venerdì 10 gennaio 2014

Sam Peckinpah 4 - La morte cavalca a Rio Bravo






"È stato Brian Keith, che aveva lavorato con me alla serie The Westerner, a offrirmi la prima possibilità di dirigere un film. L’avevano ingaggiato insieme a Maureen O’Hara per fare un film intitolato The Deadly Companions (La morte cavalca a Rio Bravo) e lui riuscì a convincere il produttore, che tra le altre cose era il fratello dell’attrice, a prendermi come regista. Non è stato il miglior affare della mia vita. Io volevo fare un film e lui voleva prendermi in giro. La sceneggiatura andava in gran parte riscritta, ma mi dissero di badare ai fatti miei e stare zitto. Brian sapeva che ci eravamo messi in un guaio, allora decidemmo, tra noi due, di rendere drammaticamente credibili almeno le sue scene. Col risultato che quelle di Keith funzionavano, quelle con Maureen O’Hara erano un disastro. E’ così che ho cominciato a capire qualcosa dei produttori."

1961 LA MORTE CAVALCA A RIO BRAVO (The Deadly Companions)
di Sam Peckinpah, con Maureen O'Hara, Brian Keith, Steve Cochran, Chill Wills


Dopo la cancellazione al termine della prima stagione, a causa dei bassi ascolti, del serial-capolavoro The Westerner, la prima serie televisiva americana western indirizzata espressamente a un pubblico adulto, il protagonista Brian Keith venne ingaggiato dal produttore Charles B. FitzSimons per il ruolo principale in un western indipendente da girarsi a basso costo. L’attore era rimasto talmente entusiasta della collaborazione con l’allora trentacinquenne Sam Peckinpah da riuscire ad imporre il suo nome come regista al produttore, dandogli quindi di fatto la possibilità di esordire al cinema.
Purtroppo l’occasione si trasformò anche nel primo tra i molti screzi, dissidi e battaglie di Peckinpah contro i produttori nel tentativo, spesso fallito, di preservare l’integrità artistica delle sue opere; una triste costante che lo accompagnerà lungo tutta la sua carriera.



FitzSimons, costantemente presente sul set, impedì a Peckinpah di apportare qualsiasi modifica alla sceneggiatura, di improvvisare qualunque soluzione personale e addirittura di parlare con la protagonista Maureen O’Hara (che era la sorella di FitzSimons). Il regista, inoltre, venne allontanato dal montaggio e il film venne stampato con una colorazione e una musica che il regista trovava orripilanti. Fu, tra le altre cose, manipolato arbitrariamente anche il finale originariamente girato da Peckinpah: nella versione del regista era il personaggio positivo Keith e non quello cattivo Wills che uccideva a sangue freddo Cochran sparandogli allo stomaco a bruciapelo, una soluzione di grande effetto che costituiva il momento cruciale del climax tragico della pellicola ma che ovviamente non poteva non spaventare il produttore per la sua clamorosa rottura di tutte le convenzioni del genere.



Il talento di Peckinpah era però già così limpido da riuscire ad emergere nonostante tutte queste ingerenze: anche se in genere viene liquidato come il trascurabile esordio del regista, un western di serie B come tanti, per noi è infatti poco meno di un capolavoro. Non all’altezza della sua opera seconda, quel folgorante Sfida nell’Alta Sierra da cui tutti in genere fanno partire la sua filmografia, ma davvero poco sotto. Nonostante lo stesso Peckinpah lo abbia sempre rinnegato a noi l’impronta del regista sembra chiara e visibile dalla prima all’ultima inquadratura. I tagli e le manomissioni ci sono stati ma non si notano. La potenza espressiva del Peckinpah touch è infatti tale da riuscire a trascendere il tessuto narrativo della pellicola: il film è compatissimo, non ci sono buchi nella storia e neanche nel disegno dei personaggi. Anzi resta un film aspro e anti-spettacolare, dove ad esempio per ben due volte è negata la centralità del protagonista nella resa dei conti.



Un grande Brian “zio Billy” Keith regala la sua faccia stanca al primo degli indimenticabili perdenti di Peckinpah, un reduce di guerra menomato da una ferita e traumatizzato dal ricordo di un tentativo di scotennamento, di cui porta l’orribile cicatrice sotto il cappello che non si toglie mai. Un giorno riconosce il suo scotennatore in un balordo che stanno impiccando in un saloon (un immenso Chill Wills, poi faccia tipica di Peckinpah, che impersona un personaggio tanto pazzo e repellente, quanto in fondo patetico e annientato dalla vita). Dopo averlo liberato, in attesa del momento buono per la vendetta, si mette in viaggio insieme ad un terzo compare (l’ottimo Steve Cochran, altro tipico personaggio alla Peckinpah: un mattacchione che uccide quasi per gioco). Durante una sosta in un paesino i tre sventano una rapina, ma durante la sparatoria Keith uccide per sbaglio un bambino, figlio della “ballerina” del paese (Maureen O’Hara: unico punto debole del film, bravissima e convinta, ma con un’aria troppo algida e troppo poco fragile per la parte). Decisa, anzi ossessionata, a seppellire il figlio nel paese in cui fu sepolto il marito, alla cui esistenza i bigotti del paese non credono, la donna intraprende un viaggio attraverso il territorio indiano. Distrutto dal senso di colpa Keith la segue, riuscendo a convincerla dopo molte ovvie resistenze a farsi accompagnare…

Già da questo accenno di trama sono evidenti già tutte le ossessioni e i tratti tipici del cinema di Peckinpah. Ci sono già il senso di una violenza che permea ogni personaggio ed ambiente, i personaggi crepuscolari e perdenti, i rapporti corrosi da mille tensioni, le pulsioni di autodistruzione, i paesaggi foschi e selvaggi che diventano un elemento centrale della trama. Anche le secche scene d’azione, pur ancora restando negli standard visivi del cinema hollywoodiano dell’epoca, hanno già quella sua tipica caoticità e imprevedibilità.



Si respirano echi fordiani nei temi dell’ossessiva sete di vendetta e del viaggio redentore in territori selvaggi (impressione rafforzata dalla presenza di Maureen O’Hara, una delle attrici feticcio di Ford), ma si avvertono già anche anticipazioni peckinpahiane: i bambini che osservano Keith e compagni arrivare nel pueblo e il predicatore invasato interpretato da Strother Martin ricordano l’inizio del Mucchio Selvaggio, mentre un certo tono lugubre e il viaggio in compagnia di un cadavere in decomposizione rimandano al successivo Voglio la testa di Garcia.

Ma poi chi se ne frega quanto è o non è inseribile nella filmografia del regista: è una bellissima storia, con personaggi magnifici, immersi in scenari splendidamente fotografati... cosa si vuole di più?

Tommaso Sega & Mauro Mihich

martedì 7 gennaio 2014

prossimamente - Se il mondo intorno crepa



Anche se da stampa e critica viene considerato come morto e sepolto il western è un genere che, come i nostri lettori ormai sapranno, dà ancora sussulti di vitalità sia nel suo paese di origine, gli Stati Uniti, che in varie altre cinematografie sparse in giro per il mondo. Se c’è un posto, però, dove questo genere è ufficialmente e definitivamente defunto questo è l’Italia, che pure negli anni sessanta e sessanta dello scorso secolo arrivò a giocarsela ad armi pari sullo stesso terreno degli americani. Nonostante ciò anche nel nostro culturalmente sempre più povero paese c’è chi con caparbietà e sorretto unicamente da un’enorme passione si ostina a portare avanti un proprio e personale percorso western. Si tratta di Stefano Jacurti, autore qualche anno fa assieme a Emiliano Ferrera del western-horror indipendente Inferno bianco, che ha fatto il giro di vari festival, e scrittore in proprio di diversi romanzi e racconti dedicati al genere e che ora, sempre in coppia con Ferrera, torna con un nuovo western autoprodotto, da lui anche sceneggiato: Se il mondo intorno crepa, sempre girato nei grandi spazi dell’Abruzzo (ma in parte, come si vede nel trailer, anche nei famosi villaggi western dell’Almeria) e attualmente in fase di post-produzione.



Un nero cavaliere si staglia all’orizzonte.
E’ Black Burt “il poeta”, così chiamato perché prima di uccidere declama sempre i suoi versi di morte.
Burt il Nero si è unito a Butcher Joe “il macellaio” per un sanguinoso cavalcarono insieme.
I due, finiti sui giornali e braccati da tempo per le violente imprese, convergono presso una ghost town, una città morta da dove proseguiranno in Messico per continuare a uccidere e rapinare.
Ma in un mondo dove una donna lotta contro l’emarginazione e il passato ritorna con la sua forza dirompente il destino ha riservato a Black Burt e Butcher Joe qualcosa di molto diverso...




Accantonate le atmosfere horror e ghiacciate di Inferno bianco con questo nuovo lavoro Jacurti pur tenendo presente la grande tradizione violenta del western italiano sembrerebbe aggiornarla con le più moderne e selvagge storie di frontiera dei racconti di Joe R. Lansdale e con un’estetica e delle musiche totalmente americane.
Ci torneremo.