epoca, con un corollario di sgozzamenti, stupri e omicidi a sangue freddo che lascia decisamente il segno.



La trama e l'interazione tra i personaggi sono convenzionali e ampiamente prevedibili, ma è lo stesso notevole la messa in scena di un west spietato e senza giustizia, dove il Male pare essere di casa, gli innocenti subiscono di tutto e il minimo barlume di umanità contro il nemico può avere conseguenze tragiche.
La cruda parabola del film è vista dal punto di vista del giovane avvocato. Inizialmente sconcertato e incapace di adeguarsi ai metodi brutali che vede applicati dal padre, dovrà suo malgrado e a caro prezzo imparare la spietata lezione. Come in un certo cinema del decennio precedente, il film è attraversato da un interrogativo morale che continua a riproporsi in varie situazioni: i confini in cui può essere lecito e giustificato un omicidio a sangue freddo. L'amarissimo finale lascia protagonisti e spettatori con più dubbi che risposte.

Va da sé che Kristofferson nella parte del cercatore di piste è monumentale, una sorta di Clint Eastwood più malinconico e umano. Memorabile la sequenza in cui deve fare strage di una banda di cacciatore di taglie senza lasciare sopravvissuti. Nella parte dell'invasato capo degli assassini, un cattivo davvero inquietante e odioso, c'è invece Scott Wilson, un attore la cui carriera a cavallo degli anni 60 e 70 sembrava lanciatissima in ruoli di primo piano ("A sangue freddo", "Grissom gang", "Ardenne '44", "I temerari"), per poi essere progressivamente dimenticato, almeno fino ad oggi, visto che fa parte del cast della fortunatissima serie "Walking Dead". A far da contorno i familiari e mitologici faccioni di caratteristi enormi  (in tutti i sensi) come David Huddleston e John Quade. Un po' schiacciato dal confronto con i colleghi se la cava dignitosamente, nel ruolo del figlio di Kristofferson, Mark Moses, faccia frequente nei primi film di Oliver Stone.



È l'ultima regia della carriera del prolifico John Guillermin (oggi quasi novantenne), tuttofare del cinema che resterà negli annali per due film appartenenti più ai produttori che al regista: il classico catastrofico "L'inferno di cristallo" e  il famigerato remake di "King Kong" degli anni 70 con Jeff Bridges e Jessica Lange. Gli appassionati di western invece lo possono ricordare per il divertente El Condor. Non proprio un fulmine di guerra dunque. E infatti anche nel caso di quest'ultima opera la sua regia non ha particolari guizzi, limitandosi ad una narrazione corretta e anonima. Ma comunque nel respiro delle inquadrature si nota l'occhio del regista abituato all'ampiezza dello schermo cinematografico, piuttosto che alle ristrettezze televisive. D'altra parte il tutto è girato in spettacolari scenari naturali, tra cui la Monument Valley, non le classiche e spoglie location californiane di molti western a basso budget.

Da segnalare anche l'originale colonna sonora, fatta con tocchi di moderata elettronica, che invece di risultare fastidiosamente anacronistica, come altri tentativi simili, si amalgama bene col clima duro del racconto e contribuisce a far lievitare la tensione.

giovedì 4 dicembre 2014

Harry Tracy, un fuorilegge speciale



1982 HARRY TRACY, UN FUORILEGGE SPECIALE (Harry Tracy / Harry Tracy Desperado / Harry Tracy: The Last of the Wild Bunch)
di William A. Graham. Con Bruce Dern) di William A. Graham. Con Bruce Dern, Helen Shaver, Michael C. Gwynne, Gordon Lightfoot, Jacques Hubert

Un altro interessante western crepuscolare del 1982 da riscoprire. Anche questa una produzione canadese, che deve avere avuto qualche problema di distribuzione a giudicare dai molteplici titoli. Racconta con molte licenze gli ultimi anni di vita, dal dicembre del 1889 all'estate del 1902, di Harry Tracy, celebre fuorilegge che pare avesse fatto parte del mucchio selvaggio di Butch Cassidy e che divenne famoso per le sue evasioni e le sue fughe attraverso il nord-ovest americano. Il Tracy originale non assomigliava per nulla a Bruce Dern e pare fosse un sanguinario bestione che nulla aveva a che vedere con la versione romantica di questa pellicola.



Il film infatti tenta di riproporre la formula che tredici anni prima aveva fatto la fortuna di "Butch Cassidy", con quel suo mix di commedia, romanticismo e squarci di violenza. Ma il pur grandissimo Bruce Dern non ha certo il fascino di Paul Newman o Robert Redford e i tempi erano irrimediabilmente cambiati. Se vogliamo, questa pellicola è un ulteriore esempio di come il genere avesse imboccato una strada revisionista che ne aveva irrimediabilmente spostato i confini etici ed estetici. Anche in questo caso abbiamo un west paradossalmente trasfigurato dal realismo dei costumi e delle scenografie, e un protagonista totalmente antieroico, non particolarmente simpatico né particolarmente intelligente, che significativamente fa la sua prima comparsa mentre fugge nella neve in mutandoni. Un comune delinquente, comunque migliore della grigia e deprimente società che lo circonda, perché capace di slanci anche non razionali, come quando insegue la donna di cui è innamorato dopo una rapina, finendo per farsi catturare.



La prima mezz'ora picaresca, con Tracy che fugge, trova in un pittore morto di fame un complice, e ricomincia a rapinare treni e banche, è carina, ma sa di già visto e non ha decisamente la verve e dialoghi di un "Butch Cassidy". Il film trova la sua personalità nella seconda parte, più drammatica e violenta, con la fuga attraverso montagne, boschi e campagne di Tracy con la sua donna, una raffinata borghese innamorata di lui. L'atteggiamento indolente, quasi distratto e infine rassegnato, con cui il protagonista fugge ai suoi sempre più numerosi inseguitori dona un tono quasi poetico alla romantica fuga. La bella fotografia autunnale e la classe degli attori fanno il resto. Anche il televisivo Graham, regista convenzionale e didascalico, trova lampi di ispirazione nel bellissimo finale, con la morte di Tracy assediato in un campo di grano da decine di scagnozzi e la desolata tristezza della compagna che si allontana da sola, mentre sciacalli e fotografi (sullo sfondo del film si descrive la nascita della cronaca nera) dispongono a loro piacimento del cadavere di Tracy.

Giulio Questi 1924 - 2014



E' morto ieri a Roma Giulio Questi.
Regista, scrittore, critico e irriducibile appassionato di cinema, 90 anni compiuti il 18 marzo scorso. Nella sua pur lunga carriera cinematografica e televisiva, come regista aveva firmato solo tre film, la satira pop La morte ha fatto l'uovo e il maledetto e grottesco Arcana. Ma era soprattutto noto per la sua violentissima opera d'esordio, il western Se sei vivo spara. Un titolo a cui questo blog deve ovviamente qualcosa.

martedì 2 dicembre 2014

El Gringo Barbarosa



1983 EL GRINGO BARBAROSA (Barbarosa) 
di Fred Schepisi con Willie Nelson, Gary Busey, Gilbert Roland, Danny De La Paz, George Voskovec, Isela Vega, Alma Martinez 

Bello e dimenticatissimo western picaresco e crepuscolare. Non solo uscito nel periodo più tetro per la fortuna commerciale del genere, ma come il coevo (e comunque diversissimo) Vecchia volpe, è una pellicola che in quel 1982 sembrava fare di tutto per risultare inattuale e fuori moda. Prima di tutto proseguendo (proprio nell'epoca di cavalieri Jedi e archeologi avventurieri) quel discorso di smitizzazione della retorica eroica iniziato nel decennio precedente, poi mettendo in scena un Messico insolito, poco folkloristico, fatto più di attendibili e scolorati costumi ottocenteschi piuttosto che di pittoreschi poncho e sombreri.



Fiaba messicana crudele e amorale, con due protagonisti che in alcuni momenti sembrano ricordare le figure di Don Chisciotte e Sancho Panza. Si raccontano le disavventure di un giovanottone americano che per sfuggire a una faida tra famiglie si rifugia in Messico, dove finisce per diventare lo scalcinato scudiero del leggendario bandito solitario Barbarosa, che in molti vorrebbero morto. Fuorilegge più per diletto e incapacità di accasarsi che per altro, Barbarosa è un simpatico cialtrone, aiutato tanto dalla fortuna quanto dall'alone di leggenda che lo circonda e che intimorisce i suoi avversari.

Il tono generale è leggero, quasi da commedia, ma la storia è punteggiata da dettagli macabri, scoppi di violenza insensata e casuale che lasciano il segno. Sia Barbarosa che chi gli da la caccia tentano di uccidersi a vicenda come se stessero partecipando ad un grande gioco, in cui odi antichi e faide sanguinose sembrano faccende da vecchi bambini cocciuti. Memorabile le patetiche figure dei due padri di famiglia americani che si fanno la guerra più per ottusa testardaggine assassina che vero odio. Ugualmente ambigua la figura del fazendero messicano (un grandissimo Gilbert Roland al suo ultimo film della sua lunghissima carriera ) che sacrifica uno ad uno i suoi uomini per avere la testa di Barbarosa, ma allo stesso tempo ne racconta le gesta ai bambini, mantenendo vivo un mito di cui è orgoglioso di far parte.



Sarà per la presenza di Gary Busey, diventato famoso pochi anni prima per il capolavoro "Un mercoledì da leoni", ma durante la visione vien spesso in mente il cinema John Milius. Scene come quella dei due protagonisti che ascoltano una canzone provenire da un villaggio che narra le loro gesta sono decisamente vicine a certe atmosfere di Milius. Magari più lo sceneggiatore che il regista, quello in particolare di "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" e "L'uomo dai 7 capestri", dove si ritrova la stessa tematica del personaggio che diventa una leggenda vivente e quell'epica dolce amara su uomini che fanno guerra alla realtà tentando di essere più grandi della vita.
A "Barbarosa" manca alla fine forse un vero respiro epico e il finale ad un certo punto è un po' troppo prevedibile, ma comunque è un film che non sfigurerebbe troppo accanto ai migliori di Milius.

Risplende invece nella carriera dell'australiano Schepisi, qui al suo primo film americano, in seguito regista sporadicamente interessante ("6 gradi si separzione"), ma troppo discontinuo. Quattro anni prima aveva diretto il duro "The Chant of Jimmie Blacksmith", dramma aborigeno con più di un debito con il western americano più arrabbiato degli anni 70.



Perfetto il mito country Willie Nelson nella parte di Barbarosa. Il suo faccione austero, ma dall'espressione placida, incarna bene l'ambivalenza del suo personaggio, conscio di non essere quello che tutti credono, ma deciso ad interpretare la proria leggenda fino alle estreme conseguenze.
Anche Busey è perfetto, come una specie di gigantesco bambinone che si muove stordito in un mondo fatto di adulti molto più infantili di lui. L'attore s'impegna parecchio e tira fuori una delle sue interpretazioni più sensibili. Un vero peccato che qualche anno dopo, dopo essere rimasto sfigurato in un incidente, scoprirà Gesù e diventerà un insopportabile presenzialista della tv trash americana.
Nela piccola parte della moglie di Barbarosa la mai dimenticata Isela Vega di "Voglio la testa di Garcia".

lunedì 1 dicembre 2014

The Last Rites Of Ransom Pride



2010 THE LAST RITES OF RANSOM PRIDE
di Tiller Russell con Lizzy Caplan, Jon Foster, Cote de Pablo, Dwight Yoakam, Kris Kristofferson, Jason Priestley, W. Earl Brown, Scott Speedman, Peter Dinklage

Cosa ci può aspettare da un western esteticamente pienamente calato nel 21° secolo, con attori e costumi fashion, la fotografia monotonamente desaturata e un montaggio moderno ultra-schizzato e videoclipparo? Tutto il peggio possibile. Ma quello che all'apparenza sembra (e forse per la maggior parte delle persone è) un film sbagliato e irritante, a conti fatti è una delle poche perle da salvare nel mare di spazzatura dilettantesca che è diventato il cinema di genere a basso budget degli ultimi anni. "L'estrema unzione di Ransom Pride" (così la nostra traduzione letterale, non esiste una distribuzione italiana, anzi il film pare non sia stato distribuito da nessuna parte e anche in America sembra aver avuto pochissima circolazione) è un piccolo, affascinate circo di morte, un'operina che usa il linguaggio più patinato per mettere in scena un universo freak che non ha davvero nulla di patinato.



La storia è quella di una fuorilegge mezzosangue che nell'anno di grazia 1911 parte per il Messico alla ricerca del cadavere dell’amante - ostaggio di una bruja messicana - per dargli sepoltura in Texas nel luogo dove è nato, coinvolgendo il fratello di lui per usarlo come merce di scambio.
Qualcosa non torna negli spostamenti dei vari personaggi, con qualcuno che va avanti e indietro da un posto all'altro mentre altri ci mettono mezzo film per fare lo stesso viaggio, ma non ha molto senso chiedere troppa logica ad una storia che mette in scena un West al forte sapore di vudù e Santeria, dove i personaggi sembrano usciti da un film di Jodorowsky e i costumi sono ispirati alla saga di Mad Max per ammissione dello stesso regista, l’esordiente Tiller Russell (già attivo come documentarista), che ha anche dichiarato di essersi ispirato per lo stile ai fumetti, definendo il suo film una "graphic novel western".

Il tono del film è funereo e necrofilo, il ritmo lento e ipnotico, le atmosfere apocalittiche. Una sorta di Dead Man (senza raggiungerne la poesia) dall'estetica ribaltata. La visione del Far West è più o meno la stessa del film di Jarmush: una frontiera sordida e desolata attraversata da improvvise e immotivate esplosioni di violenza, dove il regista non si risparmia nel mettere in scena sangue, sesso, violenza e perversioni varie. Ma il risultato finale non è per nulla sensazionalista, visto che tutto sommato si racconta una storia triste e dal tono dimesso, senza troppe scene madri ridondanti e con sequenze di violenza veloci e brutali (un po' deludente in questo senso la resa dei conti finale da thrillerone qualsiasi).

La poetica freak che attraversa tutto la pellicola da vita ad alcuni bei personaggi, soprattutto tra quelli di contorno: il gigantesco motociclista nero che si becca un buco in pancia come Slim Pickens in "Pat Garrett e Billy the Kid", il nano taciturno interpretato dall'unico attore nano diventato ormai un divo, Peter Dinklage, i malinconici gemelli siamesi di cui uno morente, i due killer ricalcati (troppo) sul modello dei cacciatori di taglie di "Dead Man", l'inquietante servo indiano della bruja.



La protagonista Lizzy Caplan, con mantello rosso, cappello da ferroviere e canottiera sexi, è un personaggio tanto assurdo quanto assolutamente spettacolare. Molto più anonimo il protagonista maschile. E se è dura riconoscere la bella Cote de Pablo (nota per la serie tv NCIS) sotto il trucco sfigurante della bruja, impossibile accorgersi che sotto il trucco di uno dei killer c'è il divetto di "Beverly Hills 90210" Jason Priestley. In aggiunta ci sono due grandi icone del cinema western (e della musica country) come Dwight Yoakam, nel furente ruolo di un predicatore invasato, e soprattutto Kris Kristofferson, che fa una grande entrata in scena delle sue, una bottiglia di whisky in una mano e una ragazza mezza nuda sulle ginocchia.



Lo stile nevrotico della regia, con quei flash al limite del subliminale che interrompono continuamente la scorrevolezza della visione, fa venire in mente il nome di Tony Scott. Regista che negli ultimi anni, soprattutto in ambito di appassionati di cinema action, ha conosciuto una rivalutazione critica fin tanto esagerata. Pur avendo apprezzato e nel caso rivalutato alcuni film del regista, non ci iscriviamo tra i suoi fan, ma bisogna ammettere che, sulla distanza e (inutile nasconderlo) alla luce della sua tragica fine, il suo cinema rivela una specie di furore stilistico e un certo qual senso di frustrazione autoriale che rendono alcuni dei suoi film più interessanti di quello che sembravano all'uscita. Fatto sta che se c'è un film a cui si può accostare "The Last Rites Of Ransom Pride" è il suo delirante "Domino": un'altra pellicola ugualmente balorda, fuori registro, "sbagliata", ma anche o proprio per questo particolare, originale e a suo modo affascinante.

Produzione canadese, che nonostante la credibilissima ambientazione messicana, è stata girata nei dintorni di Calgary, nello stato dell’Alberta, in suggestivi scenari naturali. Gli stessi di altri western recenti come Gli spietati, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford e Open range.

mercoledì 25 giugno 2014

Eli Wallach 1915-2014


Ci ha lasciati stamattina a 98 anni l’attore americano Eli Wallach. Nato il 7 Dicembre 1915 a Brooklyn si forma al celebre Actor’s Studio e dopo una lunga carriera teatrale debutta sul grande schermo a 41 anni nel film Baby Doll di Elia Kazan. Caratterista specializzato in parti da cattivo in western come La conquista del West e I magnifici sette viene notato da Sergio Leone che lo consegna all'immortalità cinematografica grazie al ruolo del ‘brutto’ ne Il Buono, il Brutto, il Cattivo, dove con una straordinaria mimica e gestualità e a battute diventate leggendarie fa entrare la commedia nel western all'italiana oscurando Clint Eastwood e Lee van Cleef. Successivamente è stato protagonista di altri western italiani (tra i quali ricordiamo soprattutto I quattro dell’Ave Maria di Giuseppe Colizzi) e di una lunga carriera americana, principalmente come caratterista ("da attore ho interpretato un intero campionario di banditi, ladri, signori della guerra e molestatori"), senza però trovare più un altro ruolo all'altezza di quello offertogli da Leone, durata senza interruzioni praticamente fino a oggi e ricevendo nel 2010 il Premio Oscar alla carriera. Nonostante più di 150 film interpretati in sessant'anni di militanza cinematografica per tutti gli appassionati di western rimarrà sempre il Tuco del capolavoro di Leone.


venerdì 16 maggio 2014

Prossimamente – The Dark Valley


Dopo Gold di Thomas Arslan nella scorsa edizione, anche quest’anno al Festival del Cinema di Berlino è stato presentato un nuovo film western in lingua tedesca (recuperando così in qualche maniera la gloriosa tradizione dei kraut-western): si tratta di Das finstere Tal (titolo internazionale The Dark Valley), il nuovo film del regista austriaco Andreas Prochaska, nome molto noto in patria, anche per i suoi lavori televisivi, ma che ha goduto anche di una breve ribalta internazionale grazie all’horror Sms - 3 giorni e 6 morto (2006), distribuito anche in Italia.

In una remota valle delle montagne austriache, sul finire del 19° secolo, giunge uno sconosciuto americano di nome Greider, che chiede di essere ospitato per i tre mesi invernali. Gli abitanti del villaggio gli trovano ospitalità presso la casa di una vedova, che vive con la figlia in procinto di sposarsi, ma ignorano che Greider conosce il sanguinoso segreto che custodiscono da decenni. Ben presto una catena di misteriosi delitti comincia a far sospettare delle vere motivazioni che si nascondono dietro l'arrivo dello straniero.



L’ambientazione invernale e innevata ovviamente non può che rimandare a celebri winter-western come Il cavaliere della valle solitaria e Il cavaliere pallido, ma a giudicare dal trailer il film a cui Prochaska sembra occhieggiare maggiormente ci pare essere capolavoro di Sergio Corbucci Il grande silenzio.





venerdì 9 maggio 2014

Prossimamente – The Salvation


Primo trailer per The Salvation, il western danese prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier, diretto da Kristian Levring e interpretato da Mads Mikkelsen e Eva Green di cui avevamo già dato notizia qualche mese fa.

La trama, ispirata ai classici del genere ma anche alle mitologie nordiche e vichinghe, è quella del più classico revenge-western, come da tradizione europea: Mads Mikkelsen interpreta John, un ex soldato immigrato dalla Scandinavia negli Stati Uniti del 1870 in cerca di una vita migliore per lui e la sua famiglia. Quando uccide gli assassini di sua moglie e di suo figlio scatena la furia del capo della banda di banditi Delarue, interpretato da Jeffrey Dean Morgan. Tradito dalla sua comunità, corrotta e codarda, il pacifico pioniere si trasforma in un vendicativo cacciatore di uomini, con unico scopo quello di uccidere i fuorilegge e purificare il cuore nero della città.



Il film verrà presentato fuori concorso al prossimo Festival di Cannes e a una prima occhiata possiamo quantomeno dire che Mikkelsen ci sembra avere il perfetto physique du rôle per il western.



giovedì 8 maggio 2014

Prossimamente – The Homesman



Quello di Tommy Lee Jones è un nome a cui gli appassionati di cinema western sono particolarmente affezionati. Oltre che esserne un efficacissimo interprete, grazie anche al suo volto ruvido e scavato, è anche l’unica star di Hollywood, insieme a Kevin Costner, ad essersi sempre votato al nostro genere preferito anche nelle sue (purtroppo molto sporadiche) escursioni come regista. A differenza di Costner, che ha sempre privilegiato una spesso ingessata classicità, i western di Tommy Lee Jones brillano invece anche per il taglio sobrio e asciutto e la prospettiva insolita e obliqua, cose che ci piacciono moltissimo e che si possono riscontrare sia nell’interessante esordio televisivo The Good Old Boys del 1995, tratto dal romanzo di Elmer Kelton, che nel capolavoro sospeso tra Cormac McCarthy e Sam Peckinpah Le tre sepolture del 2005, passando per un altro film televisivo tratto da un dramma proprio di McCarthy, Sunset Limited (2011).

Non possiamo quindi che rallegrarci alla notizia che The Homesman, il nuovo film di Tommy Lee Jones, da lui anche scritto, interpretato e prodotto (insieme alla EuropaCorp di Luc Besson), sarà in concorso all’imminente festival di Cannes (cosa che per un western non succedeva, se la memoria non ci inganna, dai tempi de Il cavaliere pallido di Eastwood).



Adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo scritto da Glendon Swarthout nel 1988, il film, girato tra la Georgia e il New mexico, si fregia di un cast eccellente che comprende, oltre al regista stesso, anche Hilary Swank, Miranda Otto, John Lithgow, James Spader, Hailee Steinfeld e Meryl Streep.

Tommy Lee Jones interpreta George Briggs, un uomo che viene salvato dall’impiccagione da una pioniera, Mary Bee Cuddy, interpretata da Hillary Swank. La donna vuole però una cosa in cambio: che l’uomo la aiuti a far fuggire tre donne malate di mente e a trasportarle dal Nebraska all’Iowa. Il cammino si trasformerà in una vera e propria odissea, tra banditi, indiani e altri pericoli che la coppia incontrerà lungo la strada.


E’ ancora prematuro dirlo ma la nostra impressione è che con questa nuova pellicola il cowboy Tommy Lee Jones abbia fatto di nuovo centro.


venerdì 21 febbraio 2014

3 pistole contro Cesare


1967 TRE PISTOLE CONTRO CESARE
di Enzo Peri, con Thomas Hunter, James Shigeta, Nadir Moretti, Enrico Maria Salerno, Delia Boccardo, Gianna Serra, Femi Benussi, Umberto D'Orsi, Vittorio Bonos, Ferrucio De Ceresa, Adriana Ambesi

Uno dei western più folli di tutti i tempi.
Girato in Algeria (e già questo...), vede tre fratelli figli dello stesso padre ma di madre diversa (“nel posto da cui proveniva nostro padre usano così – dice a un certo punto uno dei personaggi – “si chiama Napoli o qualcosa del genere...”) – e cioè un pistolero alla Clint Eastwood con delle pistole che sparano in quattro direzioni diverse e anche dal calcio oltre che dalla canna, un mezzosangue giapponese campione di kung fu e una specie di mago che ipnotizza i nemici come Mandrake – mettersi per questioni d’eredità (rappresentata da una miniera d’oro) contro il classico padrone della città, che in questo caso è un folle megalomane e maniaco sessuale che si fa chiamare Giulio Cesare, si crede un imperatore romano e vive in una specie di castello perennemente circondato da un harem di donne seminude e da lascivi leccapiedi (uno scenario da Roma precristiana o seconda repubblica italiana), interpretato dal grande Enrico Maria Salerno, al suo secondo western dopo Bandidos.

Difficile dare conto delle bizzarrie del film: il pistolero interpretato da Thomas Hunter, già visto in Un fiume di dollari e che qui pare il sosia sputato di George Hilton, a un certo punto entra in un saloon, fa fuori in un colpo solo sette avversari con la sua pistola assurda (bisogna vederla) e poi se ne esce tranquillo dopo aver pagato il conto, in un’altra scena vediamo un individuo viscido e vestito di bianco che mangia una banana e poi mette la buccia nella scollatura di una ragazza che gli sta lustrando le scarpe.



La cosa più incredibile è che nonostante stravaganze kitsch e deliri visivi, e forse anche grazie a queste, il film funziona piuttosto bene e ha anche un certo ritmo.
Del resto il budget a disposizione del regista, Enzo Peri, al suo primo e ultimo film, non era certo tra i peggiori e anche tecnicamente la pellicola è piuttosto curata, con una buona fotografia di Otello Martelli, delle coinvolgenti musiche di Marcello Giombini e delle belle scene di cavalcate (gli animali usati facevano parte della guardia presidenziale algerina e anche a un occhio non esperto appaiono ben diversi dai brocchi che si vedono in tanti sottoprodotti italiani).

Il film è l’unico western mai girato in Algeria (se non nell’intera Africa) ed è coprodotto tra Dino De Laurentiis e la locale Casbah Films (quella de La battaglia di Algeri).
Se i palmeti delle oasi sono del tutto anacronistici, i canyon e i paesaggi algerini sono invece piuttosto efficaci nel trasmettere l’atmosfera del West, un po’ meno le comparse locali vestite di nero con dei fazzoletti azzurri sul viso per far risaltare meno il colore della loro pelle.
Il film è in anticipo sui tempi sia per la contaminazione del western con altri generi (come il film di arti marziali e lo spionistico alla James Bond) e anche per la vena di sottile erotismo che lo percorre, con l’aggiunta di blandi momenti sadomaso (frustate, combattimenti tra donne...), il tutto comunque molto all’acqua di rose e non di cattivo gusto: tra le numerose attrici si vedono Delia Boccardo e Femi Benussi, giovanissime.
Totalmente assurdo, ma molto divertente.

venerdì 14 febbraio 2014

Blackthorn



2011 BLACKTHORN
di Mateo Gil, con Sam Shepard, Eduardo Noriega, Stephen Rea, Magaly Solier, Padraic Delaney, Fernando Gamarra, Maria Luque, Dominique McElligott, Cristian Mercado, Nikolaj Coster-Waldau

Bolivia, 1927: Butch Cassidy (che ora si fa chiamare James Blackthorn) parte per l'ultimo viaggio verso casa, in un'avventura che lo allinea con un giovane rapinatore e rende il duo l'obiettivo per bande di malviventi e uomini di legge.

Interessante, ma non del tutto riuscito, tentativo di western spagnolo aggiornato al nuovo millennio.
Niente a che vedere con i pauperistici chorizo-western degli anni sessanta-settanta, comunque, tant’è vero che il film è stato pluricandidato ai Premi Goya (aggiudicandosi quelli per fotografia, scenografia, produzione e costumi).
Il regista, Mateo Gil, sceneggiatore di quasi tutti i film di Alejandro Amenábar, dimostra di possedere senza dubbio delle buone capacità tecniche e uno stile visivo molto moderno, ma purtroppo il suo film difetta un po’ di anima, persa tra le carrellate della macchina da presa e i paesaggi mozzafiato, e finisce per essere scandito da un ritmo troppo piatto e televisivo.



Peccato, perché sulla carta il film era invece molto interessante, dato che racconta nientemeno che le vicende di Butch Cassidy, sopravvissuto – secondo tesi peraltro attualmente abbastanza accreditate – alla sparatoria di San Vicente e ritiratosi ad allevare cavalli, vent’anni anni dopo le avventure narrate nella celebre pellicola di George Roy Hill. Ormai vecchio e stanco Butch decide di ritornare negli Stati Uniti per trovare il proprio nipote, figlio di Sundance Kid ed Etta Place (ma forse in realtà figlio suo).
Il film va avanti così, a ritmo piuttosto indugiante e indolente e seguendo una linea narrativa divagante e poco precisa, tra il viaggio nella Bolivia del 1927 e i flashback nel vecchio West.
C’è da dire che lo stupendo paesaggio boliviano, con le sue spettacolari montagne e gli infiniti deserti di sale, funziona benissimo per dare l’idea del West, anche se l’insistenza con cui il regista lo riprende alla fine diventa stucchevole.



Sam Shepard è molto bravo nella parte del vecchio pistolero, ma essendo sempre stato un caratterista più che un primattore non riesce a tenere su il film tutto da solo, come avrebbero potuto fare Newman o Redford.
Gli attori che lo affiancano, a parte Stephen Rea, sono tutti abbastanza inadeguati, a partire da Eduardo Noriega (una specie di tremendo Scamarcio spagnolo).
Nonostante il rammarico per quel che avrebbero saputo fare autori più dotati con materiale simile merita comunque una visione, se non altro per la serietà e la professionalità con cui è condotta in porto l'operazione, tanto più ammirevoli visto che sono applicate a un genere oggi desueto e fuori moda e davvero invidiabili se paragonate alla sconfortante situazione della cinematografia italica.

giovedì 6 febbraio 2014

Tombstone



1993 TOMBSTONE
di George Pan Cosmatos. Con Kurt Russell, Val Kilmer, Sam Elliott, Bill Paxton, Powers Boothe, Michael Biehn, Charlton Heston, Jason Priestley, Jon Tenney, Stephen Lang, Thomas Haden Church, Dana Delany, Paula Malcomson, Lisa Collins, Joanna Pacula, Harry Carey Jr, Billy Bob Thornton, Billy Zane, Terry O'Quinn, Frank Stallone, Pedro Armendáriz Jr, Robert Mitchum (narratore)

Uno dei western con cui Hollywood pensò bene di affossare nuovamente il genere, dopo che per un po' era rinato a nuovo interesse grazie al successo di film come "Balla coi lupi", "Gli spietati", "L'ultimo dei Moichani" e "Geronimo" (quest'ultimo più apprezzato dalla critica che non dal pubblico). Nato per far concorrenza a "Wyatt Earp" con Kevin Costner e riuscendo nell'intento, visto che "Tombtone" fu un discreto successo in America, mentre "Wyatt Earp" un flop micidiale.

Ha quasi dell'incredibile l'imegno che gli autori sembrabo averci messo per confermare i peggiori luoghi comuni sul genere, girando un film lento, anacronistico, polveroso, retorico, pomposo. Regia e fotografia tentano di essere classicamente anonime, ma non azzeccano quasi mai le giuste atmosfere. Più che i classici anni 40 e 50 il modello vero sembrano i film tutto eroismo e epica del De Mille degli anni 30, ma senza possederne l'ingenua grazia e l'eleganza spettacolare. Ma l'elefantiaco Cosmatos ("Rambo 2 - La vendetta" e "Cobra" i gioielli non troppo preziosi della sua filmografia) non doveva avere le idee molto chiare su dove andare a parare stilisticamente, perché nel film c'è dentro di tutto: l'inizio è "spaghetti", la sfida all'OK Corrall realistica e crepuscolare, il disegno dei personaggi melodrammatico. E che dire del finale romantico? Una roba non solo per nulla western, ma che metterebbe in imbarazzo anche in una trasposizione di un romanzo di Nicholas Sparks.

Detto ciò, il tempo è il solito galantuomo, perché rivedendolo dopo tanti anni l'irritazione che il film poteva provocare all'epoca si può anche tramutare in spassoso compatimento. Diciamo che il filmastro di Cosmatos nella sua balordaggine è quasi divertente. E che, sia pure in modo sgangherato e grossolano, almeno trasmette un vero affetto per il genere. Probabilmente per questo gode di un ottimo culto in America.
Certo, poi mette tristezza vederlo a volte citato addirittura tra i migliori western di ogni tempo.



Altro probabile motivo per cui il film oltreoceano è un cult è l'infinita - al limite del surreale - parata di facce più o meno note del cast. Un cast ad altissimo tasso di carisma, bisogna ammettere.
Nonostante dei ridicoli baffoni appiccicati in faccia, se la cavano i due attori protagonisti. Kurt Russell come Wyatt Earp gioca facile nella parte del duro incorruttibile tutto digrignamento di denti e occhiatacce torve. Val Kilmer nella parte del tubercolotico Doc ha in mano il personaggio migliore del film e riconferma la sua predilezione per i ruoli da sfasciato. Il vero baffuto Sam Elliott e Bill Paxton come coprotagonisti gli reggono il gioco. Il reparto cattivi può contare sulla facce da duri di gente come Powers Boothe, Michael Biehn (l'eore maschile del primo "Terminator") e Stephen Lang (il marine cattivo di "Avatar"). E poi ci sono i camei di Charlton Heston (il ranchero), Harry Carey Jr. (il vecchio sceriffo), dei divetti Billy Zane e Jason Priestley (quello di "Beverly Hills", che qui interpreta un personaggio assurdo, che di fatto ad un certo punto viene dimenticato dalla sceneggiatura), della bella Joanna Pacula come volto più noto del reparto femminile. Non basta? Nel film ci sono pure il fratello di Sylvester Stallone (Frank), un figlio di Robert Mitchium (Christopher), il futuro pelatone di "Lost" Terry O'Quinn, un discendente del vero Earp (tal Wyatt Earp III) e un assolutamente irriconoscibile Billy Bob Thorton, con almeno trenta chili in più di come siamo abituati a conoscerlo. E per finire la voce narrante in originale era di Robert Mitchum, in Italia quella non meno rappresentativa di Ferruccio Amendola.

Più amabile del rivale "Wyatt Earp" con Costner, anche se in fin dei conti è il corrispettivo cinematogtrafico del Wild West di Buffalo Bill: una parata circense che glorifica un passato facendone l'involontaria parodia.

martedì 4 febbraio 2014

Cain's Cutthroats / Cain's Way / Justice Cain / The Blood Seekers



1971 Cain's Cutthroats / Cain's Way / Justice Cain / The Blood Seekers
di Ken Osborne. Con John Carradine, Scott Brady, Valda Hansen, Robert Dix, Don Epperson, Darwin Joston, Ttereza Thaw

Frugando nei sottoboschi delle cinematografie di mezzo mondo alla ricerca del gioiello misconosciuto, del titolo stramboide da esibire, dell'autore forse ingiustamente dimenticato, si finisce molto spesso a guardare un bel po' di spazzatura. La sensazione di star buttando via più o meno preziose ore di vita che ogni tanto ne consegue è uno dei motivi per cui, da parte di chi scrive, ogni tanto questo blog va in stand-by per mesi.
Quel rischio è maggiore quando ci si immerge negli abissi senza fondo della serie Z del cinema. Quella (ci si illude) tutta sesso e violenza, in cerca di visioni brutte e maleducate e quindi (ci si ri-illude) più libere e selvagge di quelle del cinema convenzionale.

La poco poetica realtà è che la stragrande maggioranza delle volte ci si trova davanti a film auto-censurati e goffi, dove gli unici brividi morbosi sono dovuti a qualche poster ammiccante e a titoli sensazionalisti (spesso più d'uno per film, come nel caso in questione). Altrettanto spesso ci si trova davanti a pellicole faticosamente costruite attorno a due o tre scene forti o presunte tali, ma dove nell'attesa di quelle singole sequenze si muore solo di noia. Ogni tanto si becca il film che tenta realmente la carta dell'estremo, ma in cui spesso si esagera al contrario, scadendo nel grottesco e nel ridicolo involontario a forza di accumulare effettacci e finendo comunque nella noia. E' invece davvero raro beccare il filmetto brutto, sporco e cattivo, ma che si lascia guardare e con una sua ragione di esistere. Uno di quei rari casi è questo Cain's Cutthroats / Cain's Way / Justice Cain / The Blood Seekers.

Diretto da tal Ken Osborne, regista di cinque dimenticatissime pellicole tra il 1965 e il 1974 (e neanche fosse Malick, un sesto titolo arriverà nel 2008). Una filmografia che sembra uscire dal sogno bagnato di un appassionato di cinema vintage americano: un dramma sudista, un film di motociclisti, un western di vendetta, un carcerario femminile e... un film su un tizio che cambia in meglio la sua vita scoprendo Gesù.



Sei reduci sudisti che sembrano usciti da un fagioli western italiano (nell'attesa prima di una rapina si grattano, sputano, si scaccolano, si prendono per i fondelli come bambinoni non troppo svegli) compiono una sanguinosa rapina ai danni di un carro militare. Poi si presentano a casa di un loro ex-capitano, che nel frattempo si è fatto una famiglia e una vita onesta. La rimpatriata va a finire malissimo con i sei mentecatti che stuprano e uccidono la moglie, accoppano il figlioletto e a buon conto danno fuoco anche alla casa. Nel resto del film ovviamente vedremo il furente capitano, il cui nome è - sottilissima metafora - Justice Cain, inseguire i sei debosciati trucidandoli uno ad uno.

Cain's Cutthroats è appunto un film sporco e cattivo, anche se non proprio brutto. O perlomeno non bruttissimo. Relativamente a questo tipo di prodotti è girato con un minimo di dignità, gli attori sono passabili e hanno le facce giuste, la narrazione è spiccia e coerente. A livello di trama non è niente di più che il solito, prevedibile e truce revenge movie che ci si può aspettare da questo tipo di cinematografia, uno di quei film dove a scena scontata segue scena ancor più scontata. Eppure a modo suo riesce ad essere anche un film dall'aria curiosa. Il tono generale è strano, stralunato e sottilmente ironico, in contrasto con la truculenza della storia. Le scene d'azione sono veloci e ben spruzzate di sangue, ma la violenza incredibilmente non è quasi mai totalmente gratuita, con un che di balordo e casuale che la rende inquietante. I personaggi parlano molto, quasi come in un film di Tarantino (pur non avendo certo a disposizioni dialoghi altrettanto brillanti) e ogni tanto svelano sfumature non banali. Anche l'anti-climax finale non è esattamente quello che ci si aspetta abitualmente in film di questo tipo.

Il pregio maggiore del film è che, in contrasto con la tradizione del genere, il sentiero della vendetta intrapreso dal protagonista non è solitario. A lui si affiancano due personaggi: un irresistibile prete-buonty killer, che gira il West con il suo carro e un barile dove tiene in salamoia le teste dei fuorilegge che ha ucciso e una simpatica prostituta. Personaggi ben delinati che donano un tocco di umanità alla tipica meccanicità narrativa dei revenge movie.



Praticamente sconosciuto da noi il protagonista Scott Brady era un attore western molto famoso in America. Qui è una specie di John Wayne dei poveri, ma con un'espressione malinconica che lo fa assomigliare ad un forzato della serie Z come Lon Chaney Jr. 
Un altro forzato di quella filmografia era il grande John Carradine, qui nella parte del prete cacciatore di taglie. Ne ha girati a decine e decine di filmacci inguardabili in cui l'unica cosa da salvare era la sua faccia messa lì a fare la parte di un vecchio matto a caso. Stavolta invece ha tra le mani un personaggio ricco di umorismo nero, con cui diverte e ha l'aria di divertirsi.
Il più squiternato dei sei debosciati (per divertimento taglia la mano ad un poveraccio) è interpretato da Darwin Joston, che guadagnerà un suo posticino nella storia del cinema qualche anno dopo interpretando il Napoleon Wilson di Distretto 13 di Carpenter.
La simpatica e prosperosa Valda Hansen che interpreta la prostituta aveva iniziato la carriera nei film di Ed Wood. In confronto, un film del genere doveva esserle sembrato un kolossal.  

venerdì 10 gennaio 2014

Sam Peckinpah 4 - La morte cavalca a Rio Bravo






"È stato Brian Keith, che aveva lavorato con me alla serie The Westerner, a offrirmi la prima possibilità di dirigere un film. L’avevano ingaggiato insieme a Maureen O’Hara per fare un film intitolato The Deadly Companions (La morte cavalca a Rio Bravo) e lui riuscì a convincere il produttore, che tra le altre cose era il fratello dell’attrice, a prendermi come regista. Non è stato il miglior affare della mia vita. Io volevo fare un film e lui voleva prendermi in giro. La sceneggiatura andava in gran parte riscritta, ma mi dissero di badare ai fatti miei e stare zitto. Brian sapeva che ci eravamo messi in un guaio, allora decidemmo, tra noi due, di rendere drammaticamente credibili almeno le sue scene. Col risultato che quelle di Keith funzionavano, quelle con Maureen O’Hara erano un disastro. E’ così che ho cominciato a capire qualcosa dei produttori."

1961 LA MORTE CAVALCA A RIO BRAVO (The Deadly Companions)
di Sam Peckinpah, con Maureen O'Hara, Brian Keith, Steve Cochran, Chill Wills


Dopo la cancellazione al termine della prima stagione, a causa dei bassi ascolti, del serial-capolavoro The Westerner, la prima serie televisiva americana western indirizzata espressamente a un pubblico adulto, il protagonista Brian Keith venne ingaggiato dal produttore Charles B. FitzSimons per il ruolo principale in un western indipendente da girarsi a basso costo. L’attore era rimasto talmente entusiasta della collaborazione con l’allora trentacinquenne Sam Peckinpah da riuscire ad imporre il suo nome come regista al produttore, dandogli quindi di fatto la possibilità di esordire al cinema.
Purtroppo l’occasione si trasformò anche nel primo tra i molti screzi, dissidi e battaglie di Peckinpah contro i produttori nel tentativo, spesso fallito, di preservare l’integrità artistica delle sue opere; una triste costante che lo accompagnerà lungo tutta la sua carriera.



FitzSimons, costantemente presente sul set, impedì a Peckinpah di apportare qualsiasi modifica alla sceneggiatura, di improvvisare qualunque soluzione personale e addirittura di parlare con la protagonista Maureen O’Hara (che era la sorella di FitzSimons). Il regista, inoltre, venne allontanato dal montaggio e il film venne stampato con una colorazione e una musica che il regista trovava orripilanti. Fu, tra le altre cose, manipolato arbitrariamente anche il finale originariamente girato da Peckinpah: nella versione del regista era il personaggio positivo Keith e non quello cattivo Wills che uccideva a sangue freddo Cochran sparandogli allo stomaco a bruciapelo, una soluzione di grande effetto che costituiva il momento cruciale del climax tragico della pellicola ma che ovviamente non poteva non spaventare il produttore per la sua clamorosa rottura di tutte le convenzioni del genere.



Il talento di Peckinpah era però già così limpido da riuscire ad emergere nonostante tutte queste ingerenze: anche se in genere viene liquidato come il trascurabile esordio del regista, un western di serie B come tanti, per noi è infatti poco meno di un capolavoro. Non all’altezza della sua opera seconda, quel folgorante Sfida nell’Alta Sierra da cui tutti in genere fanno partire la sua filmografia, ma davvero poco sotto. Nonostante lo stesso Peckinpah lo abbia sempre rinnegato a noi l’impronta del regista sembra chiara e visibile dalla prima all’ultima inquadratura. I tagli e le manomissioni ci sono stati ma non si notano. La potenza espressiva del Peckinpah touch è infatti tale da riuscire a trascendere il tessuto narrativo della pellicola: il film è compatissimo, non ci sono buchi nella storia e neanche nel disegno dei personaggi. Anzi resta un film aspro e anti-spettacolare, dove ad esempio per ben due volte è negata la centralità del protagonista nella resa dei conti.



Un grande Brian “zio Billy” Keith regala la sua faccia stanca al primo degli indimenticabili perdenti di Peckinpah, un reduce di guerra menomato da una ferita e traumatizzato dal ricordo di un tentativo di scotennamento, di cui porta l’orribile cicatrice sotto il cappello che non si toglie mai. Un giorno riconosce il suo scotennatore in un balordo che stanno impiccando in un saloon (un immenso Chill Wills, poi faccia tipica di Peckinpah, che impersona un personaggio tanto pazzo e repellente, quanto in fondo patetico e annientato dalla vita). Dopo averlo liberato, in attesa del momento buono per la vendetta, si mette in viaggio insieme ad un terzo compare (l’ottimo Steve Cochran, altro tipico personaggio alla Peckinpah: un mattacchione che uccide quasi per gioco). Durante una sosta in un paesino i tre sventano una rapina, ma durante la sparatoria Keith uccide per sbaglio un bambino, figlio della “ballerina” del paese (Maureen O’Hara: unico punto debole del film, bravissima e convinta, ma con un’aria troppo algida e troppo poco fragile per la parte). Decisa, anzi ossessionata, a seppellire il figlio nel paese in cui fu sepolto il marito, alla cui esistenza i bigotti del paese non credono, la donna intraprende un viaggio attraverso il territorio indiano. Distrutto dal senso di colpa Keith la segue, riuscendo a convincerla dopo molte ovvie resistenze a farsi accompagnare…

Già da questo accenno di trama sono evidenti già tutte le ossessioni e i tratti tipici del cinema di Peckinpah. Ci sono già il senso di una violenza che permea ogni personaggio ed ambiente, i personaggi crepuscolari e perdenti, i rapporti corrosi da mille tensioni, le pulsioni di autodistruzione, i paesaggi foschi e selvaggi che diventano un elemento centrale della trama. Anche le secche scene d’azione, pur ancora restando negli standard visivi del cinema hollywoodiano dell’epoca, hanno già quella sua tipica caoticità e imprevedibilità.



Si respirano echi fordiani nei temi dell’ossessiva sete di vendetta e del viaggio redentore in territori selvaggi (impressione rafforzata dalla presenza di Maureen O’Hara, una delle attrici feticcio di Ford), ma si avvertono già anche anticipazioni peckinpahiane: i bambini che osservano Keith e compagni arrivare nel pueblo e il predicatore invasato interpretato da Strother Martin ricordano l’inizio del Mucchio Selvaggio, mentre un certo tono lugubre e il viaggio in compagnia di un cadavere in decomposizione rimandano al successivo Voglio la testa di Garcia.

Ma poi chi se ne frega quanto è o non è inseribile nella filmografia del regista: è una bellissima storia, con personaggi magnifici, immersi in scenari splendidamente fotografati... cosa si vuole di più?

Tommaso Sega & Mauro Mihich