venerdì 21 febbraio 2014

3 pistole contro Cesare


1967 TRE PISTOLE CONTRO CESARE
di Enzo Peri, con Thomas Hunter, James Shigeta, Nadir Moretti, Enrico Maria Salerno, Delia Boccardo, Gianna Serra, Femi Benussi, Umberto D'Orsi, Vittorio Bonos, Ferrucio De Ceresa, Adriana Ambesi

Uno dei western più folli di tutti i tempi.
Girato in Algeria (e già questo...), vede tre fratelli figli dello stesso padre ma di madre diversa (“nel posto da cui proveniva nostro padre usano così – dice a un certo punto uno dei personaggi – “si chiama Napoli o qualcosa del genere...”) – e cioè un pistolero alla Clint Eastwood con delle pistole che sparano in quattro direzioni diverse e anche dal calcio oltre che dalla canna, un mezzosangue giapponese campione di kung fu e una specie di mago che ipnotizza i nemici come Mandrake – mettersi per questioni d’eredità (rappresentata da una miniera d’oro) contro il classico padrone della città, che in questo caso è un folle megalomane e maniaco sessuale che si fa chiamare Giulio Cesare, si crede un imperatore romano e vive in una specie di castello perennemente circondato da un harem di donne seminude e da lascivi leccapiedi (uno scenario da Roma precristiana o seconda repubblica italiana), interpretato dal grande Enrico Maria Salerno, al suo secondo western dopo Bandidos.

Difficile dare conto delle bizzarrie del film: il pistolero interpretato da Thomas Hunter, già visto in Un fiume di dollari e che qui pare il sosia sputato di George Hilton, a un certo punto entra in un saloon, fa fuori in un colpo solo sette avversari con la sua pistola assurda (bisogna vederla) e poi se ne esce tranquillo dopo aver pagato il conto, in un’altra scena vediamo un individuo viscido e vestito di bianco che mangia una banana e poi mette la buccia nella scollatura di una ragazza che gli sta lustrando le scarpe.



La cosa più incredibile è che nonostante stravaganze kitsch e deliri visivi, e forse anche grazie a queste, il film funziona piuttosto bene e ha anche un certo ritmo.
Del resto il budget a disposizione del regista, Enzo Peri, al suo primo e ultimo film, non era certo tra i peggiori e anche tecnicamente la pellicola è piuttosto curata, con una buona fotografia di Otello Martelli, delle coinvolgenti musiche di Marcello Giombini e delle belle scene di cavalcate (gli animali usati facevano parte della guardia presidenziale algerina e anche a un occhio non esperto appaiono ben diversi dai brocchi che si vedono in tanti sottoprodotti italiani).

Il film è l’unico western mai girato in Algeria (se non nell’intera Africa) ed è coprodotto tra Dino De Laurentiis e la locale Casbah Films (quella de La battaglia di Algeri).
Se i palmeti delle oasi sono del tutto anacronistici, i canyon e i paesaggi algerini sono invece piuttosto efficaci nel trasmettere l’atmosfera del West, un po’ meno le comparse locali vestite di nero con dei fazzoletti azzurri sul viso per far risaltare meno il colore della loro pelle.
Il film è in anticipo sui tempi sia per la contaminazione del western con altri generi (come il film di arti marziali e lo spionistico alla James Bond) e anche per la vena di sottile erotismo che lo percorre, con l’aggiunta di blandi momenti sadomaso (frustate, combattimenti tra donne...), il tutto comunque molto all’acqua di rose e non di cattivo gusto: tra le numerose attrici si vedono Delia Boccardo e Femi Benussi, giovanissime.
Totalmente assurdo, ma molto divertente.

venerdì 14 febbraio 2014

Blackthorn



2011 BLACKTHORN
di Mateo Gil, con Sam Shepard, Eduardo Noriega, Stephen Rea, Magaly Solier, Padraic Delaney, Fernando Gamarra, Maria Luque, Dominique McElligott, Cristian Mercado, Nikolaj Coster-Waldau

Bolivia, 1927: Butch Cassidy (che ora si fa chiamare James Blackthorn) parte per l'ultimo viaggio verso casa, in un'avventura che lo allinea con un giovane rapinatore e rende il duo l'obiettivo per bande di malviventi e uomini di legge.

Interessante, ma non del tutto riuscito, tentativo di western spagnolo aggiornato al nuovo millennio.
Niente a che vedere con i pauperistici chorizo-western degli anni sessanta-settanta, comunque, tant’è vero che il film è stato pluricandidato ai Premi Goya (aggiudicandosi quelli per fotografia, scenografia, produzione e costumi).
Il regista, Mateo Gil, sceneggiatore di quasi tutti i film di Alejandro Amenábar, dimostra di possedere senza dubbio delle buone capacità tecniche e uno stile visivo molto moderno, ma purtroppo il suo film difetta un po’ di anima, persa tra le carrellate della macchina da presa e i paesaggi mozzafiato, e finisce per essere scandito da un ritmo troppo piatto e televisivo.



Peccato, perché sulla carta il film era invece molto interessante, dato che racconta nientemeno che le vicende di Butch Cassidy, sopravvissuto – secondo tesi peraltro attualmente abbastanza accreditate – alla sparatoria di San Vicente e ritiratosi ad allevare cavalli, vent’anni anni dopo le avventure narrate nella celebre pellicola di George Roy Hill. Ormai vecchio e stanco Butch decide di ritornare negli Stati Uniti per trovare il proprio nipote, figlio di Sundance Kid ed Etta Place (ma forse in realtà figlio suo).
Il film va avanti così, a ritmo piuttosto indugiante e indolente e seguendo una linea narrativa divagante e poco precisa, tra il viaggio nella Bolivia del 1927 e i flashback nel vecchio West.
C’è da dire che lo stupendo paesaggio boliviano, con le sue spettacolari montagne e gli infiniti deserti di sale, funziona benissimo per dare l’idea del West, anche se l’insistenza con cui il regista lo riprende alla fine diventa stucchevole.



Sam Shepard è molto bravo nella parte del vecchio pistolero, ma essendo sempre stato un caratterista più che un primattore non riesce a tenere su il film tutto da solo, come avrebbero potuto fare Newman o Redford.
Gli attori che lo affiancano, a parte Stephen Rea, sono tutti abbastanza inadeguati, a partire da Eduardo Noriega (una specie di tremendo Scamarcio spagnolo).
Nonostante il rammarico per quel che avrebbero saputo fare autori più dotati con materiale simile merita comunque una visione, se non altro per la serietà e la professionalità con cui è condotta in porto l'operazione, tanto più ammirevoli visto che sono applicate a un genere oggi desueto e fuori moda e davvero invidiabili se paragonate alla sconfortante situazione della cinematografia italica.

giovedì 6 febbraio 2014

Tombstone



1993 TOMBSTONE
di George Pan Cosmatos. Con Kurt Russell, Val Kilmer, Sam Elliott, Bill Paxton, Powers Boothe, Michael Biehn, Charlton Heston, Jason Priestley, Jon Tenney, Stephen Lang, Thomas Haden Church, Dana Delany, Paula Malcomson, Lisa Collins, Joanna Pacula, Harry Carey Jr, Billy Bob Thornton, Billy Zane, Terry O'Quinn, Frank Stallone, Pedro Armendáriz Jr, Robert Mitchum (narratore)

Uno dei western con cui Hollywood pensò bene di affossare nuovamente il genere, dopo che per un po' era rinato a nuovo interesse grazie al successo di film come "Balla coi lupi", "Gli spietati", "L'ultimo dei Moichani" e "Geronimo" (quest'ultimo più apprezzato dalla critica che non dal pubblico). Nato per far concorrenza a "Wyatt Earp" con Kevin Costner e riuscendo nell'intento, visto che "Tombtone" fu un discreto successo in America, mentre "Wyatt Earp" un flop micidiale.

Ha quasi dell'incredibile l'imegno che gli autori sembrabo averci messo per confermare i peggiori luoghi comuni sul genere, girando un film lento, anacronistico, polveroso, retorico, pomposo. Regia e fotografia tentano di essere classicamente anonime, ma non azzeccano quasi mai le giuste atmosfere. Più che i classici anni 40 e 50 il modello vero sembrano i film tutto eroismo e epica del De Mille degli anni 30, ma senza possederne l'ingenua grazia e l'eleganza spettacolare. Ma l'elefantiaco Cosmatos ("Rambo 2 - La vendetta" e "Cobra" i gioielli non troppo preziosi della sua filmografia) non doveva avere le idee molto chiare su dove andare a parare stilisticamente, perché nel film c'è dentro di tutto: l'inizio è "spaghetti", la sfida all'OK Corrall realistica e crepuscolare, il disegno dei personaggi melodrammatico. E che dire del finale romantico? Una roba non solo per nulla western, ma che metterebbe in imbarazzo anche in una trasposizione di un romanzo di Nicholas Sparks.

Detto ciò, il tempo è il solito galantuomo, perché rivedendolo dopo tanti anni l'irritazione che il film poteva provocare all'epoca si può anche tramutare in spassoso compatimento. Diciamo che il filmastro di Cosmatos nella sua balordaggine è quasi divertente. E che, sia pure in modo sgangherato e grossolano, almeno trasmette un vero affetto per il genere. Probabilmente per questo gode di un ottimo culto in America.
Certo, poi mette tristezza vederlo a volte citato addirittura tra i migliori western di ogni tempo.



Altro probabile motivo per cui il film oltreoceano è un cult è l'infinita - al limite del surreale - parata di facce più o meno note del cast. Un cast ad altissimo tasso di carisma, bisogna ammettere.
Nonostante dei ridicoli baffoni appiccicati in faccia, se la cavano i due attori protagonisti. Kurt Russell come Wyatt Earp gioca facile nella parte del duro incorruttibile tutto digrignamento di denti e occhiatacce torve. Val Kilmer nella parte del tubercolotico Doc ha in mano il personaggio migliore del film e riconferma la sua predilezione per i ruoli da sfasciato. Il vero baffuto Sam Elliott e Bill Paxton come coprotagonisti gli reggono il gioco. Il reparto cattivi può contare sulla facce da duri di gente come Powers Boothe, Michael Biehn (l'eore maschile del primo "Terminator") e Stephen Lang (il marine cattivo di "Avatar"). E poi ci sono i camei di Charlton Heston (il ranchero), Harry Carey Jr. (il vecchio sceriffo), dei divetti Billy Zane e Jason Priestley (quello di "Beverly Hills", che qui interpreta un personaggio assurdo, che di fatto ad un certo punto viene dimenticato dalla sceneggiatura), della bella Joanna Pacula come volto più noto del reparto femminile. Non basta? Nel film ci sono pure il fratello di Sylvester Stallone (Frank), un figlio di Robert Mitchium (Christopher), il futuro pelatone di "Lost" Terry O'Quinn, un discendente del vero Earp (tal Wyatt Earp III) e un assolutamente irriconoscibile Billy Bob Thorton, con almeno trenta chili in più di come siamo abituati a conoscerlo. E per finire la voce narrante in originale era di Robert Mitchum, in Italia quella non meno rappresentativa di Ferruccio Amendola.

Più amabile del rivale "Wyatt Earp" con Costner, anche se in fin dei conti è il corrispettivo cinematogtrafico del Wild West di Buffalo Bill: una parata circense che glorifica un passato facendone l'involontaria parodia.

martedì 4 febbraio 2014

Cain's Cutthroats / Cain's Way / Justice Cain / The Blood Seekers



1971 Cain's Cutthroats / Cain's Way / Justice Cain / The Blood Seekers
di Ken Osborne. Con John Carradine, Scott Brady, Valda Hansen, Robert Dix, Don Epperson, Darwin Joston, Ttereza Thaw

Frugando nei sottoboschi delle cinematografie di mezzo mondo alla ricerca del gioiello misconosciuto, del titolo stramboide da esibire, dell'autore forse ingiustamente dimenticato, si finisce molto spesso a guardare un bel po' di spazzatura. La sensazione di star buttando via più o meno preziose ore di vita che ogni tanto ne consegue è uno dei motivi per cui, da parte di chi scrive, ogni tanto questo blog va in stand-by per mesi.
Quel rischio è maggiore quando ci si immerge negli abissi senza fondo della serie Z del cinema. Quella (ci si illude) tutta sesso e violenza, in cerca di visioni brutte e maleducate e quindi (ci si ri-illude) più libere e selvagge di quelle del cinema convenzionale.

La poco poetica realtà è che la stragrande maggioranza delle volte ci si trova davanti a film auto-censurati e goffi, dove gli unici brividi morbosi sono dovuti a qualche poster ammiccante e a titoli sensazionalisti (spesso più d'uno per film, come nel caso in questione). Altrettanto spesso ci si trova davanti a pellicole faticosamente costruite attorno a due o tre scene forti o presunte tali, ma dove nell'attesa di quelle singole sequenze si muore solo di noia. Ogni tanto si becca il film che tenta realmente la carta dell'estremo, ma in cui spesso si esagera al contrario, scadendo nel grottesco e nel ridicolo involontario a forza di accumulare effettacci e finendo comunque nella noia. E' invece davvero raro beccare il filmetto brutto, sporco e cattivo, ma che si lascia guardare e con una sua ragione di esistere. Uno di quei rari casi è questo Cain's Cutthroats / Cain's Way / Justice Cain / The Blood Seekers.

Diretto da tal Ken Osborne, regista di cinque dimenticatissime pellicole tra il 1965 e il 1974 (e neanche fosse Malick, un sesto titolo arriverà nel 2008). Una filmografia che sembra uscire dal sogno bagnato di un appassionato di cinema vintage americano: un dramma sudista, un film di motociclisti, un western di vendetta, un carcerario femminile e... un film su un tizio che cambia in meglio la sua vita scoprendo Gesù.



Sei reduci sudisti che sembrano usciti da un fagioli western italiano (nell'attesa prima di una rapina si grattano, sputano, si scaccolano, si prendono per i fondelli come bambinoni non troppo svegli) compiono una sanguinosa rapina ai danni di un carro militare. Poi si presentano a casa di un loro ex-capitano, che nel frattempo si è fatto una famiglia e una vita onesta. La rimpatriata va a finire malissimo con i sei mentecatti che stuprano e uccidono la moglie, accoppano il figlioletto e a buon conto danno fuoco anche alla casa. Nel resto del film ovviamente vedremo il furente capitano, il cui nome è - sottilissima metafora - Justice Cain, inseguire i sei debosciati trucidandoli uno ad uno.

Cain's Cutthroats è appunto un film sporco e cattivo, anche se non proprio brutto. O perlomeno non bruttissimo. Relativamente a questo tipo di prodotti è girato con un minimo di dignità, gli attori sono passabili e hanno le facce giuste, la narrazione è spiccia e coerente. A livello di trama non è niente di più che il solito, prevedibile e truce revenge movie che ci si può aspettare da questo tipo di cinematografia, uno di quei film dove a scena scontata segue scena ancor più scontata. Eppure a modo suo riesce ad essere anche un film dall'aria curiosa. Il tono generale è strano, stralunato e sottilmente ironico, in contrasto con la truculenza della storia. Le scene d'azione sono veloci e ben spruzzate di sangue, ma la violenza incredibilmente non è quasi mai totalmente gratuita, con un che di balordo e casuale che la rende inquietante. I personaggi parlano molto, quasi come in un film di Tarantino (pur non avendo certo a disposizioni dialoghi altrettanto brillanti) e ogni tanto svelano sfumature non banali. Anche l'anti-climax finale non è esattamente quello che ci si aspetta abitualmente in film di questo tipo.

Il pregio maggiore del film è che, in contrasto con la tradizione del genere, il sentiero della vendetta intrapreso dal protagonista non è solitario. A lui si affiancano due personaggi: un irresistibile prete-buonty killer, che gira il West con il suo carro e un barile dove tiene in salamoia le teste dei fuorilegge che ha ucciso e una simpatica prostituta. Personaggi ben delinati che donano un tocco di umanità alla tipica meccanicità narrativa dei revenge movie.



Praticamente sconosciuto da noi il protagonista Scott Brady era un attore western molto famoso in America. Qui è una specie di John Wayne dei poveri, ma con un'espressione malinconica che lo fa assomigliare ad un forzato della serie Z come Lon Chaney Jr. 
Un altro forzato di quella filmografia era il grande John Carradine, qui nella parte del prete cacciatore di taglie. Ne ha girati a decine e decine di filmacci inguardabili in cui l'unica cosa da salvare era la sua faccia messa lì a fare la parte di un vecchio matto a caso. Stavolta invece ha tra le mani un personaggio ricco di umorismo nero, con cui diverte e ha l'aria di divertirsi.
Il più squiternato dei sei debosciati (per divertimento taglia la mano ad un poveraccio) è interpretato da Darwin Joston, che guadagnerà un suo posticino nella storia del cinema qualche anno dopo interpretando il Napoleon Wilson di Distretto 13 di Carpenter.
La simpatica e prosperosa Valda Hansen che interpreta la prostituta aveva iniziato la carriera nei film di Ed Wood. In confronto, un film del genere doveva esserle sembrato un kolossal.