giovedì 14 marzo 2024

UCCIDERO' WILLIE KID


1969 UCCIDERO’ WILLIE KID (Tell Them Willie Boy is Here
di Abraham Polonsky con Robert Redford, Robert Blake, Susan Clark, Katharine Ross, Barry Sullivan, Charles Aidman, Charles McGraw, John Vernon, Lloyd Gough, Ned Romero, Robert Lipton, Shelly Novack

Unico, notevolissimo western di Abraham Polonsky, e suo secondo film a più di vent’anni di distanza dal primo, l’altrettanto rilevante noir Le forze del male con John Garfield, del 1948. Purtroppo si tratta anche della sua penultima pellicola: la sua carriera come regista si concluderà due anni più tardi con l’interessante ma sfortunato Romanzo di un ladro di cavalli, con la miseria di appena tre film all’attivo.

La carriera cinematografica di Polonsky fu di fatto stroncata nel 1951, quando venne inserito nella famigerata ‘black list’ per essersi rifiutato di testimoniare davanti al Comitato sulle attività antiamericane, che metteva alla sbarra e poi al bando registi e sceneggiatori hollywoodiani sospettati di simpatie comuniste, un’autentica pagina nera della società statunitense ancora oggi abbastanza sottaciuta (anche al cinema: ricordiamo solo Il prestanome con Woody Allen e Indiziato di reato con Robert de Niro, a cui – non accreditato – collaborò lo stesso Polonsky).
Nell’approcciarsi al western Polonsky non è evidentemente interessato a rispettarne le convenzioni, ma come con il noir ne utilizza piuttosto le dinamiche interne per scagliare un vibrante atto di accusa verso l’establishment a stelle e strisce, impiegando in primo luogo in chiave simbolica quelli che nel cinema western sono sempre stati tradizionalmente considerati i paria e i reietti: i nativi americani. 

Il film, uno dei primissimi di quel magmatico e ribollente movimento che fu poi definito ‘New Hollywood’, precede la stagione dei grandi western revisionisti e filo-indiani come Piccolo Grande Uomo e Soldato blu, distanziandosene, però, per un cinismo di fondo difficilmente ravvisabile anche nelle disincantate produzioni coeve. 

Nel racconto della persecuzione, dell’inseguimento e infine della messa a morte di un indiano Paiute – un fatto realmente accaduto in California nel 1909 e narrato in un libro del 1960 dal giornalista Harry Lawton – contro cui viene organizzata una caccia all’uomo che coinvolge l’intero stato, con la partecipazione attiva e sempre più compromessa di stampa e politica, più che una allegoria sulla guerra del Vietnam (come in molte delle pellicole “dalla parte degli indiani”) non è difficile intravedere un ritratto in filigrana dello stesso regista e, più in generale, una metafora della caccia alle streghe del periodo maccartista. 


In Tell Them Willie Boy is Here (già il titolo originale sottende la denuncia, la delazione, di cui il regista fu vittima) la messa a nudo dei meccanismi di sopruso e violenza innati nella società americana e del modo in cui essi vengono utilizzati per ottenere la riscossione del consenso da parte di stampa e opinione pubblica è acuta, sferzante e senza il minimo sconto, anche a scapito della spettacolo: Polonsky è visibilmente più interessato alla dimensione psicologica, alle questioni sociali e alle connotazioni politiche più che all’intrattenimento e il film segue un suo ritmo lento e inesorabile (Paul Schrader lo ha definito un "inseguimento esistenziale"). 

E’ da non sottovalutare il contributo, soprattutto per un regista così a lungo lontano dai set, del grande direttore della fotografia Conrad Hall (lo stesso del successivo Butch Cassidy, per cui venne premiato con il Premio Oscar) nel creare l’atmosfera livida, cruda e realistica del film, spesso grazie all’utilizzo dell'illuminazione naturale – una specialità di Hall – con cui sottolineare efficacemente sia l'azione che la psicologia dei personaggi. 


Tell Them Willie Boy is Here ha due protagonisti. Robert Blake è il personaggio che da il titolo al film (Willie Kid nell’edizione italiana), il giovane indiano Paiute in fuga, mentre nella parte del vice-sceriffo Cooper che guida la squadra al suo inseguimento c’è Robert Redford. Katharine Ross e Susan Clark interpretano rispettivamente le donne di Blake e di Redford. 

Fu proprio l’interessamento di Redford – desideroso di cimentarsi con ruoli più complessi e sfaccettati – a mettere Polonsky alla direzione della pellicola. Grazie a questo film e soprattutto a Butch Cassidy, girato immediatamente dopo ma che però venne distribuito prima, Redford divenne definitivamente una star di prima grandezza nel firmamento di Hollywood.

venerdì 27 settembre 2019

RED HEADED STRANGER



1986 Red Headed Stranger
di William D. Wittliff con Willie Nelson, Morgan Fairchild, R.G. Armstrong, Royal Dano, Katharine Ross

Ballata in pellicola spiazzante e cinica come sanno esserlo molte canzoni folk. E per questo esempio singolarmente ambizioso nel filone di western interpretati da star del country nato negli anni 80, pellicole solitamente innocue che si limitavano ad esporre le star e a mettere qualche loro canzone nella colonna sonora. Red Headed Stranger fa invece della sua anima country la propria ragione d'essere. A cominciare dal fatto che e' il caso probabilmente unico di un western ispirato ad un album musicale, il cui concept viene usato come canovaccio. Il disco e' l'omonimo "Red Headed Stranger" del 1975 di Willie Nelson, un classico del country e titolo iconico che diventera' un secondo nome per il suo autore.



Si racconta di un misterioso straniero che si aggira per il West, cavalcando uno stallone nero e tirandosi dietro un baio come ricordo della moglie morta. Nel film ci viene mostrato come l'uomo fosse un pastore protestante e avesse ucciso lui stesso la moglie, dopo che lei lo aveva abbandonato e tradito. Il tutto sullo sfondo di un West visto come terra spietata, dominata da faide e morti insensate, tanto che la moglie aveva abbandonato il marito proprio per la vita troppo dura e violenta.

Se negli altri esempi di western con star del country i protagonisti sono quasi sempre portatori di un'americanita' vecchio stampo, se non sempre positiva ed eroica comunque romantica, qui abbiamo un protagonista che della cultura folk incarna il lato piu' oscuro e amorale. Il personaggio di Nelson va infatti oltre il concetto di anti-eroe, diventando in alcuni momenti un personaggio respingente. Basti pensare alla scena in cui lo si vede uccidere a sangue freddo una prostituta perche' questa, scherzando, aveva fatto il gesto di rubare il cavallo della moglie defunta.



Film che vive soprattutto di un ottimo cast. A parte ovviamente un Willie Nelson totalmente calato nella parte, ci sono grandi caratteristi come R.G. Armstrong e Royal Dano, che rappresentano i due poli morali opposti del film: il primo un onesto e umano sceriffo, l'altro il degenerato patriarca di una famiglia di assassini. Oggi un po' dimenticata, almeno in Italia, Morgan Fairchild teneva alto il suo status di sex symbol degli anni 80, con una bellezza patinata in questo caso congeniale al suo personaggio, una delicata donna dell'est fuori luogo nel selvaggio West. 

Il limite del film e' che al carattere oscuro della vicenda e del protagonista non sempre corrisponde una messa in scena all'altezza. Alla sua unica regia, il per altro non banale sceneggiatore Wittliff (che per Nelson gia' aveva scritto El Gringo Barbarosa), si limita ad una corretta, ma troppo illustrativa, esposizioni di fatti. Azzecca delle scene di violenza spoglie e casuali, ma le atmosfere e il ritmo sono un po' troppo da normale film western e il carattere gelido e crudele della storia non e' sempre assecondato. Ne consegue, ad esempio, che alcuni paradossi morali della vicenda, coerenti nella versione musicale, risultano incongrui sullo schermo, a cominciare da un lieto fine quanto meno politicamente scorrettissimo, considerato che in fin dei conti parliamo di un film su un femminicida.

mercoledì 25 settembre 2019

MADRON



1970 Madron / His Name Was Madron
di Jerry Hopper. Con Leslie Caron, Richard Boone, Paul Smith

Adorabile e misconosciutissima produzione americana girata in Isreale. Come un po' tutta la manciata di western girata da quelle parti in quegli anni ha un'aria sgangherata e poverissima. Non c'e' neanche quasi una storia, ma solo una situazione tirata per le lunghe: dopo essere sopravvissuta al massacro della sua carovana una suora si aggrega a un ispido e riluttante bandito, il Madron del titolo. Tra agguati apaches e scontri con bandoleros ovviamente tra i due nascera' del tenero.
Il modello e' chiaramente "Gli avvoltoi hanno fame" di Siegel dell'anno prima, di cui e' quasi un istant-remake da morti di fame. Anche qui si tenta di unire una certa estetica spaghetti western (le belle musiche sono di Riz Ortolani) al filone dei western commedia che andavano di moda in America ai tempi. Nonostante la disparita' di mezzi, e nonostante Jerry Hopper (al suo ultimo film) non sia chiaramente Siegel, e' uno di quei casi in cui la serie B, anzi la C, batte la A.

La poverta' estrema della messa in scena, visibile anche in qualche scena d'azione montata un po' a caso, finisce per sembrare quasi poetica, coi due protagonisti che per quasi tutto il film vagano soli in mezzo al giallognolo e fascinosamente desolato deserto isrealiano.



Sono proprio i protagonisti che funzionano meglio rispetto al film di Siegel. Leslie Caron fa molte meno smorfie della McClaine ed e' dolce e bellissima, forse piu' di quanto non sia mai stata neanche da giovane (qui andava per i 40), col volto incorniciato  dal velo bianco da suora ha persino un che di rinascimentale. Anche Richard Boone e' un attore piu' versatile di Eastwood, e sa dosare meglio cialtroneria, timidezza e romanticismo. Tra i due l'intesa sembra vera e soprattutto negli ultimi venti minuti di film raggiunge una bella intensita' malinconica, fino al triste epilogo.

In Italia e' circolato (probabilmente poco) con l'anonimo e assurdo titolo "La valle dei comanches".

martedì 18 settembre 2018

GOLD



2013 Gold
di Thomas Arslan di Nina Hoss, Marko Mandic, Peter Kurth, Uwe Bohm

Canada 1898: una piccola carovana di emigrati tedeschi viaggia verso ovest, attirata dal miraggio dell'oro. Mal gliene incolse.

Questo piccolo film tedesco, la cui uscita in questo blog avevamo pure segnalato all'epoca (con qualche dubbio) e che poi non avevamo piu' ripreso, nulla ha a che fare con gli avventurosi kraut western degli anni 60. Puo' funzionare, piuttosto, come una specie di cartina di tornasole del genere degli ultimi anni, dato che sembra racchiudere molti elementi che hanno caratterizzato diversi dei non molti, ma nemmeno pochi, western usciti in questo decennio ormai agli sgoccioli. C'e' l'ormai quasi irrinunciabile protagonista femminile (l'ottima e affascinante Nina Hoss), c'e' il ritmo tipico da film indipendente: "troppo lento" o "fascinosamente meditativo" a seconda dei gusti, c'e' la visione di un west scolorito e inospitale come non mai, c'e' il viaggio verso il nulla dominato dalla presenza costante della morte.

Gold assomiglia molto a Meek's Cutoff, ma l'opera minimalista di Kelly Reichardt potrebbe quasi passare per un normale film hollywoodiano in confronto a questa ancor piu' prosciugato film di viaggio all'insegna della morte, dove si parla ancora meno, dove i personaggi sono visti quasi come insetti e muoiono spesso da tali. Il fantasma di un altro titolo aleggia su tutta la pellicola, quello di Dead Man di Jim Jarmusch, del resto evocato esplicitamente dalla colonna sonora. E in effetti i personaggi, caratterizzati il meno indispensabile e tutt'altro che simpatici e accattivanti, sembrano dei tanti piccoli "dead men", immersi in un Far West piu' indifferente e letale dello spazio profondo, dove si puo' morire o cercare volontariamente la morte ad ogni passo, spesso per i motivi piu' futili e casuali. Raramente si e' visto un western piu' "ateo", sia in senso letterale, sia nel senso di "fede" nel genere cinematografico, dato che tutti i luoghi comuni del genere sembrano svuotati di ogni senso e possibile risvolto positivo. Al termine del film, dopo un ossessivo susseguirsi di alberi dopo alberi, non c'e nemmeno un qualche Cuore di Tenebra o la fine del viaggio, ma solo altra morte casuale e ancora altri alberi.

Operina a suo modo radicale, spietata e gelida, fatta apposta per respingere o per affascinare.

venerdì 14 settembre 2018

HOSTILES

>

2017 Hostiles
di Scott Cooper con Christian Bale, Rosamund Pike, Wes Studi, Adam Beach, Q'orianka Kilcher, Rory Cochrane, Peter Mullan, Stephen Lang, Ben Foster

"Hostiles" e' un film interessante fin dall'idea di fondo che sembra sostenerlo: la visione dell'epopea del West come una guerra infinita e atroce, di cui il film racconta le fasi finali, tanto che tutti i protagonisti sembrano afflitti da una modernissima sindrome post traumatica da stress.
E' un film ben diretto da un solido artigiano come Cooper, che ha girato intorno al genere fin dall'esordio "Crazy Heart" (il ritratto di un cantante country alcolizzato, forse il suo titolo migliore perche' il piu' asciutto) e, ancora di piu', col successivo livido dramma suburbano "Il fuoco della vendetta".
E' un film che non ha paura di prendersi i suoi tempi e di assestare allo spettatore dei feroci pugni allo stomaco. E forse ancora piu' coraggiosamente e' un film che a livello di fotografia rinuncia agli standardizzanti e onnipresenti filtri odierni, facendo respirare gli splendidi paesaggi nei loro colori naturali.
Ed e', abbastanza ovviamente visto il cast di prim'ordine messo in campo, un film ottimamente interpretato.

Eppure a "Hostiles" manca qualcosa per fare quello scatto che eleva un buon film con tutte le sue cose in ordine a un bel film. O meglio, ha qualcosa di troppo, una specie di vergogna di raccontare quello che sta raccontando. Sostanzialmente sembra di vedere un western che chiede continuamente scusa di essere un western, con il senso di colpa che attanaglia il protagonista e i suoi compagni d'armi per il troppo sangue sparso che pare essersi trasferito agli autori. O viceversa.
Di questo vizio di base ne fa le spese la sceneggiatura, a volte claudicante con passaggi didascalici e fin troppo esemplificativi. Quando vediamo una giacca blu dell'ottocento in esaurimento nervoso che chiede letteralmente perdono ai "nativi", prima di farsi saltare il cervello, capiamo che non e' piu' il personaggio che parla, ma gli autori.

Vista la natura comunque dura e crudele del film il politicamente corretto provoca anche dei paradossi curiosi: tipo l'esasperata e continuamente rimarcata malvagita' di tutti gli avversari in cui si imbattono i protagonisti (stragisti, stupratori, prevaricatori, razzisti) che da visione foschissima della realta' del vecchio West rischia di scivolare nella paraculata, dato che finisce per giustificare agli occhi dello spettatore qualsiasi atto di violenza praticato dai "buoni".

Ad un certo punto viene anche citato, fin troppo esplicitamente, il monologo finale di Clint Eastwood de Gli spietati. Ma laddove per il personaggio di Eastwood l'aver "ucciso donne e bambini" e "creature che camminano e strisciano in tempi lontani" era un'ammissione di dannazione di dimensioni bibliche e dunque comunque epiche, lo stesso discorso messo in bocca a personaggi in preda a mille sensi di colpa (e un po' tutti dalla lacrima troppo facile) da' la sensazione di una visione quaresimale e alla fine manichea della Storia, con e senza la maiuscola.   

In definitiva, buon film "Hostiles", ma la cui affascinante cupezza odora a volte piu' di contrizione contingente che non di tragedia universale.

domenica 9 settembre 2018

DAN CANDY'S LAW / ALIEN THUNDER



1974 Dan Candy's Law / Alien Thunder
di Claude Fournier con Donald Sutherland, Kenin McCarthy, Chief Dan George, Gordon Tootoosis,  Francine Racette, Ernestine Gamble

Ispirato ad un fatto vero. Saskatchewan 1880: piu' per ottusa testardaggine che per autentico spirito di vendetta, il sergente delle Giubbe rosse Dan Candy (Donald Sutherland) si imbarca in una faida personale con un indiano cree, colpevole dell'omicidio di un suo collega e amico. 

Bellissimo e dimenticatissimo titolo canadese. Western autunnale se mai ne e' esistito uno, dato che gli splendidi paesaggi autunnali e invernali sono forse i veri protagonisti del film. Al termine dei titoli di testa Fournier viene accreditato come regista e direttore della fotografia, tutta sua quindi l'atmosfera fosca e quasi bruegheliana in cui e' immersa questa storia di stanca vendetta e quieta tragedia, con l'enormita' dei paesaggi selvaggi che minimizza le azioni degli uomini. Film quasi cronachista e anti-spettacolare, che sta dietro ai fatti e alle azioni quotidiane, che si attarda piu' a cercare la poesia nel volto di una ragazza indiana tra i rami, che non a spiegare le psicologie dei personaggi o le ragioni storiche e sociali di quel che accade.  

Un inno visivo al Canada, a quella sua aria un po' misteriosa, da West piu' freddo e filtrato da un antichita' europea. Ma di contro anche un velenoso sberleffo al mito della Giubba Rossa. Se gia' Sutherland, con la sua solo presenza, fornisce una figura di giubba rossa poco eroica e ancor meno aristocratica (in un'ironica sequenza lo si vede attendere il suo avversario nel campo indiano, ma i cree gliela fanno sotto il naso comunicando tra loro con i versi degli uccelli), ci pensa il finale a mettere in una luce definitivamente grottesca quello che in fondo fu comunque il braccio armato di una potenza colonizzatrice.

Oltre a Sutherland ci pensa il faccione di Chief Dan George, nella sua consueta parte di saggio capo indiano, a dare al film qualche lieve tocco di simpatia umana.

sabato 10 febbraio 2018

15:17 – ATTACCO AL TRENO



2018 Ore 15:17 - Attacco al treno
di Clint Eastwood con Anthony Sadler, Alek Skarlatos, Spencer Stone, Jenna Fischer, Judy Greer, Ray Corasani, Shaaheen Karabi, William Jennings, Thomas Lennon, Jaleel White, Tony Hale, Sinqua Walls, P.J. Byrne, Helene Cardona

Una piccola deviazione, ma è l’occasione giusta per dire due-tre cosette anche sul western.

L’operazione compiuta da Eastwood per The 15:17 to Paris – scritturare per un film di fiction gli autentici protagonisti dei fatti narrati, Sadler, Skarlatos e Stone, i tre cittadini americani che nell’agosto del 2015 sventarono un attentato di matrice jihadista sul treno Thalys 9364 diretto a Parigi – non è ovviamente priva di precedenti. Anzi, si può ragionevolmente affermare che il cinema nasce con tale procedimento, nel momento in cui i Lumière chiedono agli operai dello stabilimento di Montplaisir di rifare la loro uscita dai cancelli a favor di macchina (L’uscita dalle officine Lumière, 1895), o nel momento ancora precedente (1894) in cui Dickson ed Heise ingaggiano Annie Oakley per inscenare al Black Maria di Edison uno dei suoi celebri spettacoli di tirassegno. Per chi consideri le categorie del cinema evoluto o narrativo inapplicabili al cosiddetto Sistema delle attrazioni mostrative (1895-1906), ci sono esempi più vicini a noi: nel 1920, per esempio, Babe Ruth interpreta sé stesso nel brutto Headin’ Home di Lawrence Windom, ma citiamo anche il caso di Audie Murphy, che in All’inferno e ritorno (To Hell and Back, 1955) di Jesse Hibbs presenta – pur, va detto, con un’ormai quasi decennale carriera d’attore alle spalle – la propria autobiografia di reduce pluridecorato della Seconda guerra mondiale. Venendo a riferimenti decisamente più a portata di mano, è sicuramente curioso il caso di Act of valor (2012) di McCoy & Waugh, un giocattolone vagamente propagandistico che affianca ad attori più o meno noti veri SEALs e SWCC, coperti però da anonimato. L’utilizzo di real-life heroes al posto di interpreti pone dal punto di vista della teoria dell’attore interessanti questioni: sembrerebbe aprire una terza via tra immedesimazione e straniamento, quella platonica dell’anamnesi. Immagino però che Clint Eastwood direbbe di Platone quello che Wyatt Earp diceva di Amleto: «That feller was a talkative man: he wouldn’t have lasted long in Kansas». Proviamo ad avvicinarci dunque al cuore di questo bel film.

The 15:17 to Paris è per Eastwood il coronamento di un discorso intrapreso con American sniper (2014) e proseguito con Sully (2016), assieme ai quali forma uno splendido trittico sull’eroismo dell’american man. I primi due capitoli terminano con filmati di repertorio: l’uno si risolve sui funerali del vero Chris Kyle, l’altro sulla reunion del vero Sullenberger con i passeggeri del famigerato volo US Airways 1549 terminato nell’Hudson. Con il senno di poi, considerata la consequenzialità del cinema eastwoodiano, il passo successivo non poteva essere che prendere direttamente chi in quei footage ci stava. Per il regista californiano non esiste sperimentazione, soltanto necessità discorsiva. Nulla è superfluo in The 15:17 to Paris, nemmeno ciò che sembra tale: le peregrinazioni turistiche tra Italia, Germania e Olanda dei tre protagonisti, tra selfie e serate alcoliche in discoteca, servono perfettamente a dare la dimensione dell’average american man, colto anche nel suo rapporto fantasmatico con il Vecchio continente – superbo da questo punto di vista il qui pro quo sul suicidio di Hitler con la guida tedesca. In un grande libro di Richard Hofstadter, Società e intellettuali in America (Anti-intellectualism in American life, 1963), possiamo recuperare il fulminante slogan che nel 1824 riassumeva a livello popolare i due poli della campagna presidenziale allora in corso: «John Quincy Adams who can write and Andrew Jackson who can fight». L’America è sempre stata questa dualità e chi non lo accetta rischia di non coglierla nella sua anima (o di perdere le elezioni). Sadler, Skarlatos e Stone sono tre uomini jacksoniani. Non sanno "scrivere", non sono nemmeno uomini dalle carriere straordinarie – sono molti gli incidenti di percorso di Stone nell’esercito, Skarlatos è utilizzato in missioni di secondo piano, Sadler è un semplice studente - ma hanno capacità di reazione. Capacità e velocità di reazione sono concetti centrali nella cultura americana e li troviamo ovviamente esemplificati alla perfezione nel western: una Colt al fianco significa capacità immediata di risposta alla minaccia, ma la discriminante tra vita e morte dipende dalla velocità con cui tale risposta è ingaggiata. Inutile dire che la filmografia di Eastwood ha un rapporto strettissimo con l’universo (morale, etico, politico) del genere americano per eccellenza. A questo proposito non è chiaramente casuale il rimando a 3:10 to Yuma (Quel treno per Yuma, 1957) nel titolo originale: anche il capolavoro di Daves metteva in scena l’eroismo dell’uomo comune in circostanze eccezionali.

Dal punto di vista strutturale, The 15:17 to Paris è costruito come un’enorme analessi rispetto al momento topico dell’attentato. I flashback sono il Bildungsroman dei tre protagonisti, dei quali apprendiamo il rapporto complicato con l’istituzione scolastica, il milieu cristiano di provenienza, la passione per le armi ed il culto precoce del cameratismo, anticamera all’arruolamento nell’esercito di due di essi. L’insistenza sulla tematica religiosa (ritornerà enfatizzata dalla voce fuori campo nel prefinale) e sulla vocazione militare (che Eastwood, attenzione!, non appoggia ottusamente, ci mancherebbe: la locandina di Full metal jacket in bella vista non può essere casuale) non hanno nulla a che fare con la retorica nel suo abusato senso dispregiativo: ancora una volta, cadere in questo trabocchetto significherebbe ignorare una parte consistente del vecchio spirito americano - che ancora sopravvive e si fa sentire, distante dai long drink cittadini -, per la quale religione ed esercito sono momenti della comunità molto più che pratica esteriore o semplice professione. Ripassare il buon vecchio John Ford non fa mai male. Troppo lontano? Reportage di Antonio Preiti per News List, gennaio 2018. Titolo: Benvenuti nella Trumpland. L'autore chiede ad un uomo di Nashville, Tennessee, spiegazioni sui numerosissimi e monumentali presepi allestiti nei giardini delle tipiche villette a schiera. La risposta è questa:



Qual è il punto? Che Eastwood ha la schiettezza e la pulizia dei classici e paradossalmente, nell’epoca del postmoderno avanzato, è proprio questo approccio ad essere diventato straniante. Facciamo ormai fatica a ricevere un discorso che non si decostruisca dall'interno nel momento stesso in cui si dipana. Non riusciamo più a prendere sul serio nulla, ci deve essere l'ironia, ci deve essere il nichilismo a buon mercato a smontare tutto. Non siamo più abituati alla limpidezza.

Ecco, fermiamoci qui: diciamo semplicemente che The 15:17 to Paris è un film limpido. È il più bel complimento che gli si possa fare.


Paolo Antonio D'Andrea

venerdì 9 dicembre 2016

The Homesman



2014 The Homesman
di Tommy Lee Jones con Tommy Lee Jones, Hilary Swank, Meryl Streep, Grace Gummer, Miranda Otto, Sonja Richter, David Dencik, John Lithgow, Tim Blake Nelson, James Spader; William Fichtner, Jesse Plemons, Evan Jones, Hailee Steinfeld 

Non ce ne vogliano Tarantino e i Coen, ma, come già undici anni fa con Le tre sepolture, anche in questi anni 10 Tommy Lee Jones è salito in cattedra (con gli stivali da cowboy) e ha sfoderato un'opera per cui potremmo riciclare le stesse identiche parole usate per descrivere il suo capolavoro del 2005: "Non solo il probabile capolavoro western del decennio, [...] ma uno dei più preziosi e solitari film americani degli ultimi anni."
Tutto questo almeno agli occhi dei non molti che hanno avuto la possibilità di vederlo. Circostanza particolarmente difficoltosa in Italia, dove la solita distribuzione demente ha provveduto a distribuirlo con due anni di ritardo e solo per il mercato home video.

Il quarto titolo da regista di Tommy Lee Jones - contando i due tv-movie The Good Old Boys del '95 e Sunset Limited del 2011, adattamento di un testo teatrale del molto affine Cormac McCarthy - è tratto dall'omonimo e ultimo romanzo di Glendon Swarthout, che negli anni 70 aveva già regalato al cinema western la storia per l'addio di John Wayne, Il Pistolero di Don Siegel.

The Homesman è un racconto di viaggio e di follia. Tre donne impazziscono per le impossibili condizioni di vita della frontiera. Per una sorta di riscatto personale una ranchera senza famiglia (Hilary Swank) si assume l'incarico di trasportarle con un carro all'est, dove potranno essere almeno accudite. Un vagabondo a cui la donna salva la vita (Tommy Lee Jones) diventerà il suo ispido e poco motivato compagno di viaggio.

Curiosamente nel 2008 era uscito un fiacchissimo filmetto per la tv con una trama molto simile, La febbre della prateria (Prairie Fever) di Stephen Bridgewater e David S. Cass, dove a dover trasportare nella prateria con un carro tre donne impazzite era Kevin Sorbo, l'Hercules televisivo degli anni 90. E già solo questo fa intuire la differenza di tono tra le due pellicole.



Come già ne Le tre sepolture l'attore-regista dimostra di possedere una sensibilità unica, sia come narratore laconico di personaggi indimenticabili e umanissimi, sia nel saper catturare su uno schermo la gelida e indifferente bellezza della natura, riuscendo a creare atmosfere sature e nitide, di un profondità allusiva che rimanda al miglior cinema americano degli anni 70. Un altro racconto di viaggio attraverso paesaggi splendidamente desolati, che diventano lo specchio crudele in cui i due protagonisti saranno costretti a specchiarsi.

The Homesman è anche un film sulla follia, raramente sbattuta in faccia allo spettatore in modo così diretto e brutale in un film di finzione, soprattutto americano. Non si fanno molti sconti allo spettatore nel mostrare cause ed effetti della malattia mentale delle tre donne. Nella prima mezz'ora di film Tommy Lee Jones usa delle sconnessioni temporali per creare un accavallarsi imprevedibile di brevi sequenze, in cui si mescolano pugni nello stomaco (un neonato gettato in una latrina) e episodi di ambiguità fantasmatica, in cui lo spettatore non sempre comprende se quel che vede è la realtà o sono situazioni filtrate dalla mente allucinata delle tre donne impazzite.



Come in altri titoli di questi ultimi anni è un film che mette in scena un punto di vista femminile sul West. Quello distorto delle tre donne malate, che fuggono attraverso la follia da una vita di una durezza insopportabile. E quello dispertamente solitario della protagonista, condannata a restare una "signorina" perché la sua ipersensibilità e il suo bisogno di calore umano sono scambiati per smania zitellesca di trovare "l'uomo di casa" del titolo. L'immagine di Hilary Swank che finge di suonare un piano ricamato su un tappetino è una folgorante metafora del labile confine tra sanità e malattia mentale, differenza spesso stabilita solo dal contesto. Ma pur mostrando simpatia per le sue anti-eroine Tommy Lee Jones non concede letture consolanti. Se il suo è un cinema che ritrae un mondo di perdenti e di esistenze al margine, le donne in quel mondo sono destinate alle sconfitte più feroci e totali. Nessuna cura attende le tre malate alla fine del viaggio e anche il tentativo della protagonista di trovare una dignità per se stessa e per le tre poverette verrà ripagato dalla realtà nel più spietato dei modi.

Allo stesso tempo è impossibile non provare simpatia per il personaggio interpretato dallo stesso Tommy Lee Jones, nonostante sia un concentrato di tutti i peggiori vizi che si possono attribuire ad un maschio adulto: vagabondo, perditempo, sporco, rozzo, insensibile, egoista, all'occorrenza assassino spietato. L'incontro con le quattro donne lo costringe per un momento ad uscire dalla sua vita stordita e senza scopo, ma è una crescita umana da cui ricaverà solo rimorsi e il realizzare della sua irrimediabile solitudine.

La presenza di Hailee Steinfeld, nella parte della ragazzina a cui il protagonista fa una tragicomica proposta di matrimonio, suggerisce un accostamento con la recente versione de Il grinta. Se il film dei Coen descriveva un mondo in cui il paradosso e l'irrazionale erano dentro la realtà stessa delle cose, Tommy Lee Jones si spinge un po' più in là descrivendo un mondo in cui è la follia ad essere insita in ogni cosa, nella crudeltà inconcepibile della natura, nella violenza irrazionale che sembra governare il comportamento di tutti i personaggi che i protagonisti incontrano durante il viaggio.



Quello che Tommy Lee Jones ricava dal romanzo di Swarthout è anche un affondo politico nerissimo e spietato nei confronti dell'America dei giorni nostri. La metafora non potrebbe essere più esplicita e potente quando si assiste ad una delle rese dei conti finali più nichiliste e casuali mai viste. Resa dei conti non gratuita, però. Con la stessa rabbia senza speranza con cui il suo personaggio porta a compimento una vendetta che non porta alcun sollievo o senso di giustizia, così l'autore descrive una grande nazione fondata sul sangue e il sacrificio di pionieri poveracci e disperati, dove alla fine però a stabilire chi possiede cosa, a spartirsi la torta e a banchettare (letteralmente) sono solo i più ricchi e avidi. Una visione del tutto simile a quella del Cimino de I cancelli del cielo (significativa la presenza di un cameo di Meryl Streep, scoperta proprio da Cimino ne Il cacciatore), probabilmente meno scandalosa solo perché quello di Tommy Lee Jones è un film a basso costo, non un kolossal eretico che "spreca" una montagna di dollari per attaccare una società fondata sul dollaro.

Una visione che a poche settimane dalla grottesca vittoria di Trump acquista ulteriore lucidità e si illumina di luce ancora più sinistra, ma che non è ottusamente manichea. Il film si guarda bene infatti dallo scadere nella retorica inversa e non idealizza in nessun modo la figura del povero colono e dell'America provinciale, di cui anzi mostra la violenza, la grettezza, l'egoismo, l'insensibilità e soprattutto la profonda ipocrisia morale.

I tentativi di ristabilire un po' di giustizia nelle cose o anche solo i semplici atti di gentilezza sono sterili e spesso postumi: la vendetta senza catarsi del protagonista, il tentativo di dare alle tre donne impazzite un'esistenza più dignitosa da cui probabilmente non trarranno comunque beneficio, il tema delle sepultura come ultimo ed estremo atto di rispetto della dignità umana. Tema quest'ultimo che riporta a Le tre sepolture, film che nella sua cupezza necrofila lasciava nel finale uno spiraglio alla speranza, una possibilità di riscatto attraverso l'assunzione (pur coercitiva) di un senso di responsabilità verso il prossimo. Spiraglio di speranza negato in The Homesman.

Il finale è solo oblio, solitudine e disperazione affogata nell'alcool. Le uniche paradossali testimoni della vicenda sono tre donne, rese virtualmente cieche e mute della loro follia. Il tempo cancellerà ogni cosa, come la corrente del fiume porta via la lapide di legno, in una delle immagini finali più potenti e sconsolate del cinema recente.



Nel ruolo potenzialmente scivoloso delle tre malati mentali se la cavano con classe e intensità Grace Gummer, figlia di Meryl Streep, la collaudata caratterista Miranda Otto e l'attrice danese Sonja Richter.

Hilary Swank aggiunge un altro indimenticabile personaggio nella sua galleria di beautiful loser al femminile. Riesce a commuovere senza essere lacrimosa, rendendo in pieno le sfaccettature di un personaggio tanto apparentemente spigoloso e prosaico quanto alla fine fragile e poetico.

Tommy Lee Jones sembra uno dei pochi veri sopravvissuti della New Hollywood, stagione che per altro lo vide come attore di seconda fila. Mentre molti divi di quell'epoca sono tristemente decaduti, il suo carisma e la sua figura sono invece cresciuti, rendendolo oggi una specie di Clint Eastwood alternativo, meno glamour e ancora più fuori dalle mode.
Tempo fa fece molto ridere l'immagine di lui unico serio in mezzo a una ridanciana folla hollywoodiana. Anche si fosse trattato di una posa o di una gag preparata, è un'immagine che ci sembra rappresentare alla perfezione i suoi film da autore completo, un cinema adulto e serio in un panorama cinematografico sempre più infantile e scemo.

Del resto, in confronto a un film complesso, profondo e esemplare come The Homesman, anche alcuni film recenti trattati bene e benino in questo blog ci fanno un po' la figura di film per bambini.

venerdì 2 dicembre 2016

Kill Or Be Killed



2015 Kill Or Be Killed
di Duane Graves, Justin Meeks con Justin Meeks, Paul McCarthy-Boyington, Gregory Kelly, Deon Lucas, Bridger Zadina, Larry Grant Harbin, Arianne Martin, Luce Rains, Timothy T. McKinney, Edwin Neal, Michael Berryman

Una banda di tagliagole, dopo aver fatto evadere un loro complice, si mette in viaggio per andare a recuperare il bottino di una rapina. Durante il tragitto si lasceranno dietro una scia di sangue. Oltre agli sceriffi qualcosa di ben più temibile si metterà alle loro calcagna.

Bella sorpresina, che riconcilia con la spesso frustrante abitudine di rovistare nel cinema più marginale e arrabattato in cerca di perle misconosciute. Weird western, a conti fatti più western che weird, con una componente thriller al limite dell'horror, omaggiando il cinema più cinico e sensazionalista degli anni 70.

Mettiamo in chiaro la natura del film: trattasi di pellicola dignitosamente guardabile, ma assolutamente e implacabilmente low budget. Le scene d'azione sono girate al risparmio, con spari e incendi visibilmente aggiunti in post-produzione, e gli attori sembrano per lo più non-professionisti. Dice tutto che il maggior valore produttivo del film sia il fulmineo cameo di Michael Berryman, caratterista lombrosiano dal distintivo testone a cono visto in decine di b-movie dagli anni 70 ad oggi. Per altro utilizzato in una particina in cui potrebbe esserci stato chiunque altro al suo posto. Berryman è anche produttore associato del film; a naso potrebbe significare che ha lavorato gratis o per un tozzo di pane e che gli è stato promessa una parte degli (improbabili) incassi del film.

Insomma, se cercate un film fatto come dio comanda, professionale e rifinito, rivolgete la vostra attenzione pure ad altro. Se invece siete in vena di godervi lo spettacolino di un luciferino e ghignante gran-guignol allestito nel vecchio West, accomodatevi. Non è detto che ne resterete soddisfatti, ma troverete pane per i vostri denti.



Come altri western a basso budget, ma con una certa ambizione, di questi anni, Kill Or Be Killed racconta di un percorso verso il nulla e la morte. Intuizione visiva felice che il punto di arrivo del viaggio dei personaggi, il nascondiglio del bottino, sia segnato da un buco su una mappa. La storia inizia come una commedia violenta e picaresca, ma ben presto diventa un piccolo viaggio all'inferno, con un accumularsi di nefandezze che crea un clima malato di totale amoralità. Poi si trasforma ancora in uno slasher stralunato, privo di una suspense tradizionale, dove gli omicidi sembrano punizioni bibliche. Il finale, onirico e agghiacciante, è uno di quelli capaci di far venire la bava alla bocca agli appassionati della verosimiglianza, ma per chi scrive è il colpo di coda finale che eleva il tutto da filmetto interessante a operina compiuta, con una sua poetica e una sua ragione di esistere.

Lo sviluppo narrativo è quanto meno sgangherato, con almeno un paio di personaggi interessanti che si perdono per strada (tra cui un prete bellicoso), ma Kill Or Be Killed è anche un film a suo modo ben calibrato, non una pellicola che si limita a spingere biecamente il tasto della violenza. Violenza che infatti più che mostrata viene fatta intuire, esibendone più spesso le conseguenze. Le scene più crudeli vengono sempre lasciate fuori campo, con l'effetto di risultare più inquietanti, mentre abbondano invece i particolari più grotteschi (uno dei protagonisti quasi in ogni scena subisce una qualche mutilazione). Una probabile costrizione dovuta alla ristrettezza del budget trasformata in una scelta stile.

Soprattutto è un film coerente che sa creare un suo piccolo mondo allucinato. Il west messo in scena è un posto grottesco e squallido, popolato solo da prede e predatori, dove si uccide casualmente e in genere per i motivi più meschini e stupidi. Nel cervello di quasi tutti personaggi del film non alberga troppa intelligenza. A cominciare dai protagonisti. Una banda di mezzi freak i cui delitti vanno dall'omicidio a sangue freddo allo stupro, che vediamo anche commettere piccoli crimini miserabili, di solito furbamente evitati nel cinema che mette in scena dei fuorilegge. Tipo compiere una mezza strage per rubare le offerte di una chiesa o rapinare poveracci come prostitute e barcaioli.



I due registi, Duane Graves e Justin Meeks (il secondo anche attore protagonista non male, che qui mostra una vaga somiglianza con Oliver Reed, anche per via della stazza), sono una coppia di sinceri appassionati del vecchio cinema da drive in e dei grindhouse. Tra i molti emuli dunque dei soliti Tarantino / Rodriguez / Rob Zombie, ma meglio della maggior parte di quei molti. I loro due precedenti lungometraggi sono due horror che, dai trailer, sembrerebbero interessanti: The Wild Man of the Navidad del 2008, dall'originale e pittoresca ambientazione redneck, e Butcher Boys del 2012, che pare una specie di versione suburbana di "Non aprite quella porta". Sembrerebbero particolarmente ispirati nel trovare l'orrore in contesti tipicamente americani, intrisi di folklore e disagio sociale, cosa che accade anche in questa loro terza prova .

lunedì 28 novembre 2016

Westworld / Il Mondo dei Robot



1973 Westworld / Il Mondo dei Robot
di Michael Crichton con James Brolin, Yul Brynner, Richard Benjamin, Victoria Shaw

All'alba degli anni Settanta, Michael Crichton è ad un bivio. Joan, sposata in fretta e furia appena terminati gli studi ad Harvard, lo vuole stabile a La Jolla e possibilmente padre di uno o due marmocchi. Lui pretende tempo e spazio, vagheggia Los Angeles, il posto ideale per chi ha intenzione di guadagnarsi da vivere con i libri. Con i libri e con i film. Sì, perché Michael ha in mano anche un copione per il cinema e sogna di tramutarlo quanto prima in pellicola, nell'aspirazione di lanciarsi come regista. Gli sarà sufficiente sfogliarlo ancora qualche volta e dare altre due occhiate annoiate alla tradizionalista Joan perché quel bivio si trasformi in un'autostrada a corsia unica per la Città degli Angeli.

Il 1973 non è un anno facile per l'America. La galoppante crisi economica interna sembra senza via d'uscita. Il prezzo della benzina è alle stelle, la disoccupazione pure. A livello di società civile si registra un numero senza precedenti di divorzi, mentre dieci milioni di americani si rispecchiano nella lenta disgregazione della famiglia Loud, protagonista del primo reality show della storia, An American Family della PBS. Le spese folli per il mantenimento delle truppe in Vietnam, i bombardamenti criminali in terra cambogiana, le sanzioni internazionali derivate dall'appoggio militare ad Israele durante la Guerra del Kippur sono soltanto alcuni dei fattori che portano ad una sfiducia totale nelle istituzioni da parte dei cittadini. Sfiducia che sfocia in pessimismo cosmico quando, quello stesso anno, diventa definitivamente di dominio pubblico lo scandalo politico americano per eccellenza: il Watergate.

Il cinema risponde con straordinaria immediatezza allo sconfortante clima generale. Gli antagonisti dei thriller e dei crime movies diventano improvvisamente, da schegge impazzite in qualche modo "altre" rispetto all'ordine costituito che erano, membri di quelle stesse istituzioni che l'ordine dovrebbero garantirlo. Non è un caso se nel primo Dirty Harry (1971) il nemico è lo psicopatico solitario, mentre nel seguito del '73 Callahan se la deve vedere con una cricca di poliziotti corrotti. Serpico di Lumet, sempre del '73, mette al centro della narrazione, allo stesso modo, una cellula criminale interna alla polizia newyorkese. In Un duro per la legge di Phil Karlson, altro film estremamente esemplificativo del periodo, seguiamo le vicende di un reduce del Vietnam che, fatto ritorno al paese natio, lo scopre in balia di un racket che perpetra le proprie azioni illegali in connivenza con il locale distretto di polizia. È curioso ma ben comprensibile, d'altra parte, che molti successi di quella stagione siano ambientati negli anni Trenta, il periodo della Grande Depressione, in un tentativo di esorcizzazione della crisi attraverso il ricordo di un'altra crisi: si pensi a Paper Moon di Bogdanovich, alla Stangata di Roy Hill, ma anche a Come eravamo di Pollack. Hollywood, come si può ben capire, o traspone o amplifica o prova a calmierare il livore nei confronti delle istituzioni che è di un'intera Nazione. Un livore che viaggia di pari passi con una perdita di fiducia nel futuro che non è solo politica, ma addirittura esistenziale, capace di mettere in discussione la stessa retorica illuministica del Progresso, vero e proprio caposaldo della cultura a stelle e strisce.

Progresso, dicevamo. Se è innegabile che a partire dal Ventesimo secolo il Progresso vada di pari passo con l'ampliamento smisurato dell'apparato tecnologico, è altrettanto pacifico che, tra tutti i generi cinematografici, sia quello della fantascienza a rendere al meglio il senso ambiguo di fascino e terrore che il connubio Tecnica-Progresso suscita nell'uomo occidentale. In quei tempi di sperimentazioni su sistemi di controllo satellitare e ipotesi sempre meglio argomentate sulla possibilità della clonazione genetica, accolte dall'opinione pubblica nel clima di ansia socio-politico-esistenziale di cui sopra, è così inevitabile che escano sci-fi distopiche sul fallimento della tecnoscienza (Il giorno del delfino di Mike Nichols), metafore di instabilità governativa e militare (con riferimenti alla realtà dei colpi di stato in Afghanistan e Cile di quell'anno: Anno 2670 - Ultimo Atto di Jack Lee Thompson), proiezioni disperate sull'America del futuro, martoriata da crisi energetica e sovrappopolazione (2022: I Sopravvissuti, capolavoro di Richard Fleischer). In questo gruppo potremmo tranquillamente inserire, di primo acchito, anche il nostro Westworld. E lo faremo, in parte. Non fosse che il film di Crichton si rivelerà essere qualcosa di più irregolare, sottilmente ambizioso e larvatamente epocale di tutti i film suddetti.



Abbiamo lasciato Crichton alle porte di Los Angeles. Quello con gli studios hollywoodiani non è un incontro subito idilliaco: ci impiegherà tre anni a trovare i finanziamenti per il suo Westworld, un progetto giudicato inizialmente da tutti troppo costoso. Il definitivo sì della Metro-Goldwyn-Mayer verrà pronunciato ad un prezzo: rinunciare ad ambientare la storia in un mondo "troppo" futuristico e, soprattutto, attenersi ad un tempo di lavorazione tassativamente non superiore ai sei mesi. Crichton accetterà e vincerà la sfida, ripagata poi da un inaspettato successo al botteghino.

Westworld ha a che fare innanzitutto con un tema che ritorna in maniera quasi ossessiva lungo l'opera di Crichton, quello che potremmo definire del "parco a tema con sorpresa". Lo troviamo già in un romanzo del '70, Sua eccellenza la droga, quando ancora si firmava con lo pseudonimo John Lange, ma l'esempio più celebre è chiaramente Jurassic Park. Riassumendo: in un futuro prossimo il progresso informatico ha permesso la creazione di un enorme centro vacanze suddiviso in tre zone corrispondenti ad altrettante epoche storiche, Ovest americano dell'Ottocento, antica Roma e Medioevo. I tre mondi sono abitati da androidi dotati di una sviluppatissima intelligenza artificiale, tale da consentire un'interazione totale con gli ospiti umani. Non fosse che, ad un certo punto, per un non meglio precisato guasto tecnico, le macchine si ribellano all'uomo e da vittime designate (è infatti possibile, ad esempio, "uccidere" in duello il pistolero o il cavaliere teutonico di turno) si trasformano in fredde e spietate assassine. L'antagonista principale sarà un pistolero vestito come il Chris Adams dei Magnifici sette, interpretato non a caso dallo stesso Yul Brynner.

Che cosa e quanto c'entra Westworld con il western? La risposta non è delle più semplici. Formalmente stiamo parlando di un film di fantascienza. È giusto allora dire che Il mondo dei robot è un film sul western, inteso nel senso più ampio possibile di immaginario e di apparato mitologico. In un modo bizzarro, tutto suo, è uno dei capitoli più esemplificativi di tutto il western revisionista, uscito per una strana coincidenza in corrispondenza con la chiusura di una delle serie televisive più longeve e amate del genere, Bonanza. Il West, la grande sede del Mito americano, è ridotto ad attrazione estiva per turisti in cerca di emozioni forti. Esiste metafora più chiara, in particolar modo se collegata allo spirito dei tempi su cui ci siamo volutamente soffermati sopra? Il tema del fallimento della tecnologia si unisce immediatamente a quello del fallimento dei principi che hanno definito simbolicamente un'intera Nazione. Siamo proprio nel '73: Westworld, se ci pensiamo, non è soltanto il mondo del West, ma anche il mondo occidentale. Da un punto di vista interno al cinema, il film non si limita ad una revisione ironicamente pessimistica sullo stato di un genere, il western, e dei valori in esso contenuti. Sembra anzi andare a toccare in maniera parodistica le stesse basi storiche della mitopoiesi cinematografica americana: nella strutturazione "per epoche storiche" riecheggia addirittura Intolerance di Griffith, trasformando però in gioco infantile quella che nella pietra miliare del '16 era epica morale.



Tutto quanto detto, è bene ricordarlo, avviene sotto l'egida dell'intrattenimento e dello spasso puro. È un film che funziona benissimo tuttora a livello di ritmo e presa. Yul Brynner, perfetto, preconizza la funzionale inespressività robotica che farà la fortuna di Schwarzenegger e James Cameron. Crichton dirige con la semplicità e la sicurezza di un veterano. Westworld è insomma un piccolo gioiello che racconta come pochi altri la capacità del cinema di genere di confrontarsi con il proprio tempo, permettendosi di affrontare temi cruciali senza perdere mai la comunicatività spiccia con lo spettatore.

Paolo A. d'Andrea


Per le note biografiche su Crichton ho consultato M. Cialani, Il cinema di Michael Crichton, Aracne Editrice, 2015.