venerdì 9 dicembre 2016

The Homesman



2014 The Homesman
di Tommy Lee Jones con Tommy Lee Jones, Hilary Swank, Meryl Streep, Grace Gummer, Miranda Otto, Sonja Richter, David Dencik, John Lithgow, Tim Blake Nelson, James Spader; William Fichtner, Jesse Plemons, Evan Jones, Hailee Steinfeld 

Non ce ne vogliano Tarantino e i Coen, ma, come già undici anni fa con Le tre sepolture, anche in questi anni 10 Tommy Lee Jones è salito in cattedra (con gli stivali da cowboy) e ha sfoderato un'opera per cui potremmo riciclare le stesse identiche parole usate per descrivere il suo capolavoro del 2005: "Non solo il probabile capolavoro western del decennio, [...] ma uno dei più preziosi e solitari film americani degli ultimi anni."
Tutto questo almeno agli occhi dei non molti che hanno avuto la possibilità di vederlo. Circostanza particolarmente difficoltosa in Italia, dove la solita distribuzione demente ha provveduto a distribuirlo con due anni di ritardo e solo per il mercato home video.

Il quarto titolo da regista di Tommy Lee Jones - contando i due tv-movie The Good Old Boys del '95 e Sunset Limited del 2011, adattamento di un testo teatrale del molto affine Cormac McCarthy - è tratto dall'omonimo e ultimo romanzo di Glendon Swarthout, che negli anni 70 aveva già regalato al cinema western la storia per l'addio di John Wayne, Il Pistolero di Don Siegel.

The Homesman è un racconto di viaggio e di follia. Tre donne impazziscono per le impossibili condizioni di vita della frontiera. Per una sorta di riscatto personale una ranchera senza famiglia (Hilary Swank) si assume l'incarico di trasportarle con un carro all'est, dove potranno essere almeno accudite. Un vagabondo a cui la donna salva la vita (Tommy Lee Jones) diventerà il suo ispido e poco motivato compagno di viaggio.

Curiosamente nel 2008 era uscito un fiacchissimo filmetto per la tv con una trama molto simile, La febbre della prateria (Prairie Fever) di Stephen Bridgewater e David S. Cass, dove a dover trasportare nella prateria con un carro tre donne impazzite era Kevin Sorbo, l'Hercules televisivo degli anni 90. E già solo questo fa intuire la differenza di tono tra le due pellicole.



Come già ne Le tre sepolture l'attore-regista dimostra di possedere una sensibilità unica, sia come narratore laconico di personaggi indimenticabili e umanissimi, sia nel saper catturare su uno schermo la gelida e indifferente bellezza della natura, riuscendo a creare atmosfere sature e nitide, di un profondità allusiva che rimanda al miglior cinema americano degli anni 70. Un altro racconto di viaggio attraverso paesaggi splendidamente desolati, che diventano lo specchio crudele in cui i due protagonisti saranno costretti a specchiarsi.

The Homesman è anche un film sulla follia, raramente sbattuta in faccia allo spettatore in modo così diretto e brutale in un film di finzione, soprattutto americano. Non si fanno molti sconti allo spettatore nel mostrare cause ed effetti della malattia mentale delle tre donne. Nella prima mezz'ora di film Tommy Lee Jones usa delle sconnessioni temporali per creare un accavallarsi imprevedibile di brevi sequenze, in cui si mescolano pugni nello stomaco (un neonato gettato in una latrina) e episodi di ambiguità fantasmatica, in cui lo spettatore non sempre comprende se quel che vede è la realtà o sono situazioni filtrate dalla mente allucinata delle tre donne impazzite.



Come in altri titoli di questi ultimi anni è un film che mette in scena un punto di vista femminile sul West. Quello distorto delle tre donne malate, che fuggono attraverso la follia da una vita di una durezza insopportabile. E quello dispertamente solitario della protagonista, condannata a restare una "signorina" perché la sua ipersensibilità e il suo bisogno di calore umano sono scambiati per smania zitellesca di trovare "l'uomo di casa" del titolo. L'immagine di Hilary Swank che finge di suonare un piano ricamato su un tappetino è una folgorante metafora del labile confine tra sanità e malattia mentale, differenza spesso stabilita solo dal contesto. Ma pur mostrando simpatia per le sue anti-eroine Tommy Lee Jones non concede letture consolanti. Se il suo è un cinema che ritrae un mondo di perdenti e di esistenze al margine, le donne in quel mondo sono destinate alle sconfitte più feroci e totali. Nessuna cura attende le tre malate alla fine del viaggio e anche il tentativo della protagonista di trovare una dignità per se stessa e per le tre poverette verrà ripagato dalla realtà nel più spietato dei modi.

Allo stesso tempo è impossibile non provare simpatia per il personaggio interpretato dallo stesso Tommy Lee Jones, nonostante sia un concentrato di tutti i peggiori vizi che si possono attribuire ad un maschio adulto: vagabondo, perditempo, sporco, rozzo, insensibile, egoista, all'occorrenza assassino spietato. L'incontro con le quattro donne lo costringe per un momento ad uscire dalla sua vita stordita e senza scopo, ma è una crescita umana da cui ricaverà solo rimorsi e il realizzare della sua irrimediabile solitudine.

La presenza di Hailee Steinfeld, nella parte della ragazzina a cui il protagonista fa una tragicomica proposta di matrimonio, suggerisce un accostamento con la recente versione de Il grinta. Se il film dei Coen descriveva un mondo in cui il paradosso e l'irrazionale erano dentro la realtà stessa delle cose, Tommy Lee Jones si spinge un po' più in là descrivendo un mondo in cui è la follia ad essere insita in ogni cosa, nella crudeltà inconcepibile della natura, nella violenza irrazionale che sembra governare il comportamento di tutti i personaggi che i protagonisti incontrano durante il viaggio.



Quello che Tommy Lee Jones ricava dal romanzo di Swarthout è anche un affondo politico nerissimo e spietato nei confronti dell'America dei giorni nostri. La metafora non potrebbe essere più esplicita e potente quando si assiste ad una delle rese dei conti finali più nichiliste e casuali mai viste. Resa dei conti non gratuita, però. Con la stessa rabbia senza speranza con cui il suo personaggio porta a compimento una vendetta che non porta alcun sollievo o senso di giustizia, così l'autore descrive una grande nazione fondata sul sangue e il sacrificio di pionieri poveracci e disperati, dove alla fine però a stabilire chi possiede cosa, a spartirsi la torta e a banchettare (letteralmente) sono solo i più ricchi e avidi. Una visione del tutto simile a quella del Cimino de I cancelli del cielo (significativa la presenza di un cameo di Meryl Streep, scoperta proprio da Cimino ne Il cacciatore), probabilmente meno scandalosa solo perché quello di Tommy Lee Jones è un film a basso costo, non un kolossal eretico che "spreca" una montagna di dollari per attaccare una società fondata sul dollaro.

Una visione che a poche settimane dalla grottesca vittoria di Trump acquista ulteriore lucidità e si illumina di luce ancora più sinistra, ma che non è ottusamente manichea. Il film si guarda bene infatti dallo scadere nella retorica inversa e non idealizza in nessun modo la figura del povero colono e dell'America provinciale, di cui anzi mostra la violenza, la grettezza, l'egoismo, l'insensibilità e soprattutto la profonda ipocrisia morale.

I tentativi di ristabilire un po' di giustizia nelle cose o anche solo i semplici atti di gentilezza sono sterili e spesso postumi: la vendetta senza catarsi del protagonista, il tentativo di dare alle tre donne impazzite un'esistenza più dignitosa da cui probabilmente non trarranno comunque beneficio, il tema delle sepultura come ultimo ed estremo atto di rispetto della dignità umana. Tema quest'ultimo che riporta a Le tre sepolture, film che nella sua cupezza necrofila lasciava nel finale uno spiraglio alla speranza, una possibilità di riscatto attraverso l'assunzione (pur coercitiva) di un senso di responsabilità verso il prossimo. Spiraglio di speranza negato in The Homesman.

Il finale è solo oblio, solitudine e disperazione affogata nell'alcool. Le uniche paradossali testimoni della vicenda sono tre donne, rese virtualmente cieche e mute della loro follia. Il tempo cancellerà ogni cosa, come la corrente del fiume porta via la lapide di legno, in una delle immagini finali più potenti e sconsolate del cinema recente.



Nel ruolo potenzialmente scivoloso delle tre malati mentali se la cavano con classe e intensità Grace Gummer, figlia di Meryl Streep, la collaudata caratterista Miranda Otto e l'attrice danese Sonja Richter.

Hilary Swank aggiunge un altro indimenticabile personaggio nella sua galleria di beautiful loser al femminile. Riesce a commuovere senza essere lacrimosa, rendendo in pieno le sfaccettature di un personaggio tanto apparentemente spigoloso e prosaico quanto alla fine fragile e poetico.

Tommy Lee Jones sembra uno dei pochi veri sopravvissuti della New Hollywood, stagione che per altro lo vide come attore di seconda fila. Mentre molti divi di quell'epoca sono tristemente decaduti, il suo carisma e la sua figura sono invece cresciuti, rendendolo oggi una specie di Clint Eastwood alternativo, meno glamour e ancora più fuori dalle mode.
Tempo fa fece molto ridere l'immagine di lui unico serio in mezzo a una ridanciana folla hollywoodiana. Anche si fosse trattato di una posa o di una gag preparata, è un'immagine che ci sembra rappresentare alla perfezione i suoi film da autore completo, un cinema adulto e serio in un panorama cinematografico sempre più infantile e scemo.

Del resto, in confronto a un film complesso, profondo e esemplare come The Homesman, anche alcuni film recenti trattati bene e benino in questo blog ci fanno un po' la figura di film per bambini.

venerdì 2 dicembre 2016

Kill Or Be Killed



2015 Kill Or Be Killed
di Duane Graves, Justin Meeks con Justin Meeks, Paul McCarthy-Boyington, Gregory Kelly, Deon Lucas, Bridger Zadina, Larry Grant Harbin, Arianne Martin, Luce Rains, Timothy T. McKinney, Edwin Neal, Michael Berryman

Una banda di tagliagole, dopo aver fatto evadere un loro complice, si mette in viaggio per andare a recuperare il bottino di una rapina. Durante il tragitto si lasceranno dietro una scia di sangue. Oltre agli sceriffi qualcosa di ben più temibile si metterà alle loro calcagna.

Bella sorpresina, che riconcilia con la spesso frustrante abitudine di rovistare nel cinema più marginale e arrabattato in cerca di perle misconosciute. Weird western, a conti fatti più western che weird, con una componente thriller al limite dell'horror, omaggiando il cinema più cinico e sensazionalista degli anni 70.

Mettiamo in chiaro la natura del film: trattasi di pellicola dignitosamente guardabile, ma assolutamente e implacabilmente low budget. Le scene d'azione sono girate al risparmio, con spari e incendi visibilmente aggiunti in post-produzione, e gli attori sembrano per lo più non-professionisti. Dice tutto che il maggior valore produttivo del film sia il fulmineo cameo di Michael Berryman, caratterista lombrosiano dal distintivo testone a cono visto in decine di b-movie dagli anni 70 ad oggi. Per altro utilizzato in una particina in cui potrebbe esserci stato chiunque altro al suo posto. Berryman è anche produttore associato del film; a naso potrebbe significare che ha lavorato gratis o per un tozzo di pane e che gli è stato promessa una parte degli (improbabili) incassi del film.

Insomma, se cercate un film fatto come dio comanda, professionale e rifinito, rivolgete la vostra attenzione pure ad altro. Se invece siete in vena di godervi lo spettacolino di un luciferino e ghignante gran-guignol allestito nel vecchio West, accomodatevi. Non è detto che ne resterete soddisfatti, ma troverete pane per i vostri denti.



Come altri western a basso budget, ma con una certa ambizione, di questi anni, Kill Or Be Killed racconta di un percorso verso il nulla e la morte. Intuizione visiva felice che il punto di arrivo del viaggio dei personaggi, il nascondiglio del bottino, sia segnato da un buco su una mappa. La storia inizia come una commedia violenta e picaresca, ma ben presto diventa un piccolo viaggio all'inferno, con un accumularsi di nefandezze che crea un clima malato di totale amoralità. Poi si trasforma ancora in uno slasher stralunato, privo di una suspense tradizionale, dove gli omicidi sembrano punizioni bibliche. Il finale, onirico e agghiacciante, è uno di quelli capaci di far venire la bava alla bocca agli appassionati della verosimiglianza, ma per chi scrive è il colpo di coda finale che eleva il tutto da filmetto interessante a operina compiuta, con una sua poetica e una sua ragione di esistere.

Lo sviluppo narrativo è quanto meno sgangherato, con almeno un paio di personaggi interessanti che si perdono per strada (tra cui un prete bellicoso), ma Kill Or Be Killed è anche un film a suo modo ben calibrato, non una pellicola che si limita a spingere biecamente il tasto della violenza. Violenza che infatti più che mostrata viene fatta intuire, esibendone più spesso le conseguenze. Le scene più crudeli vengono sempre lasciate fuori campo, con l'effetto di risultare più inquietanti, mentre abbondano invece i particolari più grotteschi (uno dei protagonisti quasi in ogni scena subisce una qualche mutilazione). Una probabile costrizione dovuta alla ristrettezza del budget trasformata in una scelta stile.

Soprattutto è un film coerente che sa creare un suo piccolo mondo allucinato. Il west messo in scena è un posto grottesco e squallido, popolato solo da prede e predatori, dove si uccide casualmente e in genere per i motivi più meschini e stupidi. Nel cervello di quasi tutti personaggi del film non alberga troppa intelligenza. A cominciare dai protagonisti. Una banda di mezzi freak i cui delitti vanno dall'omicidio a sangue freddo allo stupro, che vediamo anche commettere piccoli crimini miserabili, di solito furbamente evitati nel cinema che mette in scena dei fuorilegge. Tipo compiere una mezza strage per rubare le offerte di una chiesa o rapinare poveracci come prostitute e barcaioli.



I due registi, Duane Graves e Justin Meeks (il secondo anche attore protagonista non male, che qui mostra una vaga somiglianza con Oliver Reed, anche per via della stazza), sono una coppia di sinceri appassionati del vecchio cinema da drive in e dei grindhouse. Tra i molti emuli dunque dei soliti Tarantino / Rodriguez / Rob Zombie, ma meglio della maggior parte di quei molti. I loro due precedenti lungometraggi sono due horror che, dai trailer, sembrerebbero interessanti: The Wild Man of the Navidad del 2008, dall'originale e pittoresca ambientazione redneck, e Butcher Boys del 2012, che pare una specie di versione suburbana di "Non aprite quella porta". Sembrerebbero particolarmente ispirati nel trovare l'orrore in contesti tipicamente americani, intrisi di folklore e disagio sociale, cosa che accade anche in questa loro terza prova .