venerdì 25 marzo 2016

The Hateful Eight


2015 THE HATEFUL EIGHT
di Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demián Bichir, Tim Roth, Michael Madsen e Bruce Dern

Ogni nuovo film di Quentin Tarantino è sempre un evento. E da quando il cineasta americano ha deciso di dedicarsi al nostro genere preferito, coltivando l’ambizione di essere ricordato come un regista western e di vedere i suoi film «in uno scaffale insieme a quelli di Peckinpah, Leone, Corbucci e Boetticher», per noi appassionati l’evento diventa ancora più grande. Tanto più che nello sconsolante panorama cinematografico odierno, caratterizzato da prodotti puerili e para-adolescenziali studiati a tavolino e costruiti in serie dai manager delle grandi case di produzione per venire indirizzati a spettatori sempre più passivi e anestetizzati, il fatto di riuscire ancora a lavorare con budget da decine di milioni di dollari e allo stesso tempo a girare unicamente i progetti che “sente” e desidera, seguendo caparbiamente le sue ossessioni e la sua visione e mantenendo il controllo totale sul final cut e su tutte le fasi della lavorazione (distribuzione compresa), è più unico che raro e, oltre a rendercelo ancora più prezioso (e simpatico), ce lo fa avvicinare a grandi registi-demiurghi come Stanley Kubrick e Sergio Leone, ai quali nemmeno troppo velatamente Tarantino sembra ora volersi ispirare.

A indicare la grandeur di Tarantino basterebbe la scelta del tutto anacronistica, oltre che molto costosa, di girare questo suo ultimo film non solo su pellicola, in piena era digitale ormai completamente abbandonata, ma anche in 70 millimetri e addirittura in un formato panoramico non più usato da 50 anni (l’Ultra Panavision 70) e alla decisione di affiancare alla normale distribuzione una pre-release analogica replicante fedelmente le modalità di proiezione dei kolossal degli anni ’50 e ’60 che prevedevano un’ouverture musicale e un intervallo di 15 minuti (la versione del film distribuita, purtroppo in poche sale, in questo formato raggiunge la durata-monstre – anche per Tarantino – di ben 187 minuti). La cosa non ci sembra un semplice vezzo cinefilo ma anzi perfettamente esemplificativa del modo di Tarantino di intendere la settima arte, la maniera migliore per affermare perentoriamente a tutti che lui sta facendo (grande) cinema.


Il regista pulp e citazionistico delle prime opere ha infatti ormai lasciato posto a un Autore a tutto tondo, padrone di una cifra stilista inconfondibile e personale e il giochino di trovare i riferimenti più o meno nascosti nelle sue pellicole lascia sempre più il tempo che trova. L’impressione, insomma, è che Tarantino, pur tenendo sempre ben presente la lezione dei grandi maestri che lo hanno preceduto, abbia ormai pagato i suoi debiti di ispirazione e sciolto i legami col passato intraprendendo una nuova strada del tutto autonoma, unica e innovativa.

Il riferimento cinematografico più immediatamente contiguo per The Hateful Eight è infatti un altro film tarantiniano, Le iene, di cui ripropone la struttura narrativa e le caratteristiche di messa in scena, di impianto molto teatrale, con le medesime unità di tempo, luogo e azione e un gruppo di motherfuckers chiusi forzatamente in una stanza a scannarsi tra di loro. Tarantino stesso poi indicherebbe anche una derivazione dalle serie televisive western degli anni sessanta (da cui dipende certamente anche la scelta di chiamare il personaggio interpretato da Samuel L. Jackson con il nome del produttore di Bonanza e Rawhide Charles Marquis Warren) in cui in un episodio a stagione capitava che i personaggi principali venissero presi in ostaggio da un gruppo di fuorilegge con un passato oscuro da rivelare e il pubblico doveva scoprire chi fossero buoni e chi i cattivi. L’idea iniziale di Tarantino era appunto quella di fare un film unicamente su queste tipologie di caratteri, dando loro delle armi e rinchiudendoli in una stanza a discutere delle loro storie, senza però un personaggio positivo a fare da punto di riferimento morale.


Beffardo fin dal titolo – ché gli “odiosi” protagonisti del film non sono solo gli otto che compaiono nella locandina e, a ben guardare, questo non è nemmeno l’ottavo film di Tarantino (difficile infatti non considerare Kill Bill come un’unica pellicola ) – The Hateful Eight non è, come del resto era facile aspettarsi, un film western nell’accezione canonica che si da al termine, ma molto d’altro e molto di più.
Diviso simmetricamente in due parti uguali e contrapposte – la prima eminentemente di attesa poggiata solo sui dialoghi fluviali tra i personaggi e la seconda con l’incandescente deflagrazione dei conflitti tra gli stessi tra picchi di sadismo e fiumi di sangue - The Hateful Eight è un filmone enorme, ingombrante, esaltante e repellente. Da digerire, rivedere, rimuginare.

Un western misantropo da teatro delle crudeltà, ma anche un giallo che non rispetta nessuna regola del giallo, e un dramma da camera che si trasforma in un horror senza il sollievo del soprannaturale. Lentissimo, parlatissimo, nerissimo, grottesco: com’era facile aspettarsi dalle premesse è il film di Tarantino più anti-commerciale e ostico. Tarantino non cerca mai il coinvolgimento dello spettatore. L'ironia è biliosa, non c’è nessuna gag di alleggerimento, nessun dialogo mirabolante, nessun twist che lascia a bocca aperta. L'unica sequenza vagamente cool e killbilliana, col giochino temporale che ci si può aspettare dall'autore, è il capitolo "I quattro passeggeri", che però è un lento e sadico gioco ai danni dello stomaco degli spettatori - che ormai già hanno capito cosa è accaduto e quindi sta per accadere. Un gioco che nessuno vuole davvero veder portare avanti.

Il consueto apparato citazionista tarantiniano è ridotto ai minimi termini, con riferinenti presi alla lontana, smontati, masticati e assimilati nella storia in modo fluido e poco eclatante. Un processo opposto rispetto al caleidoscopico affastellarsi di schegge dell'immaginario (più o meno) collettivo di Django Unchained.
Significativo, ad esempio, come rimangano sotterranei i molteplici e fecondi riferimenti a "La cosa" di Carpenter, di cui addirittura per la colonna sonora sono stati ripresi alcuni brani inediti dello score morriconiano del '82, quando ad un primo, superficiale livello di lettura saltano agli occhi forse solo la presenza di Kurt Russel e l'ambientazione nevosa.

Il clima di sulfurea attesa dell'interminabile prologo sembra uscire da un film di Jim Jarmusch e soprende trovare in un western l'influenza massiccia di un autore molto poco western come Polanski. Meno soprendenti ma altrettanto gradite le influenze di un paio dei più corrosivi cantori della fine del mito del west cinematografico come Cimino e Altman. Nonostante la celebrata presenza di Morricone (usato in modo anti-leoniano, il motivo principale è una di quelle sue marcette stralunate alla Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) e gli omaggi a Corbucci, c'è invece pochissimo degli spaghetti western.
The Hateful Eight è un film americanissimo, nella forma e nella sostanza. Dove non solo Tarantino continua il suo filone di film politici, ma rilancia, abbandonando temi genericamente umanitari dei due film precedenti e affondando il bisturi in uno dei fondamenti della società americana, fino ad arrivare ad un finale paradossale degno - appunto - dell'Altman più virulento.

A livello visivo è allo stesso tempo il suo film più classico e rigoroso, ma anche il più complesso e affascinante. Un tripudio di fiocchi di neve, lanterne, focolai, luccichii, riflessi, luci, penombre. La scelta di girare in 70 mm un film quasi interamente ambientato in un interno dilata gli spazi, ingigantisce e impegna la visione come da anni non siamo più abituati, almeno nel cinema americano.


Il cast è di quelli che con Tarantino andrebbe in stato di grazia anche col pilota automatico.
I poli estremi sono Tim Roth con le sue giravolte istrioniche e il torpore fatiscente di Madsen. Ma è Jennifer Jason Leigh quella che impressiona e inquieta. Eppure non era stata nemmeno la prima scelta per il personaggio di Daisy, per cui inizialmente era stata prevista un'attrice più giovane e "glamour". Visto il film impossibile immaginare chiunque altra. La sua ultima ultima scena, grottesca e allucinata, è uno delle sequenze horror più potenti degli ultimi anni, un'immagine iconica quasi come la Carrie di Sissy Spacek e la Regan di Linda Blair. Goggins, il mefistofelico coprotagonista della serie televisiva "Justified", al suo primo ruolo di rilievo non televisivo tiene testa alla grande ai cinematografici faccioni mitologici che gli stanno attorno. L'unico che ci è sembrato fuori luogo è stato Channing Tatum, l’opzione inizialmente prevista di James Remar era probabilmente più calzante.

Dopo questo dittico-capolavoro Tarantino pare intenzionato a continuare a dare il suo contributo al western con almeno un altro film, che dovrebbe chiudere un’ideale trilogia (anche perché secondo lui «devi fare tre western per poterti definire un regista western») e che dovrebbe continuare a parlare del tema razziale (la supremazia dei bianchi e il razzismo istituzionalizzato degli Stati Uniti com’è noto sono argomenti molto sentiti dal regista), che è l’unico apporto innovativo e originale che ha affermato di poter aggiungere al genere. Noi possiamo solo sperare che l’attesa non sia troppo lunga.

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